‘Bella da spaccare il mondo’, un romanzo di formazione ambientato negli anni ’80: buona la prima per Fabiola Perrotta

Uscito in libreria a novembre 2020, Bella da spaccare il mondo è il libro d’esordio, edito da Kimerik , di Fabiola Perrotta. L’autrice, nata a Succivo l’8 luglio del 1964, si dice soddisfatta del buon lavoro prodotto: “Ho scritto di getto le pagine e le ho date da leggere ad un mio vecchio amico, Antonio Tanzillo, autore della prefazione, il quale mi ha introdotto alla casa editrice siciliana. Sono stata ben lieta di lavorare con loro in quanto ho avuto la necessaria libertà di perseguire ciò che avevo iniziato senza particolari intromissioni”. Il libro Bella da spaccare il Mondo si propone come romanzo di formazione e racconta i ricordi adolescenziali di Guadalupe, giovane degli anni ottanta, cresciuta in provincia , attratta da un mondo cosmopolita. La realtà dei sogni si infrange in tenera età, dopo il lutto improvviso del padre. La solitudine e le avversità del destino si riveleranno fondamentali per la crescita della protagonista, che, come una fenice, supererà i dolori con la forza dell’amore, diventando in fine una donna tanto forte da “spaccare il mondo”.

Il romanzo, pur essendo la prima esperienza editoriale della scrittrice, si presenta subito con un linguaggio maturo, accattivante, ricco di particolari e con una trama scorrevole capace di attirare ogni tipologia e fascia di pubblico. Gli avvenimenti importanti, iniziati nell’estate del ’79, sono narrati con grande enfasi.

I fatti principali hanno caratterizzato realmente l’esperienza e la vita stessa dell’autrice, altri, invece, sono frutto della grande sua capacità immaginativa che indirizza dunque il suo lavoro non ad semplice scritto autobiografico. La creazione di un confine labile ma incomprensibile tra realtà e finzione, è un espediente ben riuscito.

Fabiola Perrotta precisa “Non avevo intenzione di raccontare troppo della mia vita: volevo attingere il giusto. Ho cercato di far rivivere soprattutto momenti e esperienze comuni nel quale il lettore potesse rispecchiarsi. Le mie vicende personali, in primis la morte di mio padre, sono state utilizzate per poter inviare un messaggio di speranza a chi legge. Nonostante tutto il dolore, la forza dell’amore, nella vita di Guadalupe, ha prevalso sempre”.

L’autrice poi  spiega “Dopo un rinnovato lutto per la perdita di un amico, ho riscoperto l’amicizia con la sua vedova. Ho deciso di scrivere di come ancora una volta l’amore sia rinato proprio dal dolore.”

La crescita finale di Guadalupe è dunque caratterizzata dalla forza che riesce a trarre da eventi nefasti. Le fasi lunari ne sintetizzano la gradualità. Particolarmente suggestivo sono le descrizioni scientifiche oppure riferimenti mitologici, storici o musicali che l’autrice ha aggiunto a conclusione di ogni capitolo.

F. Perrotta dichiara ancora: “La Luna rappresenta per me un elemento romantico e contemporaneamente femminile. Ho iniziato a scrivere al chiaro di Luna raccontando di una donna, Guadalupe, e delle tante figure femminili che hanno popolato la sua vita. Più scrivevo più mi accorgevo che c’era un legame. La sua capacità di rinascere è proprio ciò che la accomunava alla storia della protagonista.”

Partendo dalla Luna, le figure femminili sono pilastro portante nel racconto e si ripresentano in modo costante durante tutto il ciclo di narrazione. Le figure di maggior rilievo e più controversie sono la madre descritta come distaccata dai figli, proiettata verso la cura del marito e non abbastanza forte da diventare punto di riferimento per la protagonista, dopo la morte del padre. Le sorella maggiore Luise presentata come fredda, schiva, distante, simile alla madre.

A differenza di Guadalupe, la sorella minore Gemma è invece dipinta come debole caratterialmente, se pur di buon cuore, sarà legata alla protagonista ma parranno non capirsi mai fino in fondo. Le amiche di infanzia, di scuola sono presentate come figure principalmente positive e descritte come unici legami forti, prediletti da Guadalupe.

Fondamentale è l’attenzione che la Perrotta dedica alla  figura  della nonna paterna. Descritta come una donna con la sindrome di Penelope, a lei l’autrice dedica un intero capitolo: “E’ il capitolo alla quale sono più affezionata. Descrivere mia nonna mi ha dato tanto conforto. Il suo ricordo mi fa capire quanto lei sia stata importante per me e per il mio percorso. Come figura positiva per la mia crescita personale era doveroso dedicarle un’ intera parte. Il libro invece l’ho dedicato a mia madre, decisamente simile alla madre della protagonista, che pur essendo una figura non del tutto positiva , è stata egualmente importante perché, come dice la dedica, ci ha comunque amato”.

Il ricordo della nonna porta con se altrettanti episodi ricchi di vividi particolari che ricreano quei sapori , quegli odori e quei momenti di un tempo lontano dalla quale traspare tutta la nostalgia che l’autrice prova nel descriverli. Altra nota da sottolineare è la particolare attenzione data al nome della protagonista: Guadalupe è legato ad un aneddoto significativo della vita dell’autrice. Come lei stessa racconta: “Quando nacqui, mio padre voleva chiamarmi così ma ai tempi non sembrava neanche un nome .Si optò per Fabiola. Mi sembrava giusto utilizzarlo almeno per la protagonista del mio romanzo. La mia scelta è stata dettata, quindi, puramente affettiva. Ho scoperto cosa significasse solo in seguito.”

L’appunto che si potrebbe fare al romanzo riguarda la sua conclusione: la transizione della protagonista all’età adulta senza però far trasparire null’altro del suo vissuto più maturo. F. Perrotta non esclude un seguito anche se avverte: “La conclusione è riferita alla fine di un periodo ben preciso della vita. Ho intenzione di raccontare di una protagonista o un protagonista più maturo ma non so se riprenderò la figura di Guadalupe. Attualmente lavoro ad un altro progetto che riguarda la raccolta di aforismi e pensieri per l’anima. Ho aperto per questo un canale Youtube con l’intento di diffonderli ad un maggior numero di persone. E’ un impegno che mi rilassa e mi dà gioia”.

‘Scriverò di te’, di Gianluca Stival: una raccolta di racconti e aneddoti del nonno dell’autore

Scriverò di te, edito da Editrice Veneta è l’ultima pubblicazione di Gianluca Stival. A dare i natali a questa giovane penna è la città di Odessa, in Ucraina. Stival, classe 1996, studia lingue e sin da piccolissimo nutre un notevole interesse per le culture e le tradizioni straniere. Con numerose certificazioni linguistiche riconosciute a livello mondiale, Gianluca si è già ambientato nel mondo della letteratura con pubblicazioni online e cartacee di suoi componimenti, valutate positivamente da esperti, critici e personaggi famosi.

Ha presentato poesie in lingua italiana, francese, inglese, spagnola e portoghese brasiliana, apprezzate e commentate da blog di poesia internazionali. Nel 2017 viene inserito all’interno de “Enciclopedia dei Poeti Italiani Contemporanei”, edita da Aletti Editore. Seppur giovanissimo ha all’attivo tre pubblicazioni: il primo libro Meriti del mondo ogni sua bellezza del 2017 è stato recensito da numerose testate giornalistiche italiane e da blog internazionali. Nel 2018 arriva il suo secondo lavoro, una raccolta di poesie dal titolo “AWARE – Tutte le poesie”, tradotta in francese e portoghese brasiliano. Nello stesso anno porta a teatro il suo monologo sulla libertà Meriti di essere libero. Nel 2019 continua con progetti letterari in Italia, Francia e Brasile e si impone nel mercato editoriale con Scriverò di te.

