Il gioco segreto del tempo, di P. S. Garnica

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Giunse con tre ferite:
dell’amore,
della morte,
della vita.

Con tre ferite viene:
della vita,
dell’amore,
della morte.

Con tre ferite io:
Della vita,
della morte,
dell’amore

Con queste tre strofe del poeta Miguel Hernàndez viene introdotto Il gioco segreto del tempo, l’ultimo romanzo della scrittrice spagnola Paloma Sànchez-Garnica, che ha raggiunto il successo nel 2012 con la pubblicazione del suo terzo romanzo storico, La cattedrale ai confini del mondo, grazie al quale ha scalato le classifiche spagnole e italiane. Il gioco segreto del tempo narra la storia di due generazioni di uomini: coloro che sono vissuti in un periodo di grande sofferenza per tutta la Spagna, durante la guerra civile, e chi, ai giorni nostri, cerca di scavare in quel passato non troppo lontano per scoprirne i segreti e cercare di dare un senso a ciò che è accaduto.

“Quando tutto finirà… quando tutto finirà…” Queste sono le parole che nel 1936 Andrés Abad Rodrìguez imprime come un mantra nella sua mente, mentre guarda la fotografia ormai sgualcita della moglie, sdraiato sulla sua sudicia branda insieme al resto del battaglione, pensando a ciò che ha perduto e che forse prima o poi riuscirà a recuperare. La storia di Andrès e della moglie Mercedes Manrique Sànchez viene riesumata dalla polvere dei ricordi nel ventunesimo secolo da Ernesto Santamaria, aspirante scrittore squattrinato, per quella strana tautologia che vede il genio incompreso sempre relegato dentro una cornice modesta fatta di loft sporchi e disordinati e vite al limite. Ernesto, girovagando fra i mercatini dell’usato, trova una vecchia scatola dentro la quale vede la fotografia di Andrès e Mercedes, scattata nel 1936 nel piccolo paese di Mostoles. Da quel momento Ernesto comincia a scavare dentro al passato di quei due sconosciuti, intuendo la scintilla che può dargli l’ispirazione a scrivere il suo romanzo.

La narrazione de Il gioco segreto del tempo alterna passato e presente, le vicende di Mercedes che scappa dal suo paese dopo l’arresto del marito per andare a Madrid a nascondersi in casa del medico benestante Eusebio Cifuentes, e le indagini di Ernesto a ritroso nel tempo. Essenziale per lo svolgimento della trama è l’incontro e l’amicizia nata da subito fra Mercedes e Teresa Cifuentes, figlia di Eusebio, entrambe innamorate e tenute lontane dai loro uomini dalla guerra civile. Mercedes, incinta del marito, e Teresa, pecora nera della famiglia perché parteggiante per i “rossi” e fidanzata con uno di loro, Arturo, vivono una vita parallela alla famiglia Cifuentes, composta per il resto da avidi nazionalisti, arrivisti e sottomessi al regime, per cercare di ritrovare Andrès e uscire tutti indenni dal conflitto. Il desiderio di ricominciare e lasciarsi alle spalle il proprio passato si evince da questo passo del libro:

Il mio spirito ribelle, quello spirito che ho saputo assecondare solo quando sono riuscita a lasciarmi alle spalle tutto ciò che ostacolava la mia vita, e ho deciso di correre dei rischi per cercare qualcosa di meglio, per andare avanti, per guadagnare e anche per perdere perché la vittoria di ciascuno di noi si costruisce sulle rovine delle proprie sconfitte.

La storia di Ernesto si snoda fra indizi e intuizioni, nella migliore tradizione di Arthur Conan Doyle, con l’inserimento anche di elementi paranormali, mentre la storia di Mercedes e Teresa rientra nella migliore tradizione del dramma storico, genere molto diffuso in Spagna con Ildefonso Falcones, Maria Duenas e Carlos Ruiz Zafòn, quest’ultimo amante anche del mistero e dell’indagine a ritroso nella storia. I temi trattati sono molteplici: dalla condanna della guerra al tradimento e agli accordi sottobanco per sopravvivere nelle condizioni più difficili, dall’amore e i rapporti coniugali di quel periodo alla condizione della donna, non solo all’interno del matrimonio ma anche nelle gerarchie sociali. Le due linee temporali si uniranno con l’incontro fra Ernesto Santamaria e un personaggio principale della storia da lui narrata, e con la scoperta che la chiave del mistero sta proprio nella gravidanza portata avanti da Mercedes.

