Sandro Bonvissuto: ‘Dentro’

Dentro (Einaudi 2012) è il libro d’esordio di Sandro Bonvissuto, classe 1970, romano laureato in filosofia, scrittore dalla personalità magnetica.

Sandro Bonvissuto: l’esistenza di un singolo uomo

Il testo è suddiviso in tre racconti lunghi accomunati dalla prima persona, il cui scopo è ripercorrere tre tappe fondamentali della vita di un individuo unico e irripetibile pur nella sua quotidiana banalità.

Il primo racconto, il più lungo, più articolato e meglio scritto dei tre, dal titolo Il giardino delle arance amare (ma avrebbe potuto chiamarsi direttamente Dentro, perché questo internamento è il leit motiv del testo) porta il lettore all’interno di un carcere dove il protagonista si trova rinchiuso per un reato che probabilmente non ha commesso e che al lettore non è dato conoscere. Qui seguiamo lo scorrere lentissimo dei giorni dentro una struttura che niente ha di umano e che, decisamente, non è fatta a misura d’uomo. Bonvissuto, più che narrare una storia, racconta frammenti di immagini carcerarie da cui trae spunto, da laureato in filosofia qual è, per parlare dei massimi sistemi. L’elemento fondamentale di questo primo racconto lungo è proprio questa “astrazione coi piedi per terra”, tratto fondamentale della persona e dello scrittore Bonvissuto. Pur rimanendo, sia nell’uso del linguaggio sia nelle tematiche, nel mondo reale fatto di muri, di odori, di pelle e polvere, l’autore trascina il lettore in lunghe e appassionate riflessioni sul tempo, sullo spazio, sulla vita e sulla morte. Riflessioni per nulla banali, e ottimamente contestualizzate nell’elemento “carcere”. Qui, infatti, dentro questo posto, lo spazio e il tempo assumono caratteristiche peculiari. Riguardo il primo elemento, il passo che segue descrive bene in poche righe l’alienazione di un luogo fatto appositamente per escludere, per separare chi sta fuori (i buoni, i cittadini, gli umani) da chi sta dentro (i cattivi, i fuorilegge, i non-completamente-umani): «Alla fine delle scale c’era un’altra porta; la superai ma ero sempre dentro. Ancora controlli. Altra gente. Vidi una porta più piccola che dava su un posto all’aperto. Uscii, però mi ritrovai sempre dentro.»

Il secondo elemento, il tempo, viene trattato ancora più intensamente: viene riportato alla sua forma originaria, strappato allo schematismo tipico di chi vive in società, fatto di secondi, minuti e ore. Il tempo assume per l’essere-umano-dentro la forma originaria dell’alternarsi di giorno e notte:

«Lì dentro contavano solo i giorni. Dovrebbe essere così ovunque, pensai. L’unica misura valida del tempo dovrebbero essere i giorni, appunto. Tutti gli altri parametri dovrebbero essere considerati quello che sono: convenzioni sociali. Invenzioni. Gli esiti deliranti del perenne tentativo dell’uomo di dominare in qualche modo la sua più grande ossessione: il tempo. […] La vita è i giorni; non le ore né gli anni.»

Altre tematiche fondamentali di questo primo racconto riguardano la giustizia, le condizioni dei carcerati, i rapporti umani che si stabiliscono fra individui che, al di fuori di una struttura contenitiva/punitiva come il carcere, mai sarebbero entrati in contatto fra loro. Rancori, odi, affetti, contrasti, tutto in questo luogo al di fuori del mondo e del tempo (eppure al contempo dentro il mondo e il tempo) risulta distorto, contorto, piegato/piagato da un elemento ineluttabile: il fatto che lì dentro bisogna starci per forza, a prescindere dalla propria volontà, dai propri bisogni, dalle proprie impellenze; da ciò che fuori, là dove la vita prosegue ignara di quegli individui, c’è in serbo proprio per quegli individui.

Il secondo racconto si intitola Il mio compagno di banco, e qui l’autore torna indietro nel tempo (anche in termini di linguaggio si passa al passato remoto) affrontando tematiche legate ai ricordi, all’amicizia e, soprattutto, alla formazione dell’identità personale. Il protagonista, alle soglie dell’adolescenza, si ritrova catapultato in una scuola superiore nuova, dove non conosce nessuno. Il caso lo porta al banco insieme a un ragazzo che, da quel singolo e preciso incontro, diventa per tutto l’anno il suo migliore amico. La singolarità individuale si spezza in quel momento, e l’uno si fa due: la dimensione della persona si amplia, si modifica, si tende verso l’esterno a inglobare quell’altra singolarità individuale che è l’altro da sé. I due amici fanno tutto insieme, e arrivano al punto di voler chiedere alla stessa ragazza di stare con entrambi – perché loro sono uno, sono la prima persona, sebbene al plurale: “noi”. La difficoltà di questo periodo storico sta nel rischio di perdersi: «A forza di stare uno vicino all’altro, avevamo smarrito inconsapevolmente e per sempre le nostre rispettive identità a vantaggio di una nuova dimensione collettiva e duplice. Per questo dovevamo muoverci con circospezione, per non allontanarci troppo l’uno dall’altro.»

Una fusione, dunque, quasi in grado di scardinare una delle basi della filosofia occidentale classica: il principio d’identità e non contraddizione. Questa fusione azzardata è proprio tipica, infatti, del periodo adolescenziale, quello in cui, non a caso, si instaurano i rapporti più intensi con altri individui. Rapporti che, inevitabilmente, creano conflitti tramite i quali si dovrebbe arrivare a una forma superiore di consapevolezza di sé.