Scriverò di te: trama e contenuti

 

Scriverò di te è un’opera composta da decine di racconti di varia lunghezza che vedono come protagonista principale Mario, il nonno paterno dell’autore: ognuna di queste testimonianze narra un episodio della sua vita, partendo dagli aneddoti di bambino che ha vissuto la seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri in cui appaiono anche delle riflessioni su argomenti di attualità.

I pensieri, uno per pagina, contengono sia episodi vissuti in prima persona, che considerazioni sulla società odierna (dall’allontanamento dei giovani dalla Chiesa all’impatto del progresso). L’ essenza del testo è riflessa nelle due diverse chiavi di lettura: quella del protagonista che racconta stralci della sua vita (con connotazioni biografiche precise) e quella dello sguardo universale rispetto al mondo in cui ogni lettore può ritrovarsi anche senza conoscere direttamente il protagonista.

Da bambino andavo a dottrina, facevo circa quattro chilometri in bicicletta per raggiungere la chiesa dove mi aspettava sempre la signora Alba. Me la ricordo molto bene quella esile donna, ogni volta che mi vedeva mi diceva che Dio era ovunque, in cielo, in terra, in ogni luogo
e in ognuno di noi. Un giorno, andando a Belfiore con una carriola e trenta chili di frumento da macinare, mi chiese: “Dov’è Dio?”, e mi venne spontaneo risponderle: “È fuori che sorveglia la carriola”.
Sono cresciuto con una preparazione religiosa ferrea e ho sempre creduto in Dio. Una mattina ho trovato una caramella in tasca, l’ho messa in bocca e mi sono diretto in bici verso la chiesa. Una volta arrivato, il sacerdote, Don Casimiro, mi diede una sberla dicendomi: “Non puoi confessarti, hai peccato. Non si masticano caramelle prima di unirsi con il Signore. Verrai la prossima settimana!”. Da quel momento le caramelle furono solo un ricordo.

All’interno del libro viene raccontata la vita di un bambino che cresce in una famiglia di imprenditori agricoli e a cui viene trasmesso sia rigore per lo studio che il rispetto per il lavoro, lo stesso che gli ha permesso di fondare una delle maggiori aziende agricole del triveneto, l’Azienda Agricola Moletto di Motta di Livenza (TV).

L’attenzione verso il mondo emerge anche dai viaggi citati a metà del dattiloscritto, dalla Cina al Brasile e dall’Egitto al Perù, in cui il protagonista descrive sia le caratteristiche dell’ambiente e delle popolazioni che le differenze di quei Paesi rispetto all’Italia. L’ultima parte dell’opera contiene opinioni e considerazioni in merito a varie dinamiche della società odierna: la situazione della donna nei Paesi arabi, la morte in diretta di Saddam Hussein, il concetto nuovo di “guerra” e il grande cambiamento delle abitudini e delle tradizioni rispetto all’adolescenza del protagonista (anni 1945-1950 circa).

Le intenzioni di quest’opera hanno uno sguardo aperto: non c’è solo il desiderio di narrare passaggi di vita di un imprenditore novantenne, ma c’è soprattutto la volontà di far riflettere su ragionamenti, quelli del protagonista, estremamente attuali e adattabili a qualsiasi persona, senza distinzioni di età.

Nel corso della sua vita, mio nonno ha sempre avuto un pezzo di carta nel quale appuntarsi le cose più incredibili delle sue giornate quasi per apprezzarne il ricordo una volta riletto tutto. In quei fogli, che ho avuto la possibilità di leggere, non ho visto solo gli occhi di un uomo che ha combattuto e lottato per ciò che amava, ma ho visto il coraggio di una persona che ha sempre guardato la propria vita con un sorriso. Ho avuto voglia di condividere con voi questi pezzi di
carta perché, se è vero che tutte le vite in qualche modo si incrociano, io nella vita di mio nonno ho sicuramente trovato un pezzo di me.