Castelli di rabbia, di A. Baricco

Castelli di rabbia è la prima opera narrativa di Alessandro Baricco, edita dalla casa editrice Rizzoli nel 1991 e vincitrice del Premio Campiello e del PrixMédicisétranger 1995. Il titolo ha una duplice valenza semantica: l’immagine del castello rappresenta i sogni infranti, la tendenza utopica all’infinito, tipica dell’infanzia, che inesorabilmente termina in un abisso di dolore e nell’inevitabile scontro traumatico con la realtà; la rabbia è una componente caratteriale di tutti i personaggi della storia, elemento che viene sottolineato da un linguaggio molto forte e, sovente, da scene di grande intensità. Ne è un esempio l’episodio della morte del signor Andersson, socio in affari e amico del protagonista, il Signor Rail:

“Addio, signor Rail. Un buio nero, da non vederci a bestemmiare. – Addio, Andersson. Il vecchio Andersson morì con il cuore spaccato, quella notte stessa, mormorando una sola, esatta, parola: Merda”

Il romanzo è permeato da un forte positivismo che, in maniera quasi ossimorica, non si basa sulla Ragione ma sembra legato all’ambito metafisico. In questo romanzo, più che nelle altre opere di Alessandro Baricco, si respira l’aria del progresso propria dell’Ottocento, l’attrazione verso la scienza e i prodotti dell’industria, che non sono usati, come si potrebbe immaginare, per semplificare la vita e avvicinarsi alla modernità, (sono infatti opere prive della benché minima utilità pratica), bensì per concretizzare l’irrealistica tendenza all’infinito. Il progetto della locomotiva Elisabeth prevede che viaggi su 200 km di rotaie perfettamente diritte senza condurre in alcun luogo preciso, senza dunque fermarsi in nessuna stazione, il Crystal Palace di Hector Horeau è un palazzo di vetro che non mira a rivoluzionare le tecniche architettoniche con l’utilizzo di ferro e vetro, senza più limitarsi a calce e mattoni, ma serve ad intrappolare la luce in modo che chi vi entri possa sentirsi al chiuso e all’aperto al tempo stesso, a contatto con il mondo eppure distante oltre un vetro. L’opera, divisa in sette capitoli, è ambientata nell’immaginaria Quinnipak, un non-luogo al pari della Locanda Almayer, paese all’interno del quale si snodano le vicende dei personaggi, presentate a frammenti, intrecciate l’una all’altra eppure distanti, cariche di significato simbolico eppure incomprensibili fino al capitolo finale, con un metodo per cui ogni personaggio sta nella narrazione come un bottone sta nell’asola.

Nelle ultime pagine, per le quali lo scrittore adopera una tecnica di scrittura mutuata dal cinema, si inquadra la narratrice, fino a quel momento rimasta in disparte come una voce fuori campo, e la si vede spiegare che la storia, i personaggi, la stessa Quinnipak, altro non sono che invenzioni della stessa per sfuggire alle proprie sventure, un modo per rifugiarsi nella fantasia e non pensare al presente. Eppure, se per i personaggi da lei inventati non c’è lieto fine, né soddisfazione, per lei la storia viene lasciata in sospeso, dando come unica speranza la parola America, e forse proprio lì la protagonista troverà una vita vera alla fine di un lungo viaggio, sia fisico che metaforico.

Evidente è lo stretto legame che intercorre fra Castelli di rabbia e il monologo teatrale Novecento, pubblicato nel 1994: anche qui troviamo il sogno americano e la componente musicale attorno alla quale si snoda la trama, in Novecento è opera del pianista Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, in Castelli di rabbia è legata alla figura di Pekish, grande musicista di note inesistenti e inventore di un nuovo strumento: l’umanofono. Le storie dei personaggi, il signore e la signora Rail, Pekish, Penht, Hector Horeau, Mormy, la vedova Abegg, sono costruite come le strade di un labirinto, che si snoda a partire da un centro. Il centro per Castelli di rabbia è la scena del giorno di San Lorenzo, momento in cui le due bande, partendo da poli opposti, si incontrano al centro del paese; è un processo a matrioska che secondo un espediente narrativo composto da flashback (analessi ) e flashforward (prolessi), da finzione e realtà, che è anch’essa finzione, si pone a più livelli di analisi e su più linee temporali e spaziali, in un gioco di incastri tipico dello stile di Alessandro Baricco. Il percorso psicologico per raggiungere l’agognata chimera porterà ai personaggi nient’altro che sventura: Hector Horeau e Pekish prede della follia, Il signor Rail della miseria e della solitudine. Eppure dalla loro disgrazia rinasce una nuova vita, come una fenice dalle proprie ceneri, o meglio si crea una possibilità di vita. Aspettarsi che il finale di un’opera di Baricco sia chiuso e definito senza essere preda delle più svariate e personali interpretazioni? Questa è un’altra chimera.

Veronika decide di morire, di Paulo Coelho

Veronika, pur avendo una vita normale, non è felice. Decide di morire, ingerendo una dose eccessiva di sonniferi. Ma il tentativo fallisce, e la ragazza viene internata in una clinica psichiatrica dove conosce una realtà di cui nemmeno sospettava l’esistenza. Veronika decide di morire si ispira a un drammatico episodio della vita di Paulo Coelho quando, nel 1965, a diciotto anni, venne ricoverato in una clinica psichiatrica.

“L’11 novembre 1997, Veronika decise che era finalmente giunto il momento di uccidersi. Riordinò accuratamente la camera che aveva affittato presso un convento di suore, spense la stufa, si lavò i denti e si coricò”. Incomincia così il libro di Paulo Coelho, uno dei più illustri e conosciuti scrittori nato a Rio de Janeiro nel 1947. Considerato uno degli autori più importanti della letteratura mondiale, le sue opere pubblicate in più di centocinquanta paesi e tradotte in sessantatré lingue, hanno venduto ottantacinque milioni di copie. Tra i premi più recenti ricevuti dall’autore vi sono il “Crystal Award 1999”, conferitogli dal World Economic Forum, il prestigioso titolo di Chevalier de l’Ordre National de la Legion d’Honneur, attribuitogli dal governo francese, e la Medalla de Oro de Galicia. Dall’ ottobre del 2002 Paulo Coelho è membro dell’Academia Brasileira de Letras, nonché autore di una rubrica settimanale diffusa in tutto il mondo.

Tra le opere di Coelho che Bompiani ha pubblicato con enorme successo appare Veronika decide di morire (1999). Coelho venne a conoscenza della storia di Veronika tre mesi dopo , mentre cenava in un ristorante algerino di Parigi con un’amica slovena; anche lei si chiamava Veronika, ed era la figlia del medico responsabile di Villete. Veronika aveva orrore per ciò che suo padre aveva fatto, soprattutto considerando che era il direttore di un’istituzione che pretendeva di essere rispettabile, e che lavorava ad una tesi che avrebbe dovuto essere sottoposta all’esame di una comunità accademica. “Sai da dove viene il termine asilo?” domandò Veronika al suo amico. “Risale al Medioevo, al diritto del singolo individuo di trovare rifugio nelle chiese, nei luoghi sacri. ‘Diritto di asilo’: un’espressione che ogni persona civilizzata capisce! E allora come mai mio padre, direttore di un ‘asilo’, può agire in questa maniera nei confronti di qualcuno?”

Paulo Coelho volle sapere in dettaglio tutto ciò che era accaduto. Salvata per caso, “Veronika la matta” si risveglia tra le mura dell’ospedale psichiatrico di Villete, con il cuore stanco e sofferente per il veleno che lei gli ha somministrato. In pochi giorni a Villete, Veronika scopre un universo di cui non sospettava l’esistenza. Conosce Mari, Zedka, Eduard, persone che la gente “normale” considera folli e soprattutto incontra il dottor Igor, che attraverso una serie di colloqiui cerca di eliminare dall’organismo di Veronika l’Amargura, l’Amarezza che la intossica privandola del desiderio di vivere. Veronika spalanca le porte ad un nuovo mondo, un mondo che, attraversato con la consapevolezza della morte, la spinge sorprendentemente, alla consapevolezza della vita. Fino alla conquista del dono più prezioso: saper vivere ogni giorno come un miracolo. In questo straordinario romanzo, Paulo Coelho riversa la sua personale esperienza, i ricordi di tre anni consecutivi di ricovero in un ospedale psichiatrico, dove lo scrittore venne rinchiuso solo perché considerato “diverso”. E riesce ancora una volta a mostrare come il dono della serenità possa essere conquistato in qualsiasi luogo, attraverso la riscoperta della propria consapevolezza che non ci rende più timorosi nei confronti della vita e dei nostri luoghi dell’anima più oscuri. Veronika ci insegna la normalità di essere folli.

 

Haruki Murakami, “pittore” irriverente

«- Cosa ti ha chiesto la Pecora?

– Tutto. Tutto quello che avevo. Il mio corpo, i miei ricordi, le mie contraddizioni, la mia stessa debolezza… è questo che le piace. […]

– E in cambio cosa ti offriva?

– Qualcosa di tanto bello che era sprecato per me […]

Era come finire in un crogiolo che inghiottiva ogni cosa. Bello da impazzire, ma maledettamente vizioso. Una volta aspirati lì dentro, si perde tutto. La volontà, la scala dei valori, l’emozione, la sofferenza, ogni cosa… È una forza paragonabile a quella che un giorno ha dato origine a ogni forma di vita.

– tu però alla fine l’hai respinta. […] Preferivo la mia debolezza. La mia tristezza e la mia capacità di soffrire. La luce dell’estate, l’odore del vento, il verso delle cicale. Sono queste le cose che mi piacciono, non ci posso fare niente. Come bere una birra con te…»

Chiunque abbia letto qualcosa di Murakami, può senz’altro affermare, che adiacente, come un’altra miriade di scrittori, o lo si ama, o lo si odia. È quasi impossibile, e ammettendo che impossibilità come parola sia un fallace scherzo retorico della lingua, riuscire a scovare una via di mezzo, una sfumatura di grigio. Purtroppo, o lo si vede bianco o nero. Forse è un difetto, ma proprio questo scandire, come la tastiera di una vecchia Korg nel garage della nonna con l’Halzeimer, fa si che certi autori, contemporanei e non, irriverenti, innovatori e innovativi, vengano così tanto apprezzati e alle volte fregiati col grande mantello di “geni”. Per chi è un amante della letteratura giapponese, la ripubblicazione da parte di Einaudi di Nel segno della pecora è stato senza dubbio un evento imperdibile.

Il terzo romanzo dello scrittore giapponese, infatti, pubblicato per la prima volta nel 1982, da anni era fuori catalogo, irrecuperabile, praticamente scomparso.

Inserito nell’albo de La letteratura Giapponese, per moltissimi versi si distacca parecchio dai contemporanei scrittori del Levante. Uno stile senz’altro irriverente, senza peli sulla lingua, parecchio ermetico, ma asciutto. Non si perde in digressioni o descrizioni chissà quanto italiane come potrebbe fare un grande come Eco, e come ha fatto ai tempi Proust, per esempio parlando dell’imenottero di Fabre, passo ampiamente dibattuto da Baricco in una lezione al Palladium a Roma. E si distacca fortunatamente, oserei dire, anche da tutta quella letteratura femminile-borderline alla Banana Yoshimoto, in cui l’unico intento pare quello di dover a tutti i costi vendere a questo dannato pubblico contemporaneo fatto di alternativismi e istinti suicidi, un mix di suicidio ottocentesco, devianze sessuali liberalizzate come il pane, e l’acqua agli elefanti, cavalcando un’onda di marketing che ha visto negli anni Sessanta un grande e grave inizio per tutta una produzione letteraria beat (down) praticamente inconsistente e senza spina dorsale. Murakami è uno di quei contemporanei nato per diventare un classico ma che purtroppo, per ragioni evidentissime non lo diventerà mai, anche se qualcuno ci crede, ci spera, e molti lo dicono.

Murakami, come avrebbe potuto dire Maurice Merleau-Ponty, sarebbe un pittore. Un pedagogo e un pittore. I suoi romanzi, e ancor di più i suoi racconti, sono delle forti tele pittoriche, che, iniziano in un modo, ti portano in un mondo che apparentemente non sembra centrare molto, finchè non ti rendi conto che in realtà basta girare l’angolo per notare di essere al punto di partenza. E allora sì che esclami: “Ma?!”

Ci si rende conto di non aver viaggiato molto fisicamente, e che tutto il suo tour non è stato altro che un viaggio mentale, nemmeno tanto condizionato, perchè, diciamolo, è un uomo di una cultura esorbitante che però, a differenza dei grandi, non ostenta alcunchè, ma tu lo comprendi, e non perchè sia lui a dirlo, ma perchè riesce con una sublime ed elegante facilità, a portarti dove lui vuole. Ma in fin dei conti, ti lascia sempre di fronte ad una porta socchiusa. Non ti dice di attraversarla, non ti dice di tornare indietro. Ti lascia lì. E forse per quello molte volte ti lascia con l’amaro in bocca, e vorresti avere pronto, lì, sul comodino, di fianco alla tua lucina, il suo biglietto da visita, per chiamarlo, anche alle tre di notte e urlargli: “Ehi tu! Ma cosa hai combinato? E adesso?”

Una prosa asciutta, precisa, fatta di frasi brevi che cercano, loro malgrado, di spiegare l’inspiegabile. È questa la dote principale di Murakami: sconfinare nel mistico senza un linguaggio esoterico, ma al contrario, accessibile a chiunque.

Sono opere in grado di farti provare esperienze sensoriali a 360 gradi. C’è musica, ci sono sapori, il tempo è scandito sempre, e ti porta per mano per tutta la narrazione, non contrasta i lettori, potete sentire dolore, e perfino piangere. Piangere con poche parole, inconsciamente. Non è un drammaturgo né un tragediografo anche se tempo fa,durante un’intervista ha affermato, sorridendo:

 

Io non scrivo mai di gente triste.”

Un eufemismo a dir poco didascalico per descrivere appieno tutto il suo lavoro come scrittore.

Consigliamo ai lettori di iniziare con Nel segno della Pecora, per poi passare a rassegna tutte le sue raccolte di racconti, dando molto spazio a Tutti i figli di Dio danzano. Infine gettatevi sulle sue colonne portanti, Tokyo Blues, e Kafka sulla spiaggia.

Il signor Haruki è semplicemente un poeta che scrive in prosa sogni che cercano, e ci riescono, a spiegare, che alla fine, il mondo, è un bel posto dove vivere. E anche parecchio strano.

Colpa delle stelle, di John Green

“Mi hai regalato un per sempre dentro un numero finito.”

 In testa alle classifiche dei libri più letti da molte settimane, Colpa delle stelle, dello scrittore e blogger statunitense John Green, è il classico racconto strappalacrime per teen-ager alla ricerca di una lezione di vita.

Un tempo finito per una vita che non si è scelta. Hazel ha sedici anni, un’età in cui si dovrebbe amare con spensieratezza, cogliere ogni momento, occasione, istante, per vivere immensamente. Ogni istante vissuto come se fosse l’ultimo. Ed è così per Hazel. In un cielo colmo di stelle, infinite, come il tempo, Hazel, di tempo, non ne ha più. Il cancro ha deciso di portarla via con se quando aveva solo tredici anni. Ma la vita a volte è strana, ti sorprende e ti lascia senza fiato regalandoti ancora un momento, ancora un attimo, ancora un ultimo sogno.

La parole scorrono veloci, come i pensieri di Hazel, come la sua vita aggrappata a un filo che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro, prima di un bacio, un abbraccio. Prima di quel bacio, di quell’abbraccio. E cosa resta quando il cancro, maledetto e mortale, avvolge la nostra vita ancora prima di poterla vivere, quella vita. Un gruppo di sostegno, stupido, inutile, in cui nessuno sembra capire, nessuno sembra voler comprendere. Poi lui. Uno sguardo, uno scontro, un sorriso. Augustus entra nella vita di Hazel all’improvviso, quando tutto sembrava già scritto, dal destino, dalle stelle.

Augustus è più grande, con la forza e la voglia di lottare ancora, con il desiderio di non cadere nell’oblio. Un eroe d’altri tempi, un giovane Achille il cui unico desiderio è che le sue imprese siano ricordate in eterno. Ad Augustus non basta essere vissuto, lui vuole essere ricordato.

E’ così che tutto ha inizio. Quella che doveva essere una fine segna l’inizio di una storia dolce, forte, colma di paure, pensieri e dolori nascosti. La morte, nascosta dietro un angolo, li segue, i due giovani innamorati. Ma non tutto ciò che è scritto può avere un lieto fine, non sempre le storie che amiamo lasciano in noi sorrisi che non siano amari.

All’interno del suo romanzo John Green ci trasporta in un mondo che avvolge dolore e speranza; la speranza che un miracolo possa ancora accadere, che si possa ancora credere in quel dolce lieto fine. E quel miracolo è li, pronto ad accadere. Hazel, grazie ad un farmaco sperimentale, riesca ancora a respirare, a camminare a vivere. E mentre, a tentoni, cerca di star dietro al mondo, quel mondo va avanti, non aspetta nessuno, figuriamoci un’adolescente che non riesce nemmeno a salire due gradini. Ma lui no, Augustus è li. Con quella voglia di amare quel sorriso sarcastico, forte, dolce, pieno d’amore pronto solo ad esplodere.

Entriamo nel romanzo, lo viviamo rendendolo nostro in ogni suo punto. Scorrono veloci le parole come inesorabili le lacrime, in ogni sua parte, in ogni momento, guardando le stelle che avvolgono il mondo di Hazel e Augustus. Li amiamo, entrambi, nessuna pietà per loro. Sorridiamo attraverso le loro parole, quegli sguardi che, a volte, un libro riesce a mostrarci; siamo lì, consapevoli che quel male incurabili si nasconde ancora dietro l’angolo, pronto a colpire, pronto a portarli via. Eppure, continuiamo a sorridere. Un sorriso forse un pò amaro, un sorriso malinconico, un sorriso colmo di stelle.

Il romanzo ci trasporta in un mondo di adolescenti. Una giovane donna che cerca il suo posto in un mondo che con lei è stato crudele, cattivo, fino a quel giorno. Fino al momento esatto in cui i loro occhi si sono scontrati.  E Augustus, il suo sorriso accattivante, la sua voglia di vivere, di non perderli quegli attimi, di non perdere neanche un secondo, perchè la vita, a volte, corre troppo velocemente per poterla raggiungere.

Un romanzo che porterà il lettore a ridere, piangere, amare. Sentiremo di voler essere accanto a loro a viverli quei momenti. Perché la vita è fatta di momenti, irripetibili, da divorare con fame, Augustus lo sa ed è per questo che la trascina con se la sua Hazel.

Dal libro è stata tratta l’immancabile ed omonima traspozione cinematografica, spudoratamente ricattatoria per la regia di Josh Boone.

 

 

 

Che cosa ci fa un morto nell’ascensore?

Che cosa ci fa un morto dell’ascensore?, una raccolta di cinque racconti brevi  è l’unico libro pubblicato in Italia dallo scrittore sudcoreano Kim Young Ha.
A una prima occhiata questi sembrerebbero scollegati fra loro, poiché le trame non si incrociano durante il tempo narrativo. Tuttavia, se ci fermiamo a riflettere, il vero filo conduttore di questo libro può essere rintracciato nella solitudine, una solitudine che va di pari passo al progresso tecnologico.

Sullo sfondo di una ipertecnologica Seul si dispiegano i destini di cinque personaggi, frutto dell’abbagliante abilità narrativa di Kim Yung-Ha, giovane capofila di una nuova generazione di autori della Corea del Sud, ancora sconosciuti in Italia ma già molto apprezzati soprattutto negli Stati Uniti. Kim Yung-ha (1968) inizia a scrivere i suoi racconti su Internet e nel 1995 pubblica il primo romanzo breve, con cui vince il premio letterario come migliore “Giovane scrittore”. Si tratta senza dubbio di un intellettuale versatile e poliedrico, infatti non solo si è laureato in Economia e Commercio all’Università di Yonsei a Seul ma ha fatto anche il DJ e l’attore. L’eclettismo dell’autore sud coreano confluisce nella sua scrittura e nello sviluppo di trame che si distinguono nel panorama letterario contemporaneo.

Ciascuno dei protagonisti dei cinque racconti della raccolta in Che Cosa ci fa un Morto nell’Ascensore? è inserito in vicende completamente surreali; le storie stesse sono tutte narrate al presente, poiché non esiste un passato da ricordare e neppure un futuro da immaginare, ma solo un’eterna contemporaneità, che opera come potente sedativo verso ogni possibile slancio emotivo. I personaggi si muovono così come automi inconsapevoli immersi in un’atmosfera che evoca Lost in Translation, ma con una drammaticità che deve molto al cinema di Kieslowski. Nonostante siano concepite secondo una struttura circolare, le storie hanno un finale aperto, poiché suggeriscono una chiusura solo apparente su vicende prive di senso. I protagonisti sembrano vivere in camere insonorizzate, in cui solo di tanto in tanto giungono i rumori della modernità, che contribuiscono ad evidenziare ulteriormente la loro solitudine drammatica. Il gioco, sessuale o dinanzi al monitor di un computer, resta così l’unica dimensione con cui affrontare il quotidiano. La realtà scivola allora in secondo piano, tanto che la presenza di un corpo incastrato in un ascensore non suscita alcuna inquietudine nei condomini. Il giovane autore coreano, con una scrittura efficace e al tempo stesso disarmante, elabora in chiave moderna il paradosso di chi, illudendosi di essere immortale, vive una vita di eccessi, ma lo fa nella più totale noia. Yung-Ha possiede la rara capacità di drammatizzare, piuttosto che raccontare semplicemente, le vicende che sceglie come emblematiche ed esemplificative, riuscendo a fondere insieme, con sorprendenti risultati, cinismo e leggerezza. Ecco che, in un mondo così lontano, la Corea del Sud, si ripete quella che in tutta evidenza è la conseguenza normale di una civiltà ipertecnologica. Nonostante tutto sia cemento e tecnologia, grigio e assordante, al di fuori resta un nucleo di impotenza dinanzi al delirio dell’umanità. Si percepisce in filigrana un climax che produce un pathos distillato lentamente, sino ad una dilatazione del reale che lo traduce in un simulacro di trasparenze.

Il lettore è cullato in un limbo mobile in cui l’immaginazione va oltre lo sguardo e uno strano stato di sospensione lo avvolge nel mistero, ma paradossalmente la realtà resta salda. Gli intrecci raffinati e paradossali sono il mezzo che Yung-Ha utilizza per mescolare le carte in una società in pieno sviluppo economico, è  lucido elemento di disturbo il suo tentativo di voler lasciare un cono d’ombra tra le luci di Seoul. Inoltre egli è spregiudicato nel suo tentativo di elaborare il paradosso esistenziale dell’uomo moderno, per concludere: lo scrittore Yung-Ha è un’autentica sorpresa.

La saudade, postilla narrativa su Antonio Tabucchi

Lisbona, la città della ‘saudade’

Antonio Tabucchi è conosciuto soprattutto per alcuni celebri romanzi come Notturno indiano e Sostiene Pereira, capolavori dello scrittore italiano. Non tutti sanno, però, che Tabucchi ha dato il meglio di se’ nella realizzazione di racconti che spesso sono stati sottovalutati. Tra le perle narrative c’è sicuramente Donna di Porto Pim. La storia è ambientata nelle isole Azzorre ed ha un finale drammatico, lacerante, di quelli che lasciano con dubbio ed amarezza, con la tristezza di chi “è già stato, è già vissuto”. Così il protagonista, Lukas Eduino, cantastorie e pescatore tradito dice:

<<E se tu ti trattieni ancora un po’ e la voce non si incrina, stasera ti canterò la melodia che segnò il destino di questa mia vita. Non so perché lo faccio, la regalo a quella donna dal collo lungo e alla forza che ha un viso di affiorare in un altro, e questo forse mi ha toccato una corda>>.

Ma più che la trama, ciò che colpisce il lettore attento è una delle tante “linee fluo” che rendono originale e inimitabile l’intera opera tabucchiana, ovvero, la saudade, il cui concetto è ripreso dallo scrittore portoghese Fernando Pessoa, sua guida e modello. Che cosa significa per lui questa parola?

“La saudade è una parola portoghese di impervia traduzione, perché è una parola-concetto, perciò viene restituita in altre lingue in maniera approssimativa”.

Tradotta in italiano come: solitudine, malinconia la saudade è una “faccenda antica”, il cui significato è vicino al concetto dantesco di disìo, lo scrittore non può che, con la voce del mentore fidato,  accompagnarci nel mondo dell’altrove fisico e immaginario, in cui sperimentarla en plein air. E dove se non in Rua da Saudade, antica strada di Lisbona?

La capitale portoghese è a tutti gli effetti la città in cui gli uomini scelgono due strade per andare a morire, una è l’eliminazione fisica e quindi drastica e dolorosa, l’altra è la pratica della saudade.

Nel suo libro Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli, 2010) Tabucchi sembra spiegare oltre a fornire squarci, consigli pratici, a tratti da tour operator sui luoghi degni di nota dei più bei posti del mondo, che cosa significhi vivere, esplorare la saudade.

La parola-concetto non incontra una corrispondente traduzione italiana che le sia fedele, se si esclude la personale definizione che ne ha dato lo stesso autore: “nostalgia del futuro“. La nostalgia è un sentimento che esprime insoddisfazione, tristezza, assenza di qualcosa che possedevamo e ora abbiamo perso. Blandisce la nostalgia l’esempio del dejavù, in cui il passato bussa alla porta della mente con insistenza e sembra che ogni evento o incontro sia vissuto milioni di volte -sapori, canzoni o immagini divengono familiari fino all’estremo e sono per questo stranianti- esiste il contrario (jamais vous =ogni cosa che osservi è come se la vedessi per la prima volta, sempre eternamente estranea), la sensazione di sperimentare un avvenimento che , in questo caso la nostalgia di qualcosa che non è ancora vissuto o non si vivrà mai, difficile collocarlo nella dimensione temporale, in quanto la saudade afferma l’assenza del tempo. Quindi sia passato che futuro si ammutoliscono. Non sono distinguibili. L’unica cosa che resta è il desiderio di essere. Il tempo del soggetto si biforca, e ciò che resta è una identità franta, divisa in due parti. L’io dov’è allora? Nel passato o nel futuro? In nessuna delle due, bensì si situa nella dimensione dell’essere stato. Il passato in questo modo ritorna per riprodursi uguale a se stesso, con l’aggiunta di una sensazione di continuo malessere e nostalgia nella percezione del futuro.

Il sentimento nostalgico accompagna spesso i personaggi tabucchiani, esploratori di vie battute anche solo grazie alla propria immaginazione o ai sogni, nell’esplorazione del testo, dei frammenti di attimi colti dal viandante lungo il suo peregrinare.

Anche nel romanzo Notturno Indiano si nutre la sensazione che la saudade ci accompagni tenendoci per mano:

“Non so chi ha detto che nella pura attività del guardare c’è sempre un po’ di sadismo. Ci pensai ma non mi venne in mente, però sentii che c’era qualcosa di vero in quella frase, e così guardai con maggiore voluttà, con la perfetta sensazione di essere solo due occhi che guardavano mentre io ero altrove, senza sapere dove”.

Essere due occhi, due mani, un libro o una poesia letta in un caffè, o quello scrittore alla ricerca del suo doppio. Il passo, molto profondo e denso di spunti di riflessione, è tratto dal libro “Notturno indiano”, viaggio reale e metaforico alla ricerca di un amico portoghese, Xavier, perdutosi in India. La sensazione che pervade tutto il romanzo è quella di muoversi alla ricerca di un’alterità sofferta, di uno scavo interiore graduale, granitico e quasi doloroso. Tutto ciò cosa c’entra con la saudade? Detta il tono, l’andamento dell’opera, così come il viaggio del protagonista malinconico è la molla per conoscere la propria anima, sondare i propri lati oscuri e ombre di luce.

Così, tra i tanti personaggi umbratili, passeggeri di Notturno, spicca il medico indiano che, alla domanda del protagonista -perché un giovane come lui avrebbe studiato Medicina a Londra, per giunta con specializzazione in Cardiologia- per poi tornare al proprio paese, rivela una curiosa e obsoleta vena di malinconica rinuncia. Perché quindi tornare ad operare come cardiologo in un paese in cui i più sono affetti da lebbra, sifilide, e qualsivoglia tipologia di malattie infettive, in cui la possibilità di subire un infarto è quasi pari a zero?

