Lettera a un bambino mai nato, lo struggente monologo di Oriana Fallaci

Lettera a un bambino mai nato (1975) è un commovente e struggente monologo con cui la scrittrice Oriana Fallaci, sola ed indipendente, riflette sulla maternità ponendosi spinosi interrogativi.

Il libro comincia così: “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto , in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: si c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore. E quando ha ripreso a battere con tonfi sordi, cannonate di sbalordimento, mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo”.

Lettera a un bambino mai nato non è solo commozione ma anche dramma, quello di una donna che aspettando un bambino, non sa di lui il nome, l’indirizzo, l’età, di cui non si conosce nulla eccetto il fatto che vive sola, indipendente, forte e che deve affrontare il dilemma se dare alla luce il proprio bambino o continuare la sua brillante carriera senza alcun ‘intoppo’.

Il monologo ha inizio proprio dal momento in cui lei scopre di essere incinta ed ecco che allora inizia a porsi innumerevoli dubbi: basta volere un figlio per metterlo al mondo? E se a lui non piacesse nascere? Meglio uomo o donna? Il monologo procede diviene quasi una confessione, una confessione di una madre forte e coraggiosa ma anche impaurita al proprio figlio, mentre questo dramma matura entrano in scena altri personaggi. Tutti testimoni incoscienti di quel rapporto che oscilla tra la rabbia e l’amore fino ad arrivare all’accettazione di quella maternità.

Cosa si cela in realtà dietro a questi interrogativi? Egoismo? Paura di non essere all’altezza? Di vedere la propria vita stravolta? La maternità è un dovere morale? Nascere è davvero meglio di non nascere? E se il mondo non piacesse al nuovo venuto? Non sarebbe allora una spietata violazione? Perchè una donna dovrebbe rinciare alla propria libertà che ha inseguito per tutta la vita? L’unico modo per proseguire il proprio cammino sarebbe quindi archiviare il problema, e quindi eliminarlo, ma  non si tratta forse, anche in questo caso, di una brutale prevaricazione?

Leggendo questo libro è impossibile non commuoversi, non rabbrividire dinnanzi ad una donna sola che si trova ad affrontare la gioia più grande ma anche la più terribile: se dare o meno la vita ad un bambino. Oriana Fallaci è una donna intelligente che non ha la presunzione di chiedere a se stessa se vuole o meno questo figlio ma che vorrebbe invece capire anzitutto cosa vuole questo essere che porta in grembo. Il libro rappresenta l’emblema di un rapporto indissolubile che si crea fra una madre e il proprio figlio prima ancora che questo venga alla luce, una vita che si nutre di un’altra vita di cui non potrà mai farne a meno, di cui avrà bisogno per sempre. La sfida più grande è affrontata da sola, da una donna spietata contro questo uomo che  le chiede inizialmente di dare via il bambino, una donna che mentre si chiede se dare la vita o negarla a questo piccolo esserino che cresce dentro di sé ha già deciso proteggendolo da un padre che non lo vuole, che non intende accettare questa sfida, una donna che rifiuta l’idea di aver amato un uomo che non ama il proprio figlio. Gli altri personaggi sono solo delle comparse: il padre, appunto, l’amica, i genitori, i medici e il commendatore. Alla fine il bambino le darà a sua madre la risposta che tanto attende.

Non è ancora la Oriana aspra e dura de La rabbia e l’orgoglio o de La forza della ragione, ma in questo libro riconosciamo la Oriana non corretta politicamente, le cui parole colpiscono la nostra coscienza, mettendoci in confusione, e quindi qual è la cosa giusta? Considerare il feto già bambino e quindi uomo, dato che il dna è scritto, oppure ritenere che in fondo non è altro che un uovo, non un essere umano e quindi si può fare a meno di lui? La Fallaci non dà risposte definitive, è una donna di dubbi, non di certezze. Ma la certezza è che non importa di cosa una persona sia convinta, in questo straordinario libro si legge il proprio credo e anche quello più lontano dal nostro e quando giungiamo all’ultima pagina, ci ritroviamo a pensare e ripensare. Certamente chi è estremamente religioso, ha un approccio diverso verso gli eventi della vita, rispetto a chi la affronta laicamente e quindi crederà che il feto sia già un bambino, magari anche senza riflettere, senza porsi quesiti esistenziali ma solo perché l’aborto lo si considera un peccato, così come alcune lo ritengono una libera scelta in virtù delle lotte femministe, e di un diritto che mette nelle condizioni una donna si essere in questo modo, al pari di un uomo, di non reputarsi inferiori, in quanto libere di scegliere se dare o meno la vita.