“Pubblicare Scriverò di te – ha dichiarato Stival – è un vero sogno che si realizza, oltre che una genuina esperienza umana e personale: grazie a tutti i racconti della vita di mio nonno Mario sono riuscito ad entrare nel vissuto, nei viaggi e nel lavoro di un uomo che ha lottato per i propri ideali e che ha sempre dimostrato che i valori sono alla base di tutto. È il nonno con cui tutti dovrebbero parlare!”

 

‘Parla, ricordo’, l’autobiografia (rivisitata) di Vladimir Nabokov: la felice fanciulezza in un mondo scomparso

Lo splendido stato di conservazione di questo Quaderno della Medusa è solo apparente: lo si deve al fatto che è stato conservato, chissà perché, con una sopracopertina di carta da imballaggio, come si faceva un tempo con i libri di scuola e, come quelli, si è conservata come nuova la sola copertina, mentre le pagine interne sono macchiate, così come il taglio ingiallito rivela la sua vera età: 56 anni. Davvero sorprendente questa collana, Quaderni della Medusa, nata nel lontano 1934, come la sua verde sorella, più grande di un paio di anni, deve la moderna eleganza grafica alla genialità dell’illustratore Bruno Angoletta (1889-1954); la nuova collana raccoglieva saggi, biografie, epistolari, diari di viaggio di scrittori e pensatori illustri oggi dimenticati: Huxley, Zweig, Maurois, Mauriac, ma anche Kafka (Confessioni e Immagini n. 47), questa di Nabokov è la n. 55. La collana concluse il suo ciclo nel 1967 con il volume n.75 Susan Sontang Contro l’interpretazione, purtroppo oggi introvabile.

Vladimir Vladimirovič Nabokov (1899-1977), in questa sorprendente autobiografia, che è per struttura e linguaggio un vero romanzo, dove il tempo – a cui l’autore dichiara di non credere – è il vero protagonista, si trasforma nello sconcertante reporter della propria vita, che seguiamo con autentica emozione. Il futuro autore di Lolita era nato in una nobile famiglia di San Pietroburgo, la cui casa natale è oggi sede di un Museo Letterario, a lui dedicato; figlio di un politico liberale deputato alla Duma, Vladim Dimitrievič, che fu ucciso nel 1922 a Berlino, quando protesse col proprio corpo l’amico Pavel Miljukov, obiettivo dell’attentato.

Con la «singolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall’altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all’apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell’arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l’ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l’unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l’operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, così da sovrapporre l’una all’altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un fremito di gratitudine rivolto a chi di dovere – al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».

L’infanzia che Vladimir Nabokov ci racconta è incantevole, fiabesca: si svolge tra il sontuoso palazzo di famiglia in via Morskaj, attualmente Museo Letterario, e la residenza estiva nella grande tenuta nel distretto di Carskoe Selo, dov’era anche la residenza estiva degli zar, ma lo si incontra anche all’estero dove l’Europa aristocratica, biancovestita ama trascorrere le vacanze nei luoghi più esclusivi, tra Antibes e Baden-Baden, fruitori di villeggiature eleganti e serene. E’ ad Antibes che, a dieci anni, Nabokov incontra una bambina e se ne innamora, si chiama Colette. Che si tratti della famosa Colette, la futura autrice di Chéri, della indimenticabile serie di Claudine e di Le blé ed herbe? Ma Colette è nata 16 anni prima di Nabokov.

Stupisce la ricchezza del linguaggio di Lolita; considerato che l’autore non era di lingua madre. L’autobiografia ci svela che il giovane Vladimir apprese a leggere e scrivere in inglese prima che in russo, dai numerosi istitutori e istitutrici avuti nell’infanzia. E veniamo dell’antisovietismo di Nabokov. Sei nato da una antica famiglia nobile, vivi negli agi più esclusivi in un momento storico in cui la maggioranza dei tuoi concittadini soffre la miseria più nera, fai parte di un ristretto gruppo di intellettuali in contatto con l’Europa, tuo padre è un politico liberale, deputato alla Duma che appoggia il governo Kerensky, è normale che quando trionfa la Rivoluzione d’Ottobre, ti toglie tutti i privilegi e ti costringe alla fuga, non è che puoi amarlo il regime comunista! Ma Nabokov lo chiarisce: non è questione di rubli:

Il brano che segue non è destinato al comune lettore, ma a quel singolo idiota che, per aver perduto un patrimonio in un crac finanziario, crede di potermi capire.
La mia antica ostilità (risale al 1917) contro la dittatura sovietica, è del tutto indipendente da ogni questione di proprietà. Il disprezzo che io nutro per l’èmigré de Kichovski, il quale “odia i comunisti” perché gli “rubarono” il denaro e le terre, è assoluto. La nostalgia che ho provato e avuta cara in tutti questi anni è una sensazione ipertrofizzata della fanciullezza perduta, e non dolore per la perdita delle banconote. E ancora:

Datemi qualsiasi luogo, su un qualsiasi continente, che assomigli alla campagna pietroburghese, e il mio cuore si scioglie all’istante.

Notevole per l’inquietudine che genera, l’incipit del libro:

La culla dondola su un abisso, il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è soltanto un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre. Benché le due eternità siano gemelle identiche, l’uomo, di norma, contempla l’abisso prenatale con più serenità di quanto non contempli quello verso il quale è diretto (a circa quattrocentocinquanta battiti cardiaci orari).

http://giorgio-illettoreimpenitente.blogspot.it/

Il bacio di Giuda, il dopoguerra raccontato da Sveva Casati Modigliani

“Non ho alcun ricordo di mia madre che mi bacia. Mia nonna, sua madre, diceva sempre che i bambini vanno baciati soltanto quando dormono”. Il bacio di Giuda, pubblicato da Mondadori quest’anno, porta i lettori di Sveva Casati Modigliani nella realtà del dopoguerra. Il romanzo, dedicato ai nipoti, si mostra come uno spunto, un elemento che porta la stessa autrice a ricordare, a tornare indietro, a rivivere momenti dolorosi che lasciano malinconia e sorrisi amari.

Attraverso uno stile liberatorio, una scrittura diretta, immagini costruite senza mezzi termini, la Modigliani, ci spinge a riflettere sui diversi temi raccontati e ambientati nella Milano del dopoguerra: la vita, straziata dal dolore della guerra, una nuova realtà pronta ad affacciarsi dopo lo strazio portato dalle bombe e dalla distruzione, una società che tenta di riprendere il suo posto in questo mondo distrutto, abbandonato, disarmato in tutto e per tutto. Ma anche la scuola e l’educazione, il rapporto con gli adulti, il pudore, il perbenismo legato alla chiesa, il ruolo degli uomini.

Il bacio di Giuda, “un piccolo libro”, come lo definisce la stessa autrice, si mostra come una continuazione di quell’opera, precedentemente pubblicata e che ha confermato un successo quasi scontato vendendo ben 150 mila copie, l diavolo e la rossumata. Ma in questo ultimo romanzo, la nostra scrittrice, si sofferma maggiormente sulle emozioni, su ciò che la memoria riporta a galla, su quel dolore, non solo fisico, che vive nella Milano del 1945, una città libera ma con infinite cicatrici che non riusciranno mai a rimarginarsi.

“Il freddo delle ossa e quello del cuore”, un freddo che penetra in ogni parte del corpo, quel freddo che, se chiudiamo gli occhi, ancora oggi, a distanza di anni, riusciamo a sentire. Per chi a sentito quel dolore, per chi a patito quel freddo, questo romanzo sembra essere un ritorno al passato. La voglia di ricordare, il desiderio di ricominciare, di andare avanti tornando indietro attraverso i ricordi.