“Ma a me piaceva il cuore, mi piaceva capire quel muscolo che comanda alla nostra vita, così.” Fece un gesto con la mano, aprendo e chiudendo il pugno. “Forse credevo che vi avrei scoperto qualcosa dentro.”

Che cosa cercava il medico tornato ad operare in India? Probabilmente, non cercava che desiderio di tornare a casa dopo un lungo viaggio. Un viaggio che si chiama nostalgia.


Donna di Porto Pim: un amore tragico

Il racconto Donna di Porto Pim suggella la capacità di Antonio Tabucchi di scrivere storie con naturalezza e coinvolgimento. E infatti il pezzo intitola l’intera raccolta dedicata alle isole Azzorre (pubblicato per la prima volta nel 1983). Il racconto omonimo ci immerge in una storia drammatica e struggente, quella di un triangolo amoroso conclusosi in tragedia. Ma ciò che Antonio Tabucchi vuol sottolineare è sicuramente l’onnipresenza dei luoghi.

I veri protagonisti della vicenda infatti sono proprio le isole Azzorre, affascinanti, crudeli, quasi incantate. Nella prima edizione compare anche una dichiarazione di narrativa dello stesso autore che scrive:   Questo libretto trae origine, oltre che dalla mia disponibilità alla menzogna, da un periodo trascorso nelle isole Azzorre. Suoi argomenti sono fondamentalmente le balene, che più che animali sarebbero metafore. Ma cosa può significare: le balene sono metafore? In breve, l’universo tabucchiano è abitato di oggetti, persone, animali. Essi rappresentano il traslato, tutto ciò che sta oltre il visibile. I cetacei presenti nel libro dunque sono tropi di un mondo immaginato con cura, veicoli di messaggi profondi ed interpretabili dal lettore. Più che sulla trama dunque è necessario concentrarsi sul perché Tabucchi abbia scritto una raccolta come questa. Essa nasce da un’esigenza di rievocare il sentimento di un viaggio, quello che l’autore nelle Azzorre che rimase impresso nella memoria sello scrittore, segnando forse anche il termine della propria giovinezza. Nella sua narrativa si ricordano titoli importanti di romanzi come Piazza d’Italia (1975), Il piccolo naviglio (1978)Notturno Indiano (1984), Il filo dell’orizzonte (1986) e, naturalmente, come dimenticare il successo dovuto al romanzo Sostiene Pereira (1994), storia di un giornalista un po’ goffo alla ricerca della verità storica. Ma l’essenza vera, spontanea di Tabucchi narratore emerge nei racconti, nella brevità e, come lo stesso autore ha specificato, nell’arte della menzogna, della finzione.

Perché leggere questa raccolta? #1 Perché conduce in un immaginario di oggetti, animali, profumi e canzoni che solo Tabucchi è riuscito a rievocare. Leggendo questi racconti si può navigare negli oceani delle possibilità, credere che qualsiasi cosa sia possibile. #2 Tabucchi viaggiò moltissimo: dunque nella sua finzione letteraria c’è molto di vero. Leggere per credere.

Il volume Viaggi e altri viaggi pubblicato nel 2010 da Feltrinelli editore è dedicato alla spiegazione insolita e appassionata dei luoghi visitati dallo scrittore pisano. #3 L’amore di Tabucchi per il kitsch e la sua forza di evocazione, di mito quasi, fa sognare. #4 La presenza del cantastorie. L’autore la inventa perché forse lo diverte o è frutto di un percorso per “sminuire” se stesso. #5 Nella raccolta troverete molti personaggi: voci, volti, impressioni. Sono quelle del lettore.

In Tabucchi non c’è un intreccio che domina sugli altri. Ci sono storie possibili ed immaginabili, non storie certe.

Al lettore il potere di aggiungere, immaginare ciò che potrebbe essere di Yeborath o della balena, o del cantastorie che sta lì nella taverna a cantare per i turisti che passano e non tornano più sull’isola. Anche la murena può comunicare un senso di smarrimento o paura, di certezza drastica. Sta tutto al lettore e alla sua fantasia di costruire rimandi, associazioni o ipotesi. #6 Per concludere: Donna di Porto Pim è un libro spezzato, in frammenti. Spezzato al suo interno dalla molteplicità. Ed è per questo motivo che è tende all’infinito: vuole ricomporre le parti mancanti del suo universo narrativo. E probabilmente, lo stesso autore si fa coinvolgere da queste storie, tramutandosi da narratore a personaggio alla ricerca di una strada da percorrere. Così, il personaggio può essere chiunque, trasformarsi nel protagonista in un gioco di alterità disperse. #7 Ci fa riflettere sul senso della verità e sulle molteplici angolature che la realtà può assumere. L’apparenza inganna e i sogni aiutano a riparare i vetri rotti. Tabucchi lo fa egregiamente. O forse, è la vita a farlo. Un libro per viaggiatori,  per immaginatori di vite.

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