‘Lettera al mio giudice’, il femminicidio raccontato da Georges Simenon

Opera del 1947 dalla scrittura sobria, atmosfere parigine come quelle di film quale “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, pellicola del 1938, Lettera al mio giudice di Georges Simenon è un libro dalla narrazione sempre tesa, anche perché, dopo l’introduzione, è il protagonista stesso che racconta via via ciò che vive – azioni, pensieri, sentimenti – un protagonista peraltro singolare nella sua assoluta “normalità” borghese.

Di grandissima attualità, Lettera al mio giudice è uno dei più famosi di Simenon, e racconta quel che oggi è chiamato femminicidio, e un femminicidio messo in atto per una forma malata di amore: da un lato quella dell’uomo che aspira a possedere la totalità della “sua” donna, anima e corpo, passato e presente, fantasie sentimenti pensieri, innanzitutto quelli relativi alla sfera sessuale, a fare di lei un oggetto conforme ai propri desideri, e dall’altro quella della donna che, incapace di difendere la propria integrità psicologica prima ancora che fisica, si sottomette a lui e si sente tanto più amata quanto più la smania di possesso di lui si fa violenta: soffre non sentendomi tutta tutta sua, quindi mi ama davvero. Non casualmente lei è povera, di scarsa cultura e non particolarmente intelligente: inferiore a lui e dunque vulnerabile, insomma.

Quanto a lui, egli ha inconsapevolmente maturato nel tempo un desiderio di rivalsa nei confronti de “la donna”, ossia la madre, alle cui aspettative egli si è adeguato, innanzitutto ascendendo ad un livello culturale e socio-economico superiore a quello delle sue origini, e poi la seconda moglie, Armande, da cui si è sempre sentito diretto tanto da non sentirsi veramente “in famiglia” con lei e le due figlie.

Attraverso le parole di lui seguiamo dunque la progressiva riduzione della libertà di lei e l’estendersi del dominio dell’uomo sulla donna fino all’irrimediabile atto finale. Simenon dà infatti la parola direttamente all’assassino, il dottor Charles Alavoine, notabile in una cittadina di provincia, e ci mostra il percorso tortuoso che la sua mente compie per arrivare ad uccidere la donna amata  – non la moglie poco amata e spesso detestata -,  non per punirla di un qualche tradimento, come per esempio avviene ne “La sonata a Kreutzer” di Tolstoj, ma come gesto estremo d’amore.

Vorrei tanto che un uomo, un uomo solo mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei

Qual è l’infingimento, il sofisma, l’alibi cui la sua mente … no, la sua affettività malata ricorre per giustificare la propria furia distruttrice nei confronti della poveretta? “Liberarla” da quelli che chiama i suoi  – suoi di lui –  “fantasmi”, che poi sono la consapevolezza che lei ha già fatto l’amore con altri uomini, uomini raccattati nei bar che ama frequentare (e a proposito di bar, Simenon li ama perdutamente come ama tutti i territori “ai margini” e ha un suo tipico modo di rappresentarli che porta una chiara impronta esistenzialista).

Perché Alavoine scrive una lettera al suo giudice e non per esempio un diario? E perché prima dell’esito del processo? Perché è convinto  – non si sa se a torto o a ragione – , che egli capisca e anzi intuisca le sue ragioni grazie ad una superiore sensibilità rispetto a tutti gli altri, i quali hanno visto nel suo atto l’esito di una gelosia giustificata dai trascorsi della vittima, la quale in passato aveva avuto molteplici relazioni anche prostituendosi, tanto giustificabili  – quella gelosia e perciò l’assassinio –  che la moglie si dichiara persino pronta a riaccogliere il marito se assolto.

Se Alavoine si suicida e  senza nemmeno aspettare il verdetto, che potrebbe anche non essergli sfavorevole, non è solo perché la vita senza Martine non avrebbe senso, non è solo per seguirla nella morte, ma perché la sua eventuale assoluzione o la riduzione della pena, significherebbe avallare l’idea che  ella fosse una donna di poco valore, indegna del suo amore. E questo lui non lo vuole. In un certo senso, è così che l’uomo le dimostra il suo amore.

Non sono pazzo. Sono soltanto un uomo, un uomo come gli altri, ma un uomo che ha amato e sa cos’è l’amore. Vivrò in lei, con lei, per lei, finché mi sarà possibile, e se mi sono imposto questa attesa, se mi sono imposto quella specie di farsa che è stato il processo, è perché lei deve continuare a vivere in un altro, a qualsiasi costo.

 

 

 

‘Storia di un presidente che si credeva un topo’, la pandemia vista da Giuseppe Tecce

“Storia di un presidente che si credeva un topo” di Giuseppe Tecce è un romanzo in cui si mescola realtà e fantasia per parlare di questa pandemia che ha cambiato per sempre le vite e i progetti di tutti gli esseri umani. Con una scrittura molto attenta a descrivere anche i gesti più semplici compiuti dal protagonista – che si chiude a causa del Coronavirus in una quarantena ad oltranza, ben oltre i limiti indicati dalle disposizioni governative – si narra la storia di un uomo le cui azioni, anche le più piccole, diventano fondamentali nella sua routine quotidiana, essendo l’appiglio a cui aggrapparsi per non perdere la lucidità.

Andrea è un uomo metodico e tranquillo; è il presidente di una cooperativa sociale ed è appassionato di testi medici, che divora nel tempo libero per mitigare la sua ipocondria. L’autore ci fa entrare nella sua vita nel momento in cui, agli inizi di marzo 2020, il mondo si è fermato per cercare di contrastare l’avanzata del Covid19; Andrea è confuso dai primi decreti che parlano di misure restrittive e di un numero di contagi sempre più elevato, ed è anche spaventato dalla possibilità di prendere il virus essendo affetto da diabete mellito.

«Andrea si svegliò alle sette e quaranta. Sentì un nodo alla gola, non riusciva ad accettare di essere prigioniero dentro la sua stessa casa».

L’autore presenta quindi un diario del lockdown, sin dal giorno uno, in cui descrive l’atteggiamento maniacale adottato dal protagonista per affrontare quel periodo di smarrimento: ad esempio, ogni mattina si osserva attentamente allo specchio, come per essere sicuro di riconoscersi ancora. Lentamente, però, si abbandona alla monotonia della sua “prigionia”, diventando sempre più apatico e nervoso – «Il senso di peso psicologico che Andrea portava dentro di sé – ben oltre la solita sensazione di ansia – era un macigno, messo in bilico tra testa e cuore, che sbilanciandosi, verso l’uno o verso l’altro, lo portava a sragionare o ad avere le palpitazioni». Andrea non fa che pensare al virus e, quando scopre che si sta sperimentando un vaccino, è ossessionato dall’idea di trovare un modo per essere vaccinato al più presto, per «salvarsi dall’imminente distruzione del genere umano».

Mentre il protagonista svela il suo esasperato individualismo che sfocia in un egoismo senza pari, un evento a dir poco surreale lo spinge a cambiare la direzione del suo sguardo; forse una possibilità di salvezza c’è, per quanto sia estremamente azzardata, e potrebbe anche redimerlo dalla sua codardia.

Giuseppe Tecce racconta una storia emozionante che si conclude con un finale profondamente amaro e audace, che lascia un pressante interrogativo sulla veridicità di ciò che ci è stato appena narrato.

 

SINOSSI DELL’OPERA. Andrea è lo storico presidente di una cooperativa sociale di Benevento. La sua routine, divisa tra gli impegni lavorativi e quelli familiari, subisce una battuta d’arresto che coinvolge buona parte della popolazione terrestre: la pandemia causata dal Coronavirus ridisegna le ascisse e le ordinate della quotidianità. Per Andrea è l’inizio di un periodo di forte disorientamento, poiché la sua salute è fragile e il timore del contagio lo porta all’autoreclusione, oltre i confini del lockdown. Quando cominciano a circolare le prime notizie relative a delle sperimentazioni in un istituto di Napoli, cresce in lui una speranza e in parallelo anche una consapevolezza: se fosse un topo, potrebbe avere un canale privilegiato per raggiungere il prezioso vaccino. E a desiderare troppo qualcosa, a volte, si ottengono risultati insperati.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Giuseppe Tecce (Benevento, 1972) è laureato in Giurisprudenza e dal 2001 è presidente di una cooperativa sociale di Benevento che si occupa di servizi dedicati a persone svantaggiate ed emarginate, realizzando strutture residenziali di accoglienza per minori temporaneamente allontanati dal proprio nucleo familiare, per persone affette da disabilità psichica e per migranti. Tra il 2012 ed il 2018 è stato presidente del Consorzio di Cooperative Sociali ASIS nella Regione Campania, specializzandosi nella realizzazione di progetti europei. Si occupa di tutela del territorio, valorizzazione e conservazione del patrimonio culturale e di paesaggio tra il Sannio e l’Alta Irpinia, attraverso l’associazione “I Coccioni”. “Storia di un presidente che si credeva un topo” è il suo primo romanzo, dopo “L’agente della Terra di Mezzo”, il diario di un viaggio in bicicletta nella terra Irpina, e due raccolte di poesie.

 

Casa editrice: Scatole Parlanti

Collana: Voci

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 118

 

 

 

Contatti

www.facebook.com/gtecce

www.youtube.com/giuseppetecce

www.instagram.com/igtnamur

www.giuseppetecce.com

https://www.scatoleparlanti.it/

 

Link di vendita online

https://www.scatoleparlanti.it/prodotto/storia-di-un-presidente-che-si-credeva-un-topo/

 

 

I deliri e l’ignoranza di Don Roberto Saviano

Roberto Saviano torna nuovamente a far parlare di sé. In occasione del 79° Festival del Cinema di Venezia, ha pronunciato parole che stanno facendo molto discutere:” La cocaina andrebbe legalizzata, solo così si bloccherebbero i pozzi di petrolio delle organizzazioni criminali. La cocaina regna perché la vita è una merda, che ti fa sentire troppo brutto, troppo povero, troppo grasso. Se io le dessi ora un sacchetto di cocaina (ha detto Saviano rivolgendosi al giornalista), lei la venderebbe prima ancora di lasciare il Palazzo del Cinema”.

Mentre in Italia si dibatte da anni se legalizzare la cannabis, Saviano si spinge oltre, proponendo la liberalizzazione della cocaina per contrastare il mercato nero e il business delle organizzazioni criminali. Addirittura, secondo alcuni malpensanti, Saviano avrebbe adoperato queste pericolose esternazioni, che meritano di essere decostruite da cima a fondo, per pubblicizzare ZeroZeroZero, serie Tv tratta da un suo romanzo.

Chiariamoci, la cocaina non va assolutamente legalizzata. A Roberto Saviano che crede che così facendo si sottrarrebbe il mercato alle mafie, rispondiamo ripercorrendo il pensiero di Paolo Borsellino.

Anche se, per usare le parole di Nicola Gratteri: “Non esiste attività lecita o illecita più redditizia del traffico di cocaina”, non si può fare un’equazione tra mafia e traffico di sostanze stupefacenti, perché la mafia esisteva anche prima di questo traffico e, anche se lo Stato riuscisse teoricamente a sottrarre alla criminalità tutto il mercato della cocaina legalizzandola, le mafie non ne uscirebbero sconfitte poiché riconvertirebbero i loro già innumerevoli guadagni in altri settori.

Ma ancora, più realisticamente bisogna ammettere che legalizzando la cocaina non si eliminerebbe affatto il mercato clandestino, perché le categorie più deboli e meno protette, come i minori che non potrebbero accedervi, sarebbero le prime a rifornirsi sul mercato nero, assieme probabilmente alla maggioranza della domanda per ragioni di prezzo.

È terribile da pensare, ma non è sicuro che uno Stato democratico, in cui all’efficienza si preferisce il pluralismo, riesca a sottrarre l’intero mercato ad un’organizzazione non democratica, gerarchizzata, razionale ed estremamente efficiente come la ‘Ndrangheta che già opera a pieno regime, importando dalla Colombia gran parte della cocaina che si vende sul mercato nero. Non è sul terreno dell’illegalità che lo Stato deve rincorrere le mafie per sconfiggerle.

Inoltre, potrebbe essere conveniente ma non giusto moralmente che lo Stato si arricchisca tassando e lucrando su qualcosa che nuoce alla salute e crea dipendenza nei cittadini, in una illogica-logica che vedrebbe innalzarsi vertiginosamente le spese sanitarie per finanziare percorsi di recupero, creando una piega sociale come già accaduto con il gioco d’azzardo.

Legalizzare la cocaina vorrebbe dire diminuire la disapprovazione sociale che il suo consumo comporta riducendo la percezione del rischio, ciò ne farebbe aumentare la domanda. Una società in cui attraverso la legge si incentiverebbe l’utilizzo della cocaina per rincorrere i frenetici ritmi della vita post-moderna e per gestire le relazioni sociali, sarebbe una società intrinsecamente malata, depressa e psicotica, in cui la devianza diventerebbe la normalità.

Caro Roberto Saviano, la vita non è solo una merda che ti fa sentire troppo brutto, troppo povero o troppo grasso, fino a quando si ha la lucida capacità di autodeterminarsi; lo spaccio della droga è una piaga da non incentivare che lo Stato deve sconfiggere, non un terreno sul quale rincorrere e competere con le organizzazioni criminali.

Cari lettori, sceglietevi degli intellettuali che vi mostrino e vi educhino alla bellezza, non alla degenerazione.

 

Matteo Cosco

‘Ammazza la star’, il nuovo romanzo di Francesco Consiglio rivolto a chi non pretende solo la verità da un romanzo

Un metaromanzo non ordinario, impietoso, un libro che prende per il culo il lettore che pretende solo la verità (sebbene ci sia sempre di fondo un po’ di verità in ogni opera, soprattutto se lo dichiara), o meglio la realtà davvero vissuta, da chi scrive: è questo l’ultimo libro di Francesco Consiglio, già autore de Le molecole affettuose del lecca lecca e Qualunque titolo va bene. Romanzo a pezzi, che reca il titolo Ammazza la star, edito da Castelvecchi nel 2018.

L’ultima fatica letteraria di Consiglio ha tutta l’aria di rivolgersi proprio a quel lettore “medio” che si nutre di TV, videogiochi, cronaca nera per mostrargli l’identikit del serial killer tipo attraverso l’utilizzo del flusso di coscienza. Peccato che il lettore in questione faccia fatica a comprendere il senso tragico apparentemente nascosto dal sarcasmo e dal grottesco, di questo originale romanzo per quanto ne riguarda soprattutto la struttura e l’impostazione. L‘incipit di Ammazza la star è una ridicola giustificazione dell’essere killer di donne, secondo il protagonista, che vuole modificare l’esito delle storie dei cartoons che hanno influenzato la sua infanzia e reso il protagonista, un uomo da analizzare, conoscere solo in chiave naturalistica-antropologica, alla maniera di Zola.

Francesco, come recita la sinossi del romanzo, il serial killer, è un uomo inutile e solitario che coltiva il desiderio ardente di diventare famoso uccidendo una star dello spettacolo; e quello di Paola, insegnante precaria che cerca di riscattare un’esistenza sterile catturando il killer senza l’aiuto della polizia e raccontare poi la sua impresa in un libro di successo. Le loro vite si intrecciano e si confondono con quelle di un’umanità paradossale nascosta nell’apparente quiete della provincia italiana. Sono dunque due i punti di vista presenti in queste pagine suddivise in brevi capitoli che fanno di Ammazza la star un romanzo frammentario, disorganico che offre qui e là, al lettore i pensieri mediocri conditi di ironia e autoindulgenza di una nullità che le cui visioni quotidiane sono protagonisti di film truculenti, romanzi, pubblicità e TV, sogna di diventare famoso grazie ai propri omicidi.

Consiglio cerca di dare una nota di originalità ed ineluttabilità anche in alcune risposte che dà il serial killer a delle ipotetiche domande del tipo “Perché lo fai, perché le donne?”: “Perché è più facile”. In realtà, se l’autore avesse voluto essere più tranchant, scandaloso e politicamente scorretto nel delineare un profilo di uno psicopatico che non ha rimorsi, avrebbe potuto far commettere al suo alter ego omicidi su bambini, bersagli facili per eccellenza, o su donne molto anziane. Ma forse sarebbe stato troppo anche per chi ambisce ad evitare di parlare cosa è bene e cosa è male per non risultare moralista, manicheo e noioso. Senza contare che non sarebbero potute essere “giustificate” le spudorate incursioni sessuali; probabilmente avrebbero sconquassato il lettore che invece potrebbe sentirsi divertito o leggermente stranito nel leggere il bollettino medico di un essere umano nella società del capitalismo selvaggio dove si sognano la fama e il successo.

Se da una parte Consiglio mette nero su bianco in maniera asciutta, adottando uno stile quasi cinematografico, una vicenda paranoide, tragicamente divertente o divertentemente tragica a seconda dei punti di vista, per mostrarci lo stato mentale e fisico di chi sogna di andare in TV e di ricevere lettere da fan squilibrate che vedono un assassino come una star al pari di un attore di Hollywood o di un calciatore di serie A, dall’altro ne risulta un romanzo freddo e a tratti ripetitivo, ma probabilmente proprio in virtù del fatto che l’assassino-scrittore impotente che brama la fama, è “rituale” e ossessivo nei suoi pensieri.

Potrebbe apparire come un rappezzo ma l’analisi cruda di un pezzo della nostra società attraverso l’immedesimazione nella mente di un disturbato per dimostrare che non per forza un romanzo debba raccontare la verità ai lettori ai quali tuttavia, garbano anche confortanti menzogne, può fungere da sprone ad invogliarci a vedere come ci siamo ridotti: esseri senzienti che espletano i loro bisogni primari di cui si diventa schiavi, incapaci di discernimento, fagocitati dalla virtualità, dalla tecnologia, consolati e giustificati dalla TV, da film maledetti come Tetsuo, eccitati dalle pubblicità di Charlize Theron, rassegnati. Ammazza la star, però è un’opera asfissiata da un surplus di pretese inversamente proporzionali alla consistenza di ciò che si concretizza nelle quasi 300 pagine; non vi sono riferimenti al contesto storico-politico-culturale di più amplio respiro, non si scava a fondo nella melma e nel fango che si celano nell’animo umano, non basta l’ironia che aiuta l’autore a non erigersi a moralista, a far contorcere le viscere, non inquieta. Ammazza la star diverte, fa riflettere, ci sbatte in faccia parte di una realtà di cui dovremmo provare vergogna, con la sua già citata ironia, marchio di fabbrica dello scrittore, pare sminuire la pericolosità dello sfigato protagonista, rendendocelo quasi poco credibile fin dall’inizio (complice anche la trama bizzarra), ma non è il vero senso del maledetto, ad accompagnare la penna di Consiglio, bensì il gusto per il politicamente scorretto, del dissacrante, l’insofferenza, anche a ragione, verso una determinata tipologia di scrittori che vanno di moda oggi e che vendono.

Consiglio non giudica il suo protagonista, lascia che sia il lettore a farsi un’idea e racconta quello che gli riesce meglio quello che possiamo vedere noi ogni giorno, soprattutto per quanto concerne certi aspetti fisiologici… Stop. E’ poco? E’ noioso? Potrebbe sembrarlo ma si spera che chi legga Ammazza la star possa soffermarsi soprattutto su pezzi  come questo: “Ho continuato a sentirmi un povero coglione inadatto a volgere lo sguardo oltre l’orizzonte. E quando ci ho provato, l’ebbrezza di una vita nuova e ancora immaginata mi ha stordito, facendomi perdere di vista i miei obiettivi. Le vedi queste persone sedute attorno a noi? Fanno colazione e tra poco si alzeranno per andare al lavoro. Si sbattono, producono, portano a casa uno stipendio e un pizzico di felicità. Di fronte a me sono giganti, o almeno io li vedo così.” Come del resto lo stesso horror Tetsuo che si diverte a shockare lo spettatore con le sue trovate, si apre a diverse letture. A chi non basta la radiografia della realtà, leggere il raddoppiamento di ciò che è sotto i nostri occhi, e cerca rude poesia, mitopoiesi, forza visionaria, metafisica, quinta essenza della maledizione, ricchezza linguistica, deve rivolgersi altrove. Non solo a Truman Capote, citato dall’autore alla fine del libro.

 

 

 

L’esame di maturità: indice di inadeguatezza

Come riscontrato dai sondaggi di Skuola.net, sono tanti i maturandi che arrivano all’Esame di Stato senza le conoscenze necessarie per affrontarlo nel migliore dei modi

Maturità 2018, le scuole ‘snobbano’ l’attualità: storia e italiano si fermano agli anni ‘50”: suona inquietante, anche se non inaspettato il titolo dell’Ansa del 25 maggio. L’articolo riporta i sondaggi effettuati da Skuola.net ai maturandi del 2018. I risultati erano prevedibili, ma allarmanti. Per quanto riguarda il programma di storia, il 39% del campione sta affrontando ora (a un mese dall’esame!) la seconda metà del Novecento, solo il 14% è arrivato ai giorni nostri ed è in fase di ripasso e la restante parte è in una situazione drammatica: il 23% arriverà appena alla Seconda guerra mondiale, il 12% sta affrontando il periodo tra le due guerre e il 12% non è ancora arrivato al primo conflitto mondiale. Tra i maturandi alcuni rimediano alle lacune studiando per conto proprio, documentandosi su libri o tramite documentari, in altri casi sono i professori a consigliare letture integrative. Ma il 25% degli studenti non studierà ciò che rimarrà fuori programma perché ritenuto inutile ai fini dell’esame.

Per quanto riguarda il completamento del programma di letteratura italiana, la situazione è solo leggermente migliore. Ma se da un lato si fa fatica a completare i programmi, dall’altro le tracce dell’esame sono sempre più orientate verso l’attualità. Per questo, conclude l’articolo dell’Ansa, per molti maturandi “la Maturità 2018 potrebbe davvero partire col piede sbagliato prima ancora di cominciare ufficialmente”. Ma non sta qui il vero problema: questo è solo l’indice di un sistema scolastico fortemente inadeguato che non è in grado di dare agli studenti gli strumenti necessari non solo ad affrontare l’esame nel migliore dei modi, ma anche ad analizzare criticamente gli eventi di attualità. Come si fa ad avere le opportune chiavi di lettura del mondo attuale se la storia per molti maturandi si ferma al 1945? E se, dopo la drastica riduzione delle ore dedicate allo studio della geografia e la scomparsa dell’educazione civica e delle scienze sociali, anche la storia contemporanea cade sotto le bombe di Hiroshima e Nagasaki, cosa rimarrà ai giovani italiani? Un buco nero.

Degni di lode sono quegli studenti che approfondiscono per conto proprio i temi accantonati dal programma, come i professori che, con una corsa contro il tempo, riescono a trattare in maniera esaustiva l’intero e immenso programma o sollecitano i ragazzi a letture integrative. Ma non basta. L’istruzione, la formazione del cittadino, non può essere delegata a professori illuminati o studenti particolarmente diligenti. La conoscenza e l’acquisizione di elementi critici per l’analisi dei tempi moderni è un diritto inalienabile del cittadino che deve assolutamente essere garantito dalla scuola dell’obbligo (o, per lo meno, dal conseguimento del diploma). Ne vale la salute della democrazia. Cosa fare, dunque? Sicuramente urge una seria riforma scolastica, una rivalutazione della scuola con un’immediata fine degli ignobili tagli ai fondi ad essa destinati e una seria riorganizzazione dei programmi (è impensabile, ad esempio, lasciare lo studio di tutta la letteratura e di tutta la storia contemporanea al quinto anno).

Non meno importante sarebbe una “riforma del pensiero”: non valutare lo studio o un insegnamento con gli ignobili parametri dell’utilità e della praticità, che portano ad affermazioni sull’inutilità di un determinato argomento al fine del superamento di un esame o dello studio di una materia (soprattutto se letteraria) per entrare nel mondo del lavoro. E, infine, un appello ai professori (e alle famiglie dei ragazzi): siate tutti illuminati! Lasciate a casa le vostre credenze, non fate dell’insegnamento una propaganda, spronate i ragazzi al ragionamento, al dubbio. Fateli innamorare dello studio. Non limitatevi a spiegare e interrogare, senza passione. Fate capire quanto anche lo studio delle materie umanistiche sia importante, ma non limitatevi a dirlo, provatelo con esempi concreti. È un compito estremamente complesso, è innegabile: ma occorre farlo. La soluzione ai problemi della scuola si avrà solo con l’intervento dall’alto, quando finalmente le sarà riconosciuta la fondamentale importanza che le spetta. Ma le rivoluzioni, ricordiamocelo, partono dal basso.

 

Alessandra Vio

Lo sgombero di Roma in Piazza Indipendenza: un’operazione giusta con buona pace della becera indignazione dei perbenisti e radical chic

Lo scorso 24 agosto a Roma, in Piazza Indipendenza, la polizia ha eseguito la sentenza di sgombero di uno stabile di proprietà privata, che era stato occupato da anni da centinaia di immigrati, quasi tutti regolari. Come al solito il Paese, sia i suoi rappresentanti ai diversi livelli istituzionali e non, sia l’opinione pubblica, si sono divisi, divisione accentuata dalla modalità di tale sgombero.
E’ il caso non solo di partire dai fatti, ma anche di finirci, e solo allora maturare un giudizio.

I fatti sono i seguenti: in Italia vige il diritto italiano. Questo vuol dire che tale diritto, al contrario di quanto pensano alcuni, sia di estrema destra che di estrema sinistra, ma soprattutto di estrema stupidità, è italiano non perché riguarda gli italiani, ma perché riguarda tutti coloro che si trovano sul territorio italiano. Dunque anche gli immigrati regolari. Questi ultimi sono pertanto persone con dei diritti e dei doveri, entrambi, non solo diritti, né solo doveri.
Immigrato regolare, nel caso in questione rifugiato, cioè immigrato riconosciuto come proveniente da un Paese (nel caso Eritrea) in cui la sua vita era in pericolo, ha diritto giuridico, cioè riconosciuto dalla legge (differente dal diritto umano in generale), di avere ospitalità, residenza e alloggio. Ovviamente ha anche i doveri connessi alla sua permanenza nel nostro territorio. Nel caso in questione tali migranti regolari non hanno ricevuto un alloggio, pur essendogli riconosciuto.

Nel nostro territorio, sia per gli italiani che per gli stranieri (regolari o meno che siano), l’occupazione di una qualsiasi proprietà privata è un reato. Occupazione di proprietà privata vuol dire che a casa mia o vostra qualcuno entra con la forza (qualsiasi violazione di domicilio in quanto tale è forzosa, anche se la porta è lasciata aperta per incuria dal proprietario) e ci vive. Non conta che tipo di difficoltà spingano l’occupante ad agire così, resta il fatto che qualcosa di mio, che la legge riconosce come mio, viene rubato da un estraneo, che si giustifica con le proprie difficoltà. Cioè viola il mio domicilio e ruba il mio spazio: è un furto, così si chiama. Al danno come al solito si unisce la beffa, perché il privato in questo caso ha continuato a pagare le bollette di coloro che illegalmente e ingiustamente occupavano la sua proprietà, e ha perso sia i soldi dell’investimento lavorativo che lì voleva attuare, che i posti di lavoro che ne sarebbe conseguiti.

Il privato ricorre alla giustizia dei tribunali, che gli dà ragione: la proprietà è un diritto inalienabile, va ripristinata la proprietà del privato. Tradotto, il palazzo va sgombrato dai migranti.
Siamo in Italia, questo a quanto pare significa che una sentenza venga applicato dopo qualche anno. Cioè qualche giorno fa, nel 2017!

Lo sgombero, a detta di alcuni commenti, è stato eccessivamente violento. Qui si devono sottolineare alcuni impliciti. La violenza di base sta nell’occupazione illegale (cioè, come si diceva su, avvenuta con la forza) del palazzo. Altra violenza ancora sta nell’ammissione del comune di Roma che gli abusivi impedivano anche l’accesso ai funzionari del comune stesso per un censimento e un rapporto sulla situazione. In un tale contesto lo sgombero si attua di fatto con la forza, proprio perché è una risposta a persone che si sono imposte con la forza e che quindi presumibilmente non vogliono andarsene di propria spontanea volontà. E’ plausibile ritenere che se gli abusivi avessero obbedito immediatamente allo sgombero (perché sì, assurdamente, alla legge si obbedisce) le forze dell’ordine non avrebbero dovuto agire coattamente. Gli idranti, i manganelli e i gas lacrimogeni sono usati per spostare persone che la magistratura e la legge avevano stabilito che se ne dovessero andare e che invece facevano resistenza con sassi e bottiglie. A questo punto si inseriscono una mancanza e due episodi in particolare, che hanno suscitato scalpore nei differenti schieramenti.

La mancanza è la più grave di tutte: pare che tale sgombero fosse stato programmato senza che la politica trovasse immediatamente alloggi alternativi, rendendo più comprensibile lo spaesamento dei rifugiati e quindi la loro, pur illegale, modalità di resistenza. Alcune soluzioni stanno emergendo, due delle quali sembrano essere la disponibilità di alcune villette in provincia di Rieti, a 80 km circa da Roma, e le abitazioni sequestrate alla mafia (quindi presumibilmente dislocate soprattutto nel sud Italia). A queste possibili soluzioni i rifugiati pare abbiano risposto inizialmente, almeno stando alla interviste, con un rifiuto. Ora, lo stato dovrebbe garantire al rifugiato un alloggio, non anche la località che lui preferisce. Rieti non piace, peggio per loro: l’ospitalità, per quanto garantita dalla legge, non può permettere di diventare lo sfruttamento dei fessi. Si accampano scuse del tipo che da Rieti è difficile raggiungere Roma, o che le scuole ormai erano vicine a dove loro vivevano illegalmente. Certo, ma le scuole esistono anche a Rieti e nel sud Italia, mentre i posti di lavoro eventualmente ormai presenti a Roma, vanno, qui si deve dire purtroppo, messi in discussione, cercando di mantenere l’immigrato nel suo posto di lavoro, ma se esso confligge con la disponibilità di un alloggio, purtroppo, si ripete, l’immigrato dovrà spostarsi e cercare altro lavoro. La repubblica italiana deve garantire dunque i diritti spirituali della persona e quelli materiali, ma tra quelli materiali non esiste il diritto di vivere per forza a Roma, né il diritto di lavorare lì, invece che in altro posto, o il diritto di andare a scuola lì, piuttosto che altrove. Questi non sono diritti, ma desideri, sta alla politica decidere se soddisfarli, ma non ha il dovere di farlo, poiché non sono diritti, ma possibilità.

Il primo episodio grave invece è stato quello del funzionario di polizia che pronuncia queste parole (che chissà quante volta avrà pronunciato parole simili ad un suo connazionale): “Se non obbediscono spezzagli un braccio”. La giustificazione dello stesso è stata poi che era un frase in libertà, che non avrebbe dovuto pronunciare, mentre chi lo difende in generale afferma che in quelle situazioni come in altre lavorative, seppur differenti, escono molte frasi che esprimono più la tensione, che l’intenzione. Comprensibilissimo, ma non sufficiente. Perché? Si confrontino le due situazioni: un cittadino normale arrabbiato per il traffico, dunque in tensione, urla un romanesco “mo (adesso) t’ammazzo” ad un altro autista; seconda situazione, quella in questione: un funzionario che comanda alcuni poliziotti ordina di dover spezzare il braccio ai resistenti. La differenza è evidente: il primo non ha per legge il monopolio della forza, non ha armi con sé, non ha nessuno a cui può dare ordini, la sua è dunque una frase, terribile certo, ma priva dei mezzi, a meno che non sia un assassino, per divenire reale, la seconda frase, quella del funzionario di polizia, non è più una frase, ma un ordine nel momento stesso in cui i suoi uomini lo ascoltano, nel momento in cui la pronuncia in servizio, durante un’operazione, nel momento in cui il suo lavoro prevede, a differenza del cittadino, un addestramento alla tensione, che dovrebbe evitare che il monopolio della forza diventi un abuso della forza. Dunque l’immigrato se avesse sentito tale frase, avrebbe avuto ragione di temerne la possibile traduzione nella realtà. Tale funzionario va sanzionato, perché per lui la violazione del diritto è addirittura più grave che la violenza del privato cittadino. Inoltre ci si sta fossilizzando su questa frase e non si è rivolta l’attenzione, ad esempio, al poliziotto che invece va a confortare una donna.

Il secondo episodio è il famoso lancio della bombola vuota di gas da parte di un rifugiato dal balcone del palazzo, mentre in piazza c’era la polizia. E’ stato accertato che non è stato lanciato addosso alla polizia, dunque per ferire od uccidere, ma come monito a non avvicinarsi, dunque una minaccia di violenza, più che una violenza. Questo non toglie che sia grave ugualmente. Gravissimo. Chiunque di noi usasse oggetti più o meno pesanti per esprimere una minaccia ad un poliziotto che sta agendo in nome della legge, commetterebbe un reato, le intenzioni non lo giustificano: l’atto, pur fermo al gesto simbolico e non pericoloso, rimane un atto ostile alle forze di polizia. Un reato.
Dunque, come ad ogni manifestazione, va tristemente constatato che se un reato, come lancio di oggetti contro un poliziotto, o insulti a pubblico ufficiale etc… lo si commette singolarmente, è reato, se lo commettono in tanti si chiama manifestazione, resistenza, diritto alla casa, disobbedienza civile, etc… La massa però non crea diritti, né all’occupazione abusiva, né alla violenza.

Nel ’68 Pasolini difendeva i poliziotti, veri proletari, dagli studenti che facevano le barricate, per la maggior parte figli di papà che giocavano a fare i rivoluzionari per noia. Purtroppo a distanza di cinquant’anni non è cambiato nulla. E Pasolini aveva ragione da vendere. Fra di loro c’è Mario Capanna, rivoluzionario di quegli anni che oggi difende a spada tratta i vitalizi. Oppure pensiamo al sovversivo Francesco Caruso, che è passato dalla barricate alla cattedra universitaria a Catanzaro. Il che è tutto dire. E guardacaso è abbastanza palese una certa contiguità tra alcune ONG, associazioni, convegni, premi giornalistici, finanziamenti… Solitamente chi difende a prescindere i migranti ed è per l’accoglienza senza se e senza ma, non vive i problemi quotidiani dei cittadini che sono a contatto con i migranti ed è per l’abolizione della proprietà privata e delle frontiere, idee criminogene.

Si può allora dire che c’è un colpevole solo e più vittime. Il colpevole è la politica, lo stato, che avrebbe dovuto impedire il crearsi di una tale situazione e non l’ha fatto, costringendo il diritto della legge a scontrarsi con il diritto alla casa dei rifugiati. Eschilo diceva che il diritto lotta contro il diritto, se si riferiva alla politica, si sbagliava. In una democrazia il diritto evita i conflitti, non entra in conflitto, la democrazia è (dovrebbe essere) armonia di interessi, interessi che esprimono dei diritti. Se la democrazia smette di tessere l’ordito, di essere sarta di tutti i fili, come direbbe Platone nel Politico, allora fa emergere l’anarchia, e tra democrazia e anarchia c’è e ci sarà sempre contraddizione.

Infine, se è vero che non ci può essere accoglienza vera senza sufficienti risorse – perché sì, l’accoglienza è una scelta morale, ma una scelta morale senza mezzi per farla come si deve diventa scelta immorale, cecità sulle conseguenze – è però altrettanto vero che in uno stato in cui il diritto lotta contro il diritto, la solidarietà non sarà mai possibile, perché costringe alla lotta, invece che al compromesso, costringe il vinto ad una sopravvivenza illegale e il vincitore ad un abuso, seppur legale. Se gli italiani vogliono rimanere persone morali, devono costruire insieme una democrazia dove non esista questa contraddizione, che non vuol dire accogliere tutti o nessuno, ma accogliere umanamente. Come sempre, la sfida di diventare veramente esseri umani ci ritorna addosso.

Leggi del “giorno dopo”: oltre il danno anche la beffa nel Paese dei ritardi

Tutto scorre fino a quando accade qualcosa che, ci costringe a ricorrere a leggi adeguate. Questo è praticamente il mode dei giorni nostri. Gli eventi, le catastrofi o i fatti di cronaca risultano i campanelli d’allarme dai quali scattano promulgazioni di norme e di misure.

Recentemente, ad esempio, è stata approvata in via definitiva la legge contro il cyberbullismo: si profilano rigidi controlli sul web, sportelli anti-bullismo, punizioni esemplari per tutti i contravventori. Ma, quanti casi di bambini bullizzati si sono susseguiti nel corso del tempo? Quanti, hanno riportato traumi e danni psicologici irreversibili prima che qualcosa cambiasse?

La medesima storia si è ripetuta dopo i 1500 feriti in Piazza San Carlo a Torino, in occasione della finale di Champions League. In pochi giorni sono arrivate, puntuali, nuove norme da tenere in considerazione per ogni evento e manifestazione come: la capienza della piazza, le vie di fuga, il divieto di introdurre bibite in vetro, la presenza obbligatoria di postazioni sanitarie e controlli ferrati all’ingresso delle piazze.

Anche la legge per la legittima difesa è stata emanata dopo che alcuni cittadini sono stati costretti a difendersi all’interno delle proprie mura domestiche o dei proprio esercizi commerciali. In una duplice veste, carnefici e poi vittime, si sono ritrovati ad essere il capro espiatorio di questo sistema legislativo che, da lontano sembra quasi beffarli.

Le città crollano per il terremoto e le valanghe travolgono i resort. La preoccupazione imminente è sempre quella di scaricare il barile, tanto domani ci si preoccuperà di prendere misure e promulgare leggi in merito. Questi sono solo alcuni dei fatti di cronaca che sfortunatamente, hanno presagito quelle che potremmo definire, le leggi del giorno dopo.

“E’ giusto cautelarsi per evitare che eventi simili si ripetano”. Questa frase risuona come un mantra ogni volta che si verificano questi accadimenti. Tutte queste norme, leggi e contromisure risultano essere post-hoc e non ad-hoc come dovrebbero essere: sarebbe opportuno che si lavori con zelo per tutelare i cittadini e non per offrire un riparo in caso di pericolo e di necessità.

Si dovrebbe prediligere il principio “prevenire anziché curare” invece che “meglio tardi che mai” che, risulta essere irrispettoso, infruttuoso e dispendioso di energia e di denaro pubblico.

 

 

 

 

 

 

Integratori alimentari. Cosa fanno realmente?

Integratori alimentari, assunzione e funzione.

Gli integratori alimentari, come lo stesso termine suggerisce, servono ad integrare la nostra alimentazione. Nati con lo scopo di incrementare il fabbisogno giornaliero, dovrebbero aiutare il nostro organismo a trovare il giusto equilibrio.

Ormai sempre più utilizzati in diversi ambiti, gli integratori, sebbene non siano sostituivi di una sana alimentazione, pare assolvano parecchie funzioni. Solitamente venduti sotto forma di compresse e bevande, possono contenere zuccheri, proteine, vitamine, sali minerali e altri elementi utili al nostro corpo e che, in alcuni casi, scarseggiano. Ma è importante sottolineare che la tipologia dei nutrienti necessari cambia in base al sesso e all’età e, di conseguenza, cambiano anche le dosi raccomandate. Per questo, le regole circa la loro assunzione non sono valide in ugual misura per tutti. Chi pratica sport, ad esempio, ha bisogno di quantità chiaramente differenti così come chi è affetto da determinate patologie. Dunque, ci muoviamo nella sfera delle necessità soggettive.

In ogni caso, gli integratori alimentari non sono considerati dei farmaci e le norme sul loro consumo risultano piuttosto severe. Chi vende questi prodotti è infatti obbligato a fornire tutte le corrette indicazioni sul loro utilizzo.

Che sia per questioni legate alle salute o semplicemente per un tipo di approccio favorevole alla scoperta delle loro presunte potenzialità (pensiamo alla categoria degli sportivi), questi integratori possono modificare le abitudini quotidiane di chi ne fa uso, agendo proprio sull’alimentazione.

Tuttavia, bisogna stare attenti alle conseguenze perché queste pillole ”magiche” non fanno miracoli e, stando alle etichette, è proprio quello che promettono. Pubblicità ingannevoli e mancanza di informazione, infatti, potrebbero indurci all’acquisto di prodotti fortemente sconsigliati dagli esperti e che provocherebbero solo ulteriori danni.

Ma come possiamo, da profani, capire cosa ci fa davvero bene e cosa no? Da cosa è determinato il nostro stato di salute?

Quali strumenti abbiamo per difenderci, oltre ad una sana alimentazione?

Certo è che sono tanti i fattori che intervengono e noi non troveremo risposta né negli integratori alimentari, né in chi li promuove. Rivolgersi ad un medico manifestando le proprie perplessità a riguardo resta la soluzione più adatta assieme ad una costante prevenzione che può partire solo ed esclusivamente da noi stessi.

Del resto, Wendell Berry diceva: “La gente è alimentata dall’industria alimentare, che non bada alla salute, ed è curata dall’industria farmaceutica, che non bada all’alimentazione”.

Exit mobile version