Non è pienamente un romanzo né interamente un’opera autobiografica, anche se pende decisamente verso la seconda” spiega Casati Modignani. In un’intervista al direttore di Panorama, Giorgio Mulé, l’autrice de Il bacio di Giuda spiega le sue difficoltà nell’unire l’autobiografia al romanzo in un dolore che nulla ha di falso. Ciò che il lettore troverà in quest’opera è pura verità, legata ad un forte elemento narrativo.

Chi ha già letto il libro, lo definisce un ulteriore capolavoro della scrittrice, come tutti quelli fino ad oggi pubblicati. Al centro di un’opera che, la stessa autrice, definisce più rivolta all’autobiografia, il difficile rapporto con una madre intransigente, severa, che non esita a trattare la sua primogenita in malo modo, solo per “salvare la faccia”, quelle apparenze, quel perbenismo, parte di una società che cerca di rialzarsi nonostante un dolore ingestibile.

Dopo un primo impatto che mostra dolore e desiderio di scappare, il tono diventa più ironico, leggero grazie ad una serenità ritrovata e una felictà familiare ancora possibile, forse proprio grazie a quei ricordi che, forse, faranno male per sempre. Ciò che mostra la Modigliani, è una forza nuova, un desiderio di rivalsa, di cacciarlo via quel dolore, quella paura. Ciò a cui si avvicina il lettore, nelle ultime pagine del romanzo, è una consapevolezza forse strana, assurda, impensabile: si può cancellare un dolore tanto grande? Si può vivere ancora e di nuovo, felici, senza che quelle cicatrici ci impediscano di respirare?

Ancora un altro capolavoro, in questo modo lo definisce la critica. Ancora un ricordo, un emozione, per Sveva Casati Modigliani.

 

“È veramente bello battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione. Perdere con classe e vincere osando…
perché il mondo appartiene a chi osa! La vita è troppo bella per essere insignificante.”

 (Charlie Chaplin)

Clotilde Marghieri: passione, audacia ed ironia

La scrittrice napoletana Clotilde Marghieri (Napoli, 1897 – Roma, ottobre 1981), non si è mai definita una professionista della letteratura, eppure si è dedicata alla letteratura con estrema passione, coraggio ed ironia di chi ha voglia di ricercare sempre e comunque la verità.

L’opera con cui esordisce è Vita in villa del 1960, nella quale l’autrice dimostra di conoscere non soltanto le piante e le erbe del suo giardino, ma anche i vizi, le virtù, i sentimenti, i difetti delle persone che la circondano: Filomena e Timoteo, il poeta cinese Chem-Shi-Hsiang, la duchessa X e la duchessa Carafa, l’autista dell’ambasciatore. La Marghieri offre una variegata galleria di ritratti attraverso un gioco di stile che sfocia a volte nell’ironico (ma sempre con garbo), altre nel patetico (ma sorridendo). La scrittrice partenopea si avvale di un dialogare spigliato, arguto, fatto di ammiccamenti che rendono la lettura ancora più piacevole e nella quale si percepisce l’amore della Marghieri verso i suoi luoghi, le sue genti, le sue cose, come una madre. Questo è Vita in villa, un libro d’amore celato sotto la sottile pelle del risentimento e del dispetto come lo ha giustamente definito Angioletti.

Sembra proprio ben fondata la teoria che vuole le donne realizzarsi meglio nella dimensione autobiografica, un esempio su tutte è Virginia Woolf e Clotilde Marghieri non si sottrae di certo, della quale possiamo collocare accanto a Gli anni della Woolf, Le educande di Poggio Gherardo del 1963, oltre a Vita in villa, naturalmente.