Lettera a un bambino mai nato è la storia di una scelta. Dare vita ad un altro essere umano è il miracolo più grande della vita e questo libro merita  assolutamente di essere letto, che siamo madri o meno, donne o uomini.
Decidere se dare la vita o negarla, quando non si ha fede, non si crede in Dio (la Fallaci si è sempre considerata un’atea, ma nell’ultimo periodo dell sua vita si è molto avvicinata alla Chiesa Cattolica grazie all’amicizia con Mons. Fisichella) vuol dire dover percorrere da soli una strada ancora più difficile, piena di contraddizioni e lacerazioni interiore che solo una grande fede può alleggerire.

La Fallaci è una madre piena di tenerezza, il suo è un amore puro, non imposto dallo Stato, dalla società, dalla religione, è una madre capace di difendere il suo bambino contro tutto e tutti, ma forse non da se stessa: “Dormiamo insieme, abbracciati. Io e te, io e te… Nel nostro letto non entrerà mai nessun altro”.
Ma il mondo deve entrarci con le sue leggi e con le sue ipocrisie, e infatti la scrittrice poi dice: “Tu che non conosci ancora la peggiore delle verità: il mondo cambia e resta come prima”.
Anche questo è il compito di una madre: preparare il figlio a lottare, a difendersi dalle prepotenze, insinuargli il dubbio, insegnarli a mettere in discussione tutto.
Ma su questo terreno scivoloso del dubbio lei stessa finisce per inciampare, e i pensieri ostili ed egoisti di una donna che non risparmia nemmeno se stessa, prendono il sopravvento: “Ti insinuasti in me come un ladro, e mi rapinasti il ventre, il sangue, il respiro. Ora vorresti rapinarmi l’esistenza intera. Non te lo permetterò”.

Qui viene fuori l’Oriana indipendente donna in carriera abituata agli spazi aperti e costretta all’immobilità da una gravidanza difficile,  ma forse è solo un momento di stizza, disturbante ma necessario. La Fallaci approda ad una speranza piena di disillusione: “Il dolore non è il sale della vita. Il sale della vita è la felicità, e la felicità esiste: consiste nel darle la caccia”.

Oriana Fallaci rimane e rimarrà per sempre una straordinaria donna prima che scrittrice di enorme successo, il suo linguaggio struggente, chiaro e comprensibile per chiunque (ogni parola è pesata), fa di lei una delle scrittrici più amate e conosciute al mondo; l’immagine che si scorge di lei in tutte le sue opere è quella di una donna forte che non si piega al maschilismo, una donna che ha combattuto contro una grave malattia e che, nonostante i suoi dolori e i suoi drammi, è diventata il simbolo di tutte quelle donne che hanno dovuto combattere contro le ingiustizie del mondo.

 

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne

 

 

‘I pesci non chiudono gli occhi’, di Erri De Luca

La voglia di crescere, di cambiare, quel desiderio di vedere il corpo maturare, trasformarsi; c’è tutto questo in I pesci non chiudono gli occhi dello scrittore partenopeo Erri De Luca.

“L’infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato dalle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori.”

Erri De Luca torna, nel 2011, con un romanzo edito da Feltrinelli, infarcito di frasi che sembrano poesia. Una musica che accompagna una dolce e amara malinconia, sembra attorniare queste pagine. Un uomo che torna indietro con la propria mente, la guerra, il dopoguerra, gli americani, i tedeschi, una città distrutta e un padre che cerca fortuna altrove. Ancora un’isola, probabilmente Ischia, dove De Luca aveva ambientato “Tu, mio”, dove trascorrere l’estate, tra enigmi da risolvere e due nuovi occhi da guardare.

Da quei cinquant’anni tutto è cambiato, tutto o niente. Quel bambino è ancora li, ricorda e sente, sente e ricorda. Vede ancora quegli adulti, conosciuti attraverso i libri del padre, nient’altro che “…bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili.”  

Nelle parole di De Luca conosciamo un altro piccolo protagonista senza volto, siamo noi, è lui, siamo noi. Un’infanzia fatta di silenzi, di sguardi persi nel vuoto, in quella voglia di cambiare, di apportare al corpo quella trasformazione che la mente già sente sua, in ogni più piccolo centimetro di essa. Ma il corpo resta li, fermo, immobile, e allora resta da scegliere una strada da percorrere per forzarlo, quel cambiamento. Con una rottura dello stesso corpo, solo così, qualcosa, sarebbe cambiato.

Le parole scorrono con dolcezza, attraverso quella malinconia che ci riporta indietro ