Samuel Beckett e il teatro dell’assurdo: ‘Aspettando Godot’ e il bisogno di andare oltre il Tempo

Molte delle esperienze sperimentali e d’avanguardia del Novecento hanno agito soprattutto modificando la scrittura e la struttura letteraria, senza la proposta di particolari aspetti ideologici. Tuttavia altri scrittori, in particolare di teatro, hanno inserito nella loro sperimentazione letteraria un’aperta riflessione filosofica sulla crisi dell’uomo contemporaneo. Tra essi spiccano l’irlandese Samuel Beckett (1906-1989) e il rumeno Eugène Ionesco (1912-1994), autori di quello che viene definito il teatro dell'”assurdo” per l’assoluta assurdità delle situazioni messe in scena, a rappresentare la crisi della vita sociale e l’impossibilità di una vita di relazione fondata sulla comunicazione interpersonale.

Con Aspettando Godot, scritto in francese e non nella propria lingua per poter risultare più distaccato dalla materia sulla quale sta operado, Beckett presenta la lunga attesa del personaggio misterioso di Godot, da parte di due personi comuni, che nel frattempo sviluppano un dialogo privo di senso, come privi di significato sono gli interventi di altri due personaggi, uno dei quali è tenuto alla corda quasi fosse un animale. Godot non arriva, anche se resta aperta la speranza che compaia l’indomani: chi sia,, del resto, non solo nessuno lo sa, ma non si può nemmeno arrivare a interpretarlo con certezza , come afferma lo stesso scrittore interpellato al riguardo.

Beckett e il suo capolavoro Aspettando Godot

La simbologia sottesa al testo teatrale di Beckett resta dunque inespressa e forse ogni lettore e spettatore può introdurre la propria interpretazione. In Aspettando Godot, tuttavia, come negli altri testi di Beckett, da Finale di partita, a Giorni felici e nelle pagine narrative di Molloy, Malone muore, e L’innominabile, usciti negli anni ’50, Beckett esprime il suo più radicale nichilismo dell’esistenza umana. Come i personaggi dei suoi drammi o della sua narrativa, ogi uomo è infatti isolato da tutti gli altri, con i quali non può entrare, per nessuna ragione, in comunicazione.

Al dialogo quindi si sostituisce il monologo, alla parola il silenzio. Se in Atto senza parole, un uomo, solo sulla scena e muto, cerca, invano, di afferrare alcuni oggetti che scendono dall’alto, in Respiro, dramma di 35 secondi aperto da un vagito e chiuso da un rantolo, domina il nulla. Proprio questo ulla compreso nei pochi secondi tra il vagito e il rantolo di Respiro diventa l’emblematico simbolo della vita umana del nichilismo filosofico di Beckett, che radicalizzado in direzione dell’assurdo la scrittura teatrale, ha voluto mettere in scena, attraverso nuove forme di rappresentazione, la crisi dell’uomo nella realtà contemporanea.

Senza dubbio Aspettando Godot è l’opera più conosciuta di Beckett, nonché tra le più rappresentative e di successo del Novecento, una tragicommedia costruita intorno alla condizione dell’attesa, si è detto, ma probabilmente, come ha notato qualche critico, c’è più di una chiave di lettura. In Godot si è cercato di vedere un simbolo: Dio (Godot-God), il destino, la morte, la buona sorte. Dal canto suo, l’autore irlandese ha sempre dichiarato che se avesse saputo chi fosse Godot lo avrebbe scritto nel copione. Ma la grandiosità e la fortuna di Godot sta proprio nella sua astrattezza, il che non vuol dire che ognuno di noi è libero di vedere in Godot quello che meglio crede, ma che l’attesa di Vladimiro ed Estragone è la sintesi di tutte le attese possibili.

L’idea dell’attesa è quella intorno a cui ruota anche l’analisi di Annamaria Cascetta nel suo studio sulla drammaturgia di Beckett:

“Quel che si deve fare è ‘passer le temps’: l’espressione, ripetuta più volte, assume il rilievo di una chiave: passare il tempo, ma anche protendersi oltre il tempo“. E a sostegno elenca una circostanziata serie di riferimenti biblici per poi concludere: “La domanda, forse l’unica domanda che veramente interessa [Beckett], è la possibilità o meno che il Fondamento di senso si manifesti […], che si riveli e incontri gli uomini nella storia: è una domanda alimentata dalla suggestione biblica del Dio che incontra appunto l’uomo nella storia […] Beckett ama nascondere nei giochi di parole […] i sensi più profondi: la Bibbia aiuta a passare il tempo, ma anche ad andare oltre il Tempo”. (SamuelBeckett.it)

La rivoluzione teatrale di Beckett

Con Aspettando Godot, Beckett ha rivoluzionato il teatro contemporaneo, mettendo in burletta il linguaggio teatrale: la sua commistione di registri alti e bassi, alternando citazioni teologiche e turpiloquio, si unisce al mix dei generi, disinnescando quelli che fino a quel tempo erano considerati punti fermi intoccabili (azione, trama, significato), con le sue pause, i suoi silenzi, i suoi ritorni inconcludenti. Beckett ha insomma demolito e ricreato il teatro, compiendo un atto liberatorio.

In Beckett si avvertono echi hegeliani, kafkiani e proustiani, e paradossalmente è ravvisabile un certo stimolo, uno sprone verso noi lettori e spettatori ad essere attivi el percorso della nostra vita, a fare, a muoverci. E in questo, in effetti, c’è ben poco di assurdo, nonostante questo manifesto dell’esistenza sia asfissiante e carico di suspence, con i suoi personaggi apatici e per nulla dinamici.

A tal proposito può essere utile roportare le parole dello stesso Beckett a proposito della sua celebre pièce teatrale, rivolte a Michel Polac nel 1952:

“Mi domandate cosa ne penso del teatro e in particolare di “Aspettando Godot”, del quale mi fate l’onore di pubblicarne alcuni frammenti al “Club d’essai”. Non ho idee sul teatro. Non ne so nulla. Non ci vado mai. E’ legittimo. Quello che forse lo è meno è di scrivere un’opera e, una volta finita, di non avere nemmeno idee su quanto si è scritto. Purtroppo questo è il mio caso. Non è dato a tutti di poter passare dal mondo che si apre sotto la pagina a quello dei profitti e perdite, e ritorno, imperturbabile, come tra il lavoro e il Café del Commercio. Non ne so di più di quest’opera di colui che la legge con attenzione. Non so in quale spirito l’ho scritta. Non so nulla dei personaggi se non ciò che dicono, ciò che fanno e ciò che succede loro. Del loro aspetto ho dovuto indicare quel poco che ho potuto intravedere. La bombetta per esempio. Non so chi sia Godot. Non so neanche, soprattutto, se Godot esiste. E non so se ci credono o meno, i due che lo aspettano. L’entrata in scena degli altri due verso la fine di ognuno degli atti è forse dovuta al bisogno di rompere la monotonia. Tutto quello che ho potuto sapere l’ho mostrato. Non è molto. Ma mi è sufficiente, e di gran lunga. Direi che mi sarei anche accontentato di meno. Quanto a voler trovare a tutto questo un senso più ampio e più elevato, da portarsi via dopo lo spettacolo, con il programma e il gelato, sono incapace di trovarci l’interesse. Ma questo deve essere possibile. Io non ci sono più e non ci sarò mai più. Estragon, Vladimir, Pozzo, Lucky, i loro tempi e il loro spazio, non ho potuto che conoscerli un poco, molto lontano dal bisogno di comprendere. Forse vi devono delle spiegazioni. Che se la vedano loro. Senza di me. Loro ed io siamo pari”.

 

 

 

 

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