Il terzo e ultimo racconto, Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta, tratta a suo modo sempre il tema dell’identità. Stavolta il protagonista è bambino – ha sei anni circa – e si trova in difficoltà perché i suoi amici sanno andare in bici e lui no. Il bambino si trova davanti al primo “grande” ostacolo della sua vita, ossia l’apprendere qualcosa che non sembra poter venire appreso per semplice osservazione e imitazione. Il dramma della non accettazione e dell’incapacità di fronteggiare da solo questa situazione porta il bambino a chiedere aiuto al genitore, una figura fondamentale in questo periodo ma assolutamente confusa. I “grandi”, infatti, sono ancora una volta l’altro da sé, ciò che ancora non si è, ciò che è perfetto e onnisciente: l’incarnazione più simile a quel vago concetto astratto della divinità. E proprio il padre – quello stesso padre che, freudianamente, qualche anno più tardi diventerà punto di contrasto – arriva in questo momento storico a risolvere il problema nel modo più semplice. Bellissimo e intenso il dialogo fra padre e figlio:

– Dimmi solo che devo fare.
– Non lo so figliolo, nessuno lo sa.
– Pensi che ce la farò?
– Diciamo che è probabile, ma non è sicuro.
– Mi aiuterai?
– Non posso, la solitudine è una condizione indispensabile.
– E che farai?
– Starò qui, e sarò testimone dell’incredibile.

Questi tre racconti che formano il libro Dentro, apparentemente legati solo dalla prima persona narrante, sono invece tasselli fondamentali per conoscere tre momenti diversi e nodali della vita di una persona. Sebbene solo nel primo racconto siamo effettivamente “dentro”, negli altri due assistiamo a ciò che avviene all’interno di un individuo, i cui confini spaziali sono determinati dall’esistenza della pelle (che separa il fuori dal dentro), mentre quelli temporali sono dati dalla memoria, fonte primaria dell’identità personale.

In questo modo, con un linguaggio coerente e lirico, ma mai troppo astratto né patetico, Bonvissuto ci porta dentro il mondo di questo singolo essere umano che noi tutti siamo.

“Anteprima mondiale”, di Aldo Nove

Dopo vent’anni Aldo Nove (Amore mio infinito, Un bambino piangeva, Addio mio Novecento) torna alle origini con Anteprima mondiale (La nave di Teseo), il seguito di quel Woobinda e altre storie senza lieto fine (Castelvecchi, poi ripubblicato nel 1998 da Einaudi col titolo Superwoobinda) che nel 1996 ha portato alla ribalta drammi e perplessità di un’Italia che stava godendo degli ultimi frutti di quel boom economico di qualche decennio prima. In quel libro Aldo Nove raccontava un’Italia consumistica e in preda a una sorta di morboso “sogno americano all’italiana”.

Da Woobinda ad Anteprima mondiale

Woobinda faceva parte dei “testi sacri” di quei cannibali che stavano divorando dall’interno la letteratura e la realtà italiana per poi mostrarcene il contenuto. Nel 2016, racconta l’autore in una nota finale, “di quello spirito rimane l’amarezza di una vittoria. La realtà descritta da quegli autori divenne dominante, si stabilizzò e incancrenì”.

Aldo Nove torna a quelle tematiche con 34 nuovi racconti in puro stile cannibale. Agguanta la realtà, la aggredisce, la mastica, la rigetta sulla carta. Il tono dei racconti è sempre il solito, fra lo stupito e il disincantato, con questo suo modo tutto peculiare di spiegare a noi lettori la realtà che ci circonda come se volesse fornirci un libretto d’istruzioni for dummies:

«Oggi sappiamo tutti che avere una laurea è come essere iscritto nel registro degli indagati degli assassini seriali. […] Nullafacenti imbottiti di psicofarmaci oppure volontari all’Expo tanto per provare a non morire d’inedia e tirare su figa».

(Da Le allegre avventure di Gianni. Questa volta alle prese con il suo maggiordomo)

E ancora:

«I caffè sono dei posti antichi tipo Facebook e Badoo ma, anche se privi di funzioni come “mi piace” e “banna” e “organizza un evento”, offrono un grande vantaggio rispetto ai social network che è la possibilità di acquistare senza i tempi lunghi di Amazon cose tipo caffè, brioche, cappuccini […]».

(Da Lo sventramento della storia)

Il risultato è doppio: da un lato il mondo intorno a noi ci viene mostrato da una certa distanza, come se stessimo studiando una civiltà scomparsa o in procinto di scomparire (come, per fare un esempio, quando si leggono testi su usi e costumi degli italiani nel primo Novecento); dall’altro lato questo stesso mondo ci viene presentato come strano, contorto, alieno, poiché vengono ribaltate le conoscenze che ne abbiamo – e in questo modo possiamo per comprenderne le pecche e le fallacie.

L’apocalisse fra nostalgia e modernità

Aprire la prima pagina di Anteprima mondiale riporta subito la mente in un luogo familiare, come quando si rientra nella vecchia casa in cui si trascorrevano le estati. E l’incipit è disarmante, perché ricalca esattamente quel Woobinda così amato e odiato:

«Ho ammazzato i miei genitori perché leggevano un libriccino assurdo, Woobinda di Aldo Nove».

(Da La camera dei segreti)

Questa stessa nostalgia di questo “bambino di cinquant’anni” si ritrova in diversi racconti, fra cui quelli della sezione finale Amarcord. In generale si legge una sorta di odi et amo nei confronti di un’epoca al contempo d’oro per la scrittura italiana (un’epoca in cui esistevano case editrici come Castelvecchi che puntavano su autori come Aldo Nove e Isabella Santacroce: oggi chi pubblicherebbe una raccolta di racconti composta perlopiù da frammenti di testi?) e sull’orlo del baratro per quanto riguarda la crisi dei valori che allora stava, secondo l’autore, iniziando. Un punto fisso di Aldo Nove, infatti, sembra essere che la colpa di (quasi) tutto possa essere attribuita a Berlusconi. Questo nome è presente in molti dei racconti, così come nella nota finale; chi è stato al Salone del Libro, poi, avrà avuto modo di ascoltare l’invettiva di questo autore “poco costumato” nei confronti dell’ex presidente del Consiglio.

«Quindi chi scrive, cioè io Aldo Nove, è stato per anni mantenuto da Berlusconi parlandone e scrivendone malissimo. Molti italiani hanno fatto questo».

(da Amarcord Mario Monti. 2011)

Un elemento topico allora (negli anni Novanta) come oggi (negli anni Dieci) è quello del consumismo. Anteprima mondiale (anteprima mondiale della catastrofe a cui stiamo assistendo da spettatori, è questo il sottinteso) ci porta in una società in cui noi esseri umani non siamo altro che acquirenti e consumatori: compriamo cose e consumiamo il tempo appresso a queste “cose”:

«Non c’è più bisogno di capire. Basta comprare. Comprare tantissime cose, il più possibile, perché prendano il tuo posto e abitando in te esistano più di te così tu diventi loro, meno di  loro. Non è importante avere soldi per comprare, basta avere l’attitudine. Sapere che sei quello che compri. Poi esci e guardi il panorama. Il panorama è fatto da chi l’ha comprato. Chi lo ha comprato e te lo rivende. Come chi t’ha comprato il tempo e adesso te lo rivende sotto forma di telefonino».

(Da C’è in giro moltissima realtà)

Fra ironia, malinconia, smarrimento e satira, si arriva poi alla fine, al 2016. E Aldo Nove butta lì con nonchalance, mentre racconta di quando, nella partita Ael Larissa-Acharnaikos, i giocatori dell’Ale hanno mantenuto un silenzio di due minuti per ricordare le centinaia di bambini che perdono la vita nell’Egeo a causa dell’indifferenza dell’UE, una frase che lascia il sapore della sconfitta in bocca:

«Se da anni stiamo fingendo di giocare un gioco finito, prenderne atto è lo scandalo necessario. Perché giochiamo che non c’è più scandalo. Voltando la faccia altrove. Ma altrove inizia a erodersi».

(Da Amarcord Ael Larissa vs Acharnaikos. 2016)

Nota a margine sulla Nave di Teseo

La nave di Teseo, nata per volontà di Elisabetta Sgarbi e del compianto Umberto Eco come segno di insofferenza verso “Mondazzoli”, si propone come scialuppa di salvataggio della letteratura contemporanea, come fanno, d’altro canto, molte delle case editrici indipendenti nate ultimamente.

Quello che colpisce nel libro di Nove, tuttavia, è una discreta presenza di errori. E non parliamo qui solo di refusi ma anche d’impaginazione di cui uno, il più grave, nella copertina. Si riporta infatti che Anteprima mondiale è “il seguito di Woobinda, il romanzo culto che ha segnato una generazione”… ma Woobinda era una raccolta di racconti! Di errori di questo genere se ne possono contare almeno una dozzina. Considerando che si parla qui di un testo di 200 pagine circa, parliamo di una media di un errore ogni 20 pagine. Che non è poco per una casa editrice che si fa (più che giustamente, possiamo dire) vanto della qualità dei suoi autori.

“Premessa per un addio” di Gian Luca Favetto, un gioco narrativo

Premessa per un addio (NN editore, 2016) è l’ultimo libro dello scrittore e critico teatrale e cinematografico torinese Gian Luca Favetto (Se dico radici dico storie, Mappamondi e corsari, Il giorno perduto), settimo volume della collana ViceVersa, a cui appartiene anche Panorama di Tommaso Pincio, già vincitore della prima edizione del premio Sinbad per l’editoria indipendente.

 

Premessa per un addio: la trama

Tommaso Techel, di professione geografo, è un uomo di mezza età in fuga dal suo presente: fugge da un matrimonio praticamente finito, fugge dalle responsabilità nei confronti della figlia Giulia. Fugge da tutto, e lo fa viaggiando da solo a New York, città amata ma anche lontana dalla realtà del nord Italia. Qui, nonostante sia studioso di luoghi e non di persone, ci va per conoscere proprio le persone, poiché «l’anima dei luoghi è nelle persone che li abitano e li visitano, nella memoria che coltivano».

Sul volo per New York, Tommaso incontra Alma Berlin, una donna sulla settantina ma ancora avvenente e, soprattutto, elegante. Questo è un elemento non indifferente per chi, come Tommaso, guarda ai dettagli e in essi si immerge per iniziare a “esplorare” il presente.

Alma Berlin, che ha esplorato mezzo mondo, lo coinvolge successivamente nell’incontro con Cora Paul, donna di origini polacche, con la quale Tommaso ha una relazione appassionata ma destinata a essere breve. Durante il suo viaggio, e soprattutto grazie alla relazione con Cora, il protagonista si trova inevitabilmente a fare i conti con ciò che ha lasciato e con ciò che troverà al ritorno.

La sua infatti non è una partenza definitiva, bensì un viaggio per tornare, un momento che Tommaso si prende solo per sé, per comprendere, per riuscire a darsi una risposta e trovare soluzione a un problema che ormai si è fatto troppo pressante per essere affrontato direttamente. A conferma di questo pensiero arrivano le parole delle ultime pagine, illuminanti sullo sviluppo del romanzo e sul “gioco” interno:

«Lo scopo del viaggio è tornare a casa, pensa Tommaso […]. È venuto a New York per cominciare il ritorno. Gli manca l’ultimo pezzo di percorso. Una quindicina di pagine e finisce il libro».

Ma per tornare a casa Tommaso deve giocare di sottrazione e capire cosa resta di lui dopo aver eliminato/allontanato da sé tutto ciò che lui non è:

«ogni uomo, ogni libro, ogni pensiero è un paese straniero. […] una vita non si riduce a un’altra vita, una vita è libera e plurale, e così pure l’altra vita lo è».

Per conoscere se stessi bisogna dunque lasciare tutto. Senza imporsi di dare un addio (almeno potenziale) a ciò che si ha, non si può comprendere ciò che si è. La premessa per tornare è la premessa per un addio.

 

Un addio / Farewell

Durante la sua permanenza a New York, Tommaso legge un libro, Foreword for a Farewell (libro inventato dall’autore, traduzione inglese del titolo originale), che narra le vicende di un uomo straniero che si trova a vivere per un certo periodo nel nord Italia. Qui il protagonista del “libro dentro al libro”, Carlton, incontra una donna di cui s’innamora, Waltraud; e la coppia Carlton-Waltraud è parallela a quella Tommaso-Cora, così come l’intero viaggio del protagonista di Foreword for a Farewell è parallelo (ma in senso contrario) a quello di Tommaso. In Premessa per un addio, addirittura in ben tre punti Favetto-autore si “diverte” a giocare con questo elemento metanarrativo, affermando che nel “libro dentro al libro” accade qualcosa che viene riportata anche nel “libro fuori dal libro”. Ecco un esempio della pagina 66:

«Le congiunzioni sono fondamentali nella vita, tutte le congiunzioni, quelle astrali e quelle grammaticali. Noi siamo fatti di congiunzioni, copuliamo, coordiniamo e lo facciamo semplicemente, semplicemente ci va di farlo, dice a pagina 66 con la complicità dello scrittore che ha scelto di raccontare la sua avventura».

Proprio su questo gioco metanarrativo si può far leva, da lettori, per comprendere come la storia fra Tommaso e Cora sia destinata a terminare:

«Le labbra si sfiorano. È un respiro quello che Cora pronuncia: “Waltraud e il forestiero vivranno felici e contenti”».

Una frase del genere sarebbe infatti di per sé poco rilevante, se non arrivasse dopo poche pagine rispetto a questo struggente pezzo:

“Si dicono addio?” chiede Tommaso.
“Waltraud e il forestiero?”.
“Sì. Il romanzo è tutta una premessa perché si lascino?”.
“Non ti dico come finisce”. Cora beve un sorso del suo cocktail. “Finisce come deve finire” dice.
[…]
“Il libro finisce come Waltraud e il forestiero decidono che finisca” continua Cora.

In Premessa per un addio, Favetto spinge alle estreme conseguenze il gioco metanarrativo che intrattiene col lettore. Lo fa usando un linguaggio che sfida, spesso, le “leggi” della narrativa, ad esempio anticipando aspetti della trama, o rimandando a questo “libro dentro al libro”. Sono presenti dunque tre livelli narrativi: 1) il livello della narrazione, dove il protagonista è il Favetto-autore che racconta, che gioca, che conosce perfettamente ciò che accadrà; 2) il livello della storia narrata del “libro fuori dal libro”, in cui troviamo Favetto-Tommaso fare i conti con i vari personaggi (prevalentemente femminili); 3) e il livello della storia del “libro dentro al libro”, che riproduce a specchio ciò che accade nel secondo livello. Una cosa simile, di sfuggita, accade in Panorama, dove il narratore riesce ad accedere all’account di Ottavio Tondi in un modo che non viene mai specificato.

Favetto non è quasi mai volgare, anzi sembra voler portare il lettore in un gioco-danza, in una sorta di esperimento estetico e leggero. Lo fa usando un linguaggio a tratti etero, ma sempre dettagliato. Nei dettagli di questo testo si trovano anche momenti di alta letteratura, piccoli quadri da incorniciare:

«Nell’acqua è la risposta all’inquietudine all’incertezza che non si placa, nell’acqua è la pace, l’energia, l’abbraccio, la soluzione alle domande che si affollano spingono sgambettano s’intralciano in lui e non riescono a uscire».

L’ultima fuggitiva, di Tracy Chevalier

L’ultima fuggitiva (Neri Pozza, 2013) è il settimo romanzo storico della scrittrice statunitense Tracy Chevalier, diventata celebre al pubblico per il suo romanzo La ragazza con l’orecchino di perla (Neri Pozza, 2000), che ha ispirato la realizzazione dell’omonimo film diretto da Peter Webber.

Trama

L’ultima fuggitiva è la storia di Honor Bright, giovane quacchera partita dall’Inghilterra del 1850 alla volta dell’America, insieme alla cara sorella Grace, per cominciare una nuova vita in seguito a una delusione amorosa. Dopo un viaggio turbolento per mare a bordo dell’ Adventurer, il fato vuole che Grace muoia di febbre gialla, lasciando Honor da sola in un Paese straniero. Al posto di tornare in patria dalla sua famiglia, la ragazza decide di continuare comunque il suo viaggio e arrivare a Faithwell, in Ohio, dove vive Adam Cox, promesso sposo della defunta sorella Grace. Prima di giungere a destinazione, fa tappa a Wellington e alloggia presso Belle Mills, modista del luogo, con la quale stringe una sincera amicizia. Ma a turbarla sarà la conoscenza con Donovan, fratello di Belle ma di carattere opposto a lei, uomo cinico e spregiudicato che si guadagna da vivere cacciando gli schiavi negri fuggiti dalle piantagioni del Sud per dirigersi verso il Canada e verso la libertà. L’attrazione fra Honor e Donovan resterà sempre puramente platonica, un amore non dichiarato che li separerà e avvicinerà al tempo stesso per tutta la narrazione, anche a causa delle loro idee diametralmente oppost

Analisi e temi de L’ultima fuggitiva

Il tema della schiavitù è centrale ne L’ultima fuggitiva. Honor, in quanto quacchera, è stata educata sin da bambina all’eguaglianza fra gli uomini e trova difficile accettare il clima di razzismo che circonda i pochi negri diventati liberi e residenti in Ohio. Banchi separati in chiesa, sguardi di disapprovazione e leggi separaterispetto ai compaesani bianchi. Molti abitanti del luogo, però, si distingueranno dalla folla di razzisti e conservatori dandosi da fare per agevolare il transito clandestino di negri dal Sud, e organizzando una via ‘sotterranea’ per portarli fino in Canada in tutta sicurezza. Belle Mills è una delle componenti di questa società segreta, alla quale collaborerà in parte anche Honor, e che dovrà scontrarsi ogni giorno con la legge e con Donovan, cacciatore di negri della regione. Honor Bright si stabilisce a Faithwell, prima presso Adam Coxe poi, una volta sposatasi col quacchero Jack Haymaker, presso una fattoria alla periferia del paese. La famiglia del marito, però, nonostante sia anch’essa di fede quacchera, non condivide lo stesso temperamento altruista di Honor, che spesso mette a rischio di arresto sé stessa e tutti gli Haymaker per dare da mangiare e nascondere i fuggitivi nella propria stalla. Fino a quando, incinta di otto mesi, Honor sentirà qualcosa cambiare dentro di lei, un mutamento iniziato con il ritrovamento di uno schiavo morto nel loro terreno, un negro ferito al quale la nuova famiglia di Honor aveva negato un aiuto medico. Honor, afflitta dai sensi di colpa, scapperà di casa, abbandonando il tetto coniugale, e diventerà anch’ella una fuggitiva. Andrà a vivere da Belle Millse lì darà alla luce la sua bambina, Comfort Grace.

Honor è un personaggio al quale è impossibile non affezionarsi. È amica, sorella, compagna e complice per ogni lettore. Ha un carattere all’apparenza docile e remissivo, ma col tempo trova la forza di opporsi alle ingiustizie alle quali assiste, anche a costo di disobbedire al marito e dare così scandalo nell’intera comunità di Amici di Faithwell. A cadenzare i vari eventi che accadono nella vita di Honor dal suo arrivo in America il rapporto epistolare che mantiene con la sua migliore amica Biddy e con i genitori, rimasti in Inghilterra. Tra i tanti argomenti di conversazione nelle lettere di Honor, si nota la preponderanza di dettagli che la scrittrice concede al tema del ricamo, grande passione di Honor. Le trapunte che ama creare sono una perfetta metafora della sua vita: all’inizio, al suo arrivo in America, Honor è spaesata e si aggrappa con forza alla nostalgia per l’Inghilterra e per le sue trapunte patchwork, dovute lasciare a Brighton; dopo essersi sposata e abituata alla vita nella fattoria degli Haymaker, riesce ad apprezzare lo stile americano per la realizzazione delle trapunte grazie ai cartamodelli; alla fine del romanzo, dopo aver trascorso molto tempo insieme a Elsie, negra liberatasi dalla schiavitù anni prima, si innamora della trapunta che nota sul suo letto, frutto dell’accostamento di colori e tipi di impuntura diversi, accostati in maniera quasi casuale. Allo stesso modo, Honor cresce durante il suo viaggio, sia fisico che spirituale, abbandona i rigidi schemi ai quali era abituata e fa suo lo stile di vita americano basato sull’andare avanti lasciandosi alle spalle il passato, vivendo la vita giorno per giorno e apprezzando tutto ciò che il destino ha da offrire senza farsi troppi problemi.

Il finale del romanzo non è per nulla scontato e lancia il messaggio, allarmante, che non tutti gli uomini sono destinati a migliorare e a cambiare vita, solo i più coraggiosi riescono a mettere in gioco sé stessi e a sopravvivere, gli altri periscono sotto il peso delle proprie scelte. L’ultima fuggitiva rappresenta il sogno americano, che per Honor è incarnato nella conquista dell’Ovest insieme al marito e a Comfort Grace, alla ricerca di un posto da chiamare davvero ‘casa’. Il messaggio di Honor per il lettore è ben riassunto dalla frase finale del libro, contenuta in una lettera indirizzata all’amica Biddy: Sto imparando che c’è differenza tra fuggire e correre verso il futuro.

Storie di fantasmi per il dopocena, di Jerome Klapka Jerome

Durante le vacanze natalizie, noi tutti ci lasciamo suggestionare dalla magia che si respira per strada e nei luoghi che frequentiamo, magia  che spesso rievoca il passato e fa affiorare i ricordi più cari. Le festività rappresentano momenti per stare assieme condividendo anche esperienze di vita. Forse c’è modo migliore di raccontare aneddoti divertenti e curiosi dello stare assieme, radunati in un salotto londinese, magari accanto ad un camino, nell’intimità e nel calore dell’amicizia?

E’, immancabilmente, una delle notti più tetre per uscire – fredda, fangosa e piovosa. E oltre tutto, a Natale, ognuno ha già il suo bel da fare a sopportare una casa piena di parenti, senza bisogno che ci si mettano pure gli spettri di quelli defunti a ciondolare in giro, ne sono più che certo.

L’umorista inglese Jerome Klapka Jerome (WalSall, 2 Maggio 1859- Northampton, 14 Giugno 1927) ci offre un quadro davvero colorato di suggestioni, racconti avvincenti, imprese goliardiche ma anche spaventose e macabre, nelle sue Storie di fantasmi per il dopocena (pubblicato nel 1891). Si tratta di brevi racconti avventurosi rivolti al diletto del lettore medio, che lo avvicinano alla lettura grazie alla rappresentazione del quotidiano. Questo tipo di lettura, veloce e comprensibile, poteva essere fatta in treno o mentre ci si recava a lavoro, ad esempio. Si può dire che Jerome K. Jerome appartiene a quella cerchia di autori riconosciuti come scrittori ”da treno”, assieme ad Arthur Conan Doyle, Rider Haggard e molti altri.

L’autore conosce il successo a trent’anni, con la sua opera più famosa Tre uomini in barca (per non parlare del cane) seguita poi dal proseguio Tre uomini a zonzo (di successo inferiore) ma si dedica, durante tutti gli anni della sua carriera, alle ghost-stories sviluppandone le più inattese trame, come vedremo proprio in Storie di fantasmi per il dopocena.

Molti hanno parlato di sottile e fine umorismo e sicuramente ne troviamo riscontro pagina dopo pagina, storia dopo storia, fino ad affezionarci ai personaggi che entrano in scena e che somigliano, appunto, a personaggi teatrali (nei primi anni della  giovinezza è proprio il teatro a riempire la vita di Jerome K. Jerome, la vita ma certamente non le tasche )

La cena ”sui fantasmi” ha tra gli invitati,  lo zio John, Mr Samuel Coombes, Teddy Biffles. Quest’ultimo è il primo a raccontare la sua storia, quella del fantasma fedele ma credo sia la storia narrata da Mr Coombes a catturare l’attenzione del lettore, ossia  quella del fantasma del mugnanio avaro che appare nelle notti a suo cognato Mr Parkins e che lascia tutti nella curiosità e nel dubbio fino alla fine. Il ricco mugnanio pare non voglia mostrare l’effettivo luogo in cui è nascosto il suo oro, forse semplicemente per punire Mr Parkins, in quanto per lungo tempo si è rifiutato di credere alla storia del fantasma in quella casa e al tesoro.

Segue poi l’episodio della camera azzurra, la stanza nella casa dello zio, vicina a quella dei bambini in quanto tutto ciò che riguardava la toilette era di colore azzurro. In questa  camera azzurra bazzica il fantasma di un criminale, un uomo che con un pezzo di carbone uccise uno di quei cantanti che, proprio durante quelle giornate, avevano l’abitudine di passare di casa in casa esibendosi in una delle ballate da repertorio. Il criminale in questione, precedentemente, aveva ucciso un solista di cornetta e vantava più di un omicidio alle spalle. Per lo zio, la camera azzurra era preferibile quindi che restasse inutilizzata, dato che i fantasmi amavano ritrovarsi lì per gridare la loro vendetta. Dopo essersi addentrato nella storia, l’ autore rilascia una sua personale cronaca nel capitolo che lui stesso titola Una spiegazione personale in cui si riscatta da alcune calunnie, tenendoci a specificare che non è ”nel suo stile” parlare di sè. Ecco che comincia La mia storia, non altro che il racconto del suo incontro avvenuto con i fantasmi in questa camera azzurra. Il fantasma del criminale gli racconta, soddisfatto, i dettagli dei suoi omicidi e diventano addirittura amici, finquando il nostro temerario accompagna il fantasma in strada, dopo che il canto del gallo gli ricorda che è l’ora di andare, dunque deve svanire! Il nostro protagonista resta senza pantaloni, dopo averli dimenticati in camera. La situazione è inspiegabile. Come difendersi da accuse e sospetti? Come giustificare il suo assurdo incontro con il fantasma del criminale?

Insomma, tutto puo’ succedere nella notte della Vigilia. E Jerome K.Jerome ci tiene con il fiato sospeso fino all’ultimo canto del gallo.

La camera azzurra, il romanzo-interrogatorio di Simenon

La camera azzurra (Adelphi, 2003) è un romanzo di Georges Simenon e viene pubblicato per la prima volta nel 1964; esso va collocato nel genere poliziesco per la presenza di un giudice, di un investigatore e di un’atmosfera che ha non poco a che fare con il giallo ma che da esso si diparte in fretta. O, per meglio dire, chi legge quest’opera avrà una sensazione diversa, in cui languore e disgusto sedimentano e stimolano la lettura che non è quello che si prova leggendo un giallo di Agata Christie.

L’autore della Camera azzurra è ormai mitico: si tratta dello scrittore belga Georges Simenon, ideatore delle vicende del celebre commissario Maigret. Simenon è uno scrittore strabordante e ricco di talento, quasi convulso. Il fenomeno Simenon vuole che egli abbia scritto un romanzo nell’arco di una settimana, così come è nota la storia della sua irrefrenabile e mai esausta creatività. Improbabile fornire infatti una bibliografia della sua opera completa: si tratta di uno scrittore che vive per scrivere mai scrive per vivere:

“Sono passato poco a poco da 12 giorni ad 11, a 10, a 9. Ma ecco che per la prima volta sono giunto alla cifra 7, che è diventato come lo stampo definitivo nel quale saranno colati ormai i miei romanzi” (G. Simenon).

Tony Falcone, protagonista del romanzo, vive a Saint-Justin con la sua famiglia, insieme alla moglie Gisèle dalla quale ha avuto una bimba, Marianne. La loro è una vita semplice e genuina, fatta di abitudini, certezze e molti sacrifici. Basata sul reciproco rispetto e su di un amore “razionalmente” controllato, così prosegue la vita dei coniugi, fino ad un momento: quello in cui Andrée entra nella sua vita. Lei alta e fredda così che a Tony  pare una “statua”, una donna senza emozioni che non può dare amore, almeno questo è ciò che Tony crede. Quella donna diventerà l’amante disinibita, cruda ossessione, la sua rovina, pone fine alla calma – che vige nello stagno noioso di un piccolo borghese –  impettita dell’esistenza. Ma la protagonista eccentrica della storia, nucleo dell’intreccio che ritorna a più riprese non è una donna, bensì lei: la camera azzurra. Come fosse animata da un spirito ribelle, accompagna Tony fino alle ultime pagine.

A Tony bambino il colore azzurro sembra un miracolo, come può una polverina cromata di cielo candeggiare  lenzuola e vestiti? Allo stesso modo, si può costruire un parallelo tra questo non cedibile candore, la pulizia che a Tony ricorda l’amore materno, con la relazione con la devota moglie Gisèle? Se non fosse per quell’azzurro mozzafiato della stanza dell’Hotel de Voyageurs, che lo ha tentato inconsciamente, non sarebbe colpevole, no, non lo sarebbe. Strano, è proprio quello che Andrée si lascia scappare durante il proprio interrogatorio al giudice: “Le donne come lei non sono capaci di un vero amore”. Così, secondo Andrée, Giséle Falcone sarebbe un corpo svuotato dell’istinto, una moglie affidabile ma non una donna innamorata. E’ curioso perciò constatare che l’immagine che Tony aveva anteriormente al primo vistoso amplesso con Andrée, mai svelata all’amante, sia la stessa che l’amante di Falcone ha della sua rivale. Inversione di ruoli o gioco di specularità? Una cosa è certa: le donne del libro sono virili nell’animo, pusillanime è invece il ritratto di Falcone. C’è un momento, uno spartiacque nella vicenda, raccontata tramite la serie di interrogatori ai quali viene sottoposto il protagonista, quello dell’invio delle lettere spedite da Andrée. Lì Tony si sveglia, e comincia l’incubo giudiziario. E’ colpevole, lui stesso lo dirà. Ma di cosa? Di non essere stato sincero con se stesso? O c’è dell’altro? Si sovrappone il passato al presente, la bellezza al turpe inferno delle domande.

Simenon mostra in una parola, in un suono o in un dettaglio, nell’indubbia paura che si può scivolare nel baratro e racconta proprio questo: chi sopravvive nell’infelicità è morto da tempo. Solo ad un certo punto del libro l’autore ci concede di capire, ma non tutto. Il  protagonista, insieme alla sua amante Andrée, è artefice di una vicenda torbida e piena di ambiguità. Non sono solo amanti, ma accusati di un ignominioso crimine: entrambi sono stati arrestati con l’accusa di aver commesso l’omicidio dei rispettivi coniugi Nicolas, ex marito, inutile e malato, e la placida Gisèle.

Con La camera azzurra lo scrittore belga è riuscito a tessere una trama autentica che trascina giù con efficacia più del vero: nella quotidianità siamo tutti Tony e abbiamo paura di scegliere. A partire dalle prime righe della prima pagina Simenon non può non colpire il lettore: che sia nel bene piuttosto che nel male, basta poco per capirlo. Quelle parole sono scolpite, affisse come un annuncio di festa che poi si capovolga in un necrologio. La sua nettezza è lampante, plastica la luce come le ombre. Si afferra ogni virgola con gli occhi, come battuta di una piccola inquadratura cinematografica, o l’inizio di una sceneggiatura.

La camera azzurra non solo è un romanzo scritto come se fosse un sogno, senza sbavature o incrinature, è una casa in cui ogni oggetto si muova come animato e, al ritorno del padrone di casa, si riponga autonomamente al posto di assegnazione;  mestoli nella credenza, la frutta sul tavolo, e così via. Ogni emozione in Simenon è al suo posto, questo libro riesce ad aprire il cuore senza chiudere la mente, la spalanca . Chi entra a leggere, non potrà uscire se non cambiato da questa storia di passione e autodistruzione. Il libro stesso risulta costruito come un interrogatorio vero e proprio che scandaglia fino alle viscere oceaniche del nulla, per poi ammettere che la verità non è mai una sola, è solo che un’omissione è più potente di una bugia. E che cos’è, la verità, se non forse solo un’impressione?

 

Le ragioni del cuore, di Maria Masella

Le ragioni del cuore di Maria Masella, edito da Leggereditore il 29 Ottobre 2015, è un romance storico italiano di argomento patriottico, ambientato nel periodo antecedente all’unificazione dell’Italia. Siamo nel 1853, quando essere mazziniano poteva costarti la prigione. Ne sa qualcosa Bruno Damiani, o Bruno Marras come si fa chiamare, accusato ingiustamente di omicidio e in eterna fuga dalla legge. In cerca di vendetta per la sorella Nina, sedotta e abbandonata, si ritrova sulla strada per Chiavari, costretto a fermarsi in una locanda per la notte. Lì incontra per la prima volta Nora Magni, giovane donna coraggiosa e moderna, che lo vede inciampare e cadere nella neve a causa di una vecchia ferita alla gamba e lo soccorre. Bruno rimane colpito dalla gentilezza della giovane che, incurante della neve e del fango, nonché delle convenzioni sociali, è corsa in suo aiuto davanti alla locanda. Quella stessa sera Nora capiterà per errore nella sua stanza, allarmata da dei lamenti sospetti, e per poco i due non trascorreranno insieme la notte. Ma Bruno l’allontanerà consapevole di dover ripartire la mattina seguente e di non poter di certo mettere radici, a causa del suo passato rivoluzionario. Bruno Damiani rappresenta lo stereotipo dell’uomo idealista e romantico. Sono due i sentimenti che lo dominano: quello verso la donna amata e l’ideale civile, come nel più classico dei personaggi della tradizione popolare. Più in avanti nella narrazione scopriamo che Nora è la nipote del nuovo datore di lavoro di Bruno, un armatore di buon cuore di nome Cesare Magni, e i due giovani avranno così modo di conoscersi in altre circostanze. E infine innamorarsi.

Ma il passato di Bruno continua a inseguirlo e presto dovrà farci i conti. Prima la verità sull’omicidio del quale è stato accusato, poi il mistero dell’uomo che mise incinta Nora e l’abbandonò al suo destino, verranno entrambi svelati, abbattendo ad uno ad uno gli ostacoli che si interpongono all’unione fra Bruno e Nora. La protagonista è un’eroina coraggiosa e impavida, molto moderna, ben diversa dalla cugina Floriana che rappresenta invece la ‘vecchia’ alta società italiana, ancorata alle tradizioni e a uno stile di vita tutto apparenze e nient’altro. Floriana è sposata con il conte Stefano Ballardi, l’antieroe per eccellenza. Vigliacco, vanesio e violento, riceverà infine la giusta punizione per i torti inflitti alla moglie, alle sue amanti e per il ruolo avuto, come si scoprirà, nella separazione di Nina dall’uomo che amava. A pareggiare i conti con lui non sarà Bruno, come si potrebbe immaginare, ma un personaggio di pari importanza, se non di più: il mare, che fa da punto focale, più che da cornice, alla storia de Le ragioni del cuore.

Il mare che da e toglie, come nella scena della tempesta in cui il cantiere Magni rischia di essere distrutto e alla fine si salva, ma per Stefano Ballardi non ci sarà alcuna pietà. Verrà trascinato dalla corrente fino a restituirne alla spiaggia nient’altro che il cadavere senza vita. Come in ogni favola romantica che si rispetti, Nora non potrebbe far nulla senza i suoi fidati amici e aiutanti, ovvero Lady Follet, nobildonna inglese che vive in zona e che prende la ragazza sotto la sua ala protettiva, e Sandrina, la sua cameriera personale, semplice e di bassa cultura ma con un gran cuore. Maria Masella si introduce con questo romanzo nel vasto campo del romance storico italiano, a volte poco riconosciuto a livello internazionale a causa di nomi noti come Lisa Kleypas e Judith McNaught, ma il più delle volte di pari livello. Ne Le ragioni del cuore ci sono tutti gli elementi del genere: avventura, storia, amore, amicizia e un pizzico di mistero. Un punto in più va assegnato a Maria Masella, scrittrice italiana conosciuta anche con lo pseudonimo di Mary M. Riddle, per aver mostrato in ogni pagina il meraviglioso paesaggio ligure e per aver proposto un tema così vicino alla nostra tradizione, eppure spesso poco raccontato, come quello delle lunghe e sanguinose guerre di indipendenza che hanno portato l’Italia ad essere quella che è oggi. Ha centrato l’argomento sottolineando in particolar modo il problema cardine dell’unificazione: l’eterogenea situazione culturale e linguistica del Paese.

‘Suite francese’, l’opera postuma di Irene Némirovsky

Suite Francese è un’opera postuma di Irene Némirovsky, scritta fra il 1941 e il 1942, rimasta incompleta a causa della morte dell’autrice di febbre tifoide ad Auschwitz. In origine il progetto dell’opera prevedeva una divisione in cinque sezioni per formare un ‘Poema sinfonico’: Tempesta in Giugno, Dolce, Prigionia, Battaglie, La Pace. Un progetto ambizioso che doveva comporsi di più di mille pagine, duecento per ogni parte, ma di cui abbiamo soltanto le prime due sezioni complete, anche se non revisionate, più alcuni appunti della terza sezione e solo il titolo delle ultime due parti.