In questa sua seconda opera, la scrittrice è sottilmente ironica e solitaria nell’indagare sull’anima femminile; la narrazione comincia con l’entrata in collegio della protagonista, figlia di genitori difficili, amata molto dal nonno e dalla nutrice. Nel collegio la bimba dimostra di aver recepito le idee laiche ottocentesche del nonno, probabilmente scientificiste, sicuramente religiose, con una vena volterriana, la quale rappresenta una delle trovate più felici del racconto insieme alla natura estrosa della protagonista.

Tuttavia la Marghieri non insiste troppo su questo aspetto, le pagine in cui la bambina, di fronte ai smboli religiosi, si sente diversa dalle sue compagne tanto da indurle nel dubbio; a a tal proposito è emblematico l’episodio della Comunione, descritto con un realismo audace che avvia il racconto verso un altro tono, più drammatico che strizza l’occhio al sottile psicologismo di Marivaux. Non manca una certa curiosità di vita che la Marghieri utilizza per riempire il vuoto e l’ozio di un collegio di ragazze con i loro segreti amorosi, la loro sensualità inconsapevole, la loro ritualità. Dentro quest’aria barocca un cui è avvolto il collegio si respira quindi qualcosa di inconsapevole e di irriverente, ovvero il volterrianesimo, lo scetticismo, l’agnosticismo di Voltaire, oltre alla conturbante sensualità che si scontra con il puritanesimo.

Lo stile della Marghieri è ardito, duttile, scandaglia le anime delle adolescenti che si affacciano alla vita, nemmeno qui mancano efficaci ritratti colti nel sentimento più impalpabile.

Clotilde Marghieri è cresciuta nell’alta borghesia napoletana, ma lascia senza scrupoli il bel mondo privilegiato dei salotti per trasferirsi a Torre del Greco e narrare di storie quotidiane, di piccole battaglie, vivendo totalmente la sua indipendenza, la sua passione e il suo sdegno, dando vita ad un linguaggio che oscilla tra il classico e il parlato, facendo riferimento alla letteratura settecentesca europea per raccontare la gente del Vesuvio, calda come il suo Vulcano.
La scrittrice ha collaborato anche con giornali e riviste pretigiose quali “Il Mondo”, “La Nazione”, “Il Corriere della Sera”,“Il Mattino”, “Il Gazzettino”. Vince nel 1975 il Premio Viareggio con il romanzo Amati Enigmi.

La poesia di Umberto Saba: un luogo di conciliazione

Umberto Saba

Tra le poesie più belle scritte da Umberto Saba, figura senza dubbio “Mio padre è stato per me l’assassino”, che fa parte dell’opera “Il Canzoniere” nella sezione “Autobiografia”. Ancora una volta il poeta con straordinaria semplicità espressiva riesce a mettere in rima la voce del cuore. Ma la domanda sorge spontanea: può essere un genitore l’assassino del proprio figlio?  Di un assassinio morale, emotivo, si intende. E con quale arma si è compiuto il delitto?

Per rispondere a queste domande bisogna conoscere la vita di Saba, quell’inquietudine che sottilmente e celatamente pervade anche i suoi versi più teneri e pacati; un’inquietudine silenziosa che deriva da un vuoto primordiale, creatosi prima ancora che il piccolo Umberto potesse rendersene conto: il vuoto dell’abbandono da parte del padre che il poeta rincontrerà a soli venti anni. Ed è proprio questa l’arma dell’assassinio: l’assenza di Ugo Edoardo Poli, un’assenza che “uccide” la serenità quotidiana del piccolo Umberto, che gli fa perdere durante l’infanzia l’innocenza della spensieratezza; un’innocenza che il poeta sembra voler ricostruire nei suoi componimenti, che trae linfa vitale dalla sua poesia, da quel linguaggio chiaro e semplice, che ad un lettore meno attento potrebbe sembrare rasentare la banalità e che invece risulta il mezzo migliore per introdurci in un campo complesso quale quello dell’emotività, della psicologia, dei ricordi. Un’innocenza pericolosa, si può dire, tanto è la sua semplicità.

Il sonetto ha il tono di una confessione lirica, con la quale il poeta scava nel proprio passato e riporta a galla in modo nitido e diretto la figura centrale del componimento, quel padre definito “assassino” dalla madre di Umberto Saba e per tanti anni considerato così dallo stesso Umberto, che però attraverso la sua arte poetica riesce ad andare oltre, oltre il dolore, oltre quell’ “antica tenzone” e scoprire in quell’“assassino” del buono.

Riportiamo qui di seguito i versi della poesia:

Mio padre è stato per me l’<< assassino>>,

fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.

Allora ho visto ch’egli era un bambino,

e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.

 

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,

un sorriso , in miseria, dolce e astuto.

Andò sempre pel mondo pellegrino;

più d’una donna l’ha amato e pasciuto.

 

Egli era gaio e leggero; mia madre

tutti sentiva della vita i pesi.

Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

 

<<Non somigliare –ammoniva- a tuo padre >>.

Ed io più tardi in me stesso lo intesi:                                                                                                        

Eran due razze in antica tenzone.                                                                                                                                             

 

La struttura compositiva del sonetto sembra funzionale a sottolineare la contrapposizione di due tipologie umane, di due razze, di due culture, quali quelle dei genitori del poeta. Le prime due quartine sono interamente dedicate al padre, mentre le terzine finali alla madre. La poesia per Umberto  Saba è lo strumento con il quale capire, analizzare e metabolizzare il proprio dolore, le esperienze della propria vita; ed è grazie a questa, che il poeta riesce a cogliere del buono in quel padre “fantasma”, ” gaio e leggero”, nonostante tutto il rancore che ha respirato di riflesso dalla madre, che invece, “tutti sentiva della vita i pesi”. Le stesse figure retoriche ci indicano questa diversità: l’uomo è rappresentato attraverso la similitudine del pallone che sfugge dalla stretta della mano della propria donna, con un ritmo narrativo leggiadro, che ci porta a leggere i versi a lui dedicati tutti d’un fiato, in un’atmosfera giocosa, “leggera” , che si addice perfettamente alla personalità dell’uomo, che spogliatosi dalle responsabilità familiari e paterne, se ne va per il mondo pellegrino, godendo della vita e delle compagnie che essa offre.

L’andamento ritmico cambia invece, quando viene introdotta la figura della donna , che porta sulle sue spalle il peso di tante preoccupazioni, un peso, sottolineato dalle significative inversioni, enjambement che rendono la lettura delle terzine a lei dedicate “pesante” e che quasi costringono il lettore a soffermarsi ad ogni parola; un ritmo narrativo, dunque, che sembra materializzare in versi la pesantezza della vita della madre del poeta.

La poesia di Saba svolge un ruolo di conciliazione. In questo schema ritmico, stilistico, narrativo di opposizioni, ritroviamo infatti un unico filo conduttore: l’amore di un figlio. Un amore, quello di Saba, che matura grazie alla sua arte poetica, un’arte capace sia di attingere alla” leggerezza” del padre, da cui ammette di aver appreso il “dono” della poesia, rendendola gioco, piacere, sia alla “pesantezza” della madre che aggiunge all’arte poetica di Saba quella giusta dose di serietà e responsabilità. Il poeta con i suoi versi, smette di giudicare e apre la via alla rassegnazione, divenuta con la maturità comprensione, come esprimono le due righe conclusive: “ed io più tardi in me stesso lo intesi: eran due razze in antica tenzone”.  Dunque la poesia diviene per lui  proprio questo: un luogo d’incontro, di fusione , tra due mondi opposti, che anche nel male gli hanno lasciato del bene: quel “dono” così grande, così ricco di spinte antitetiche, quel groviglio di emozioni che Saba per anni ha covato dentro, sentendosi in balia di due fuochi e che poi con il suo smisurato talento ha saputo conciliare, plasmare,  trasformare, per fortuna di noi lettori,  in una bellissima,  profondissima arte poetica.

 

 

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