Tempesta in Giugno comincia con l’esodo dei parigini verso Sud, il 4 Giugno 1940, dopo il primo bombardamento della città. La Némirovsky traccia un quadro della situazione di tutta la popolazione, mostrando come esempio le storie di più famiglie parigine, di varia estrazione sociale: i Péricand sono benestanti, una famiglia numerosa che è costretta a fuggire da Parigi senza il padre, il capofamiglia, che rimane in città come curatore presso il Museo Nazionale; Gabriel Corte e Florence, un noto scrittore che va a rifugiarsi a Vichy con la sua amante; Maurice e Jeanne Michaud, funzionari di banca con l’ordine di trasferirsi a Tours per riprendere l’attività bancaria in un’altra sede, lasciati al loro destino dal direttore Corbin e dalla sua amante Arlette Corail, che prima avevano offerto loro un passaggio sulla loro macchina per poi tirarsi indietro; e infine Charlie Langelet, un vecchio benestante con l’ossessione per le sue porcellane di Capodimonte. Pur essendo ricchi allo stesso modo, però, i Péricand e Langelet non hanno il medesimo atteggiamento nei confronti delle classi inferiori, infatti la signora Péricand assumevaspesso un atteggiamento di indulgenza nei loro confronti, così descritto dall’autrice: La signora Péricand apparteneva a quel tipo di borghesi che hanno fiducia nel popolo. «Non sono cattivi, basta saperli prendere» diceva con il tono indulgente e un po’ sconsolato che avrebbe usato per parlare di una bestia in gabbia.

Charlie Langelet invece è uno snob, che non tentenna neppure per un attimo nell’ingannare un paio di ragazzi, durante lo sfollamento della città, per rubar loro la benzina e proseguire così fino a Parigi. I quadri descritti dalla Némirovsky non rappresentano immagini separate, fra i vari racconti sono infatti continue le connessioni, come l’incontro di una notte fra Hubert Péricand, uno dei figli maggiori della famiglia, e Arlette Corail, amante di Corbin. Non mancano gli intrecci anche fra la prima e la seconda sezione del libro. Dolce infatti è ambientato a Bussy, una cittadina alla periferia est di Parigi, dove i Micaud si erano fermati durante lo sfollamento di Parigi, ed è narrato sotto forma di romanzo. Ad ospitare Jeanne e Maurice erano stati la famiglia Angellier, formata dalla nuora Lucilee e dalla suocera madre di Gaston, prigioniero di guerra in Polonia. Lucile Angellier è una giovane donna bella ma poco appariscente, con ‘l’aria sempre assente’, come la suocera spesso la redarguisce. La signora Angellier, invece, è una vecchia nevrotica, sempre pronta a giudicare la nuora per ogni minima cosa e a difendere il figlio anche per il tradimento perpetuato ai danni della moglie.

La famiglia Angellier si prepara così ad accogliere i tedeschi di stanza nella loro cittadina, come molte altre famiglie della zona, nascondendo gli oggetti più preziosi e mostrando un atteggiamento di finta cordialità condito da malcelato disprezzo. Il tenente Bruno von Falk è il tedesco che viene assegnato alla casa delle Angellier, l’abitazione più bella della città. Mentre la signora Angellier non prova nemmeno a nascondere l’insofferenza nei confronti di quell’ospite sgradito, la nuora Lucile si mostra più gentile. Bruno e Lucile raccolgono insieme le fragole, bevono vino e ascoltano musica, parlando della guerra e di quello che sognano di fare dopo la pace. In città, nel frattempo, molte donne cominciano a vedere i ‘crucchi’ come uomini e non più come nemici, chi mostrando generosità e gentilezza, e chi lasciandosi sedurre. Le distanze, con la convivenza, tendono ad assottigliarsi e a mostrare la realtà delle cose: “Ciò che divide o unisce gli esseri umani non è la lingua, le leggi, i costumi, i principi, ma un modo uguale di tenere coltello e forchetta!”

Lucile, pur mostrandosi disponibile, non dimentica mai che Bruno è un tedesco. Infatti il sentimento di rispetto, e più tardi di amore, che comincia a nutrire nei suoi confronti rimane sempre bloccato a uno stato embrionale. Soprattutto quando un evento tragico scuote la cittadina di Bussy. Il contadino Benoit, sorpreso con un arma in casa, uccide un tedesco e il suo cane. E sarà proprio Lucile a nasconderlo in casa, una bugia che frenerà il rapporto con Bruno. Poco dopo, anche la guerra si mette di mezzo e i tedeschi saranno costretti a partire l’1 Luglio 1941, a seguito dell’entrata in guerra contro la Russia. Ciò che sappiamo della terza parte dell’opera, mai scritta, è che Bruno sarà ucciso in battaglia e che Lucile e Benoit si uniranno alla resistenza francese. Già in Dolce si era avvertito un bisogno, da parte di Lucile, di rendersi utile alla propria patria, infatti nonostante l’apparenza docile è una donna volitiva e coraggiosa che sogna un futuro migliore, come si evince dal seguente passo:
“Che vadano dove gli pare; io farò quello che desidero. Voglio essere libera. Più della libertà esteriore, la libertà di viaggiare, di lasciare casa ( anche se sarebbe un’inimmaginabile gioia), voglio essere libera interiormente, scegliere la mia strada, seguirla, senza accodarmi allo sciame”.

Durante la lettura di Suite francese, traspare il sentimento patriottico di Irene Némirovsky, che approva il senso comunitario dei francesi, soprattutto delle classi meno abbienti, e condanna quegli accademici, quegli uomini di potere, unitisi al regime di Pétain, che hanno portato alla distruzione della Francia, personaggi come Gabriel Corte e tutta la famiglia Péricand. Della simpatia dell’autrice, invece, godono i Michaud, uniti nonostante tutto, poveri ma dignitosi, che affrontano le difficoltà puntando sull’unica arma che possiedono: il loro legame. Suite Francese nel 2014 è diventato un film, diretto da Saul Dibb, basato solo sulla seconda parte del romanzo e interpretato dagli attori Matthias Schoenaerts nel ruolo di Bruno e Michelle Williams nel ruolo di Lucile Angellier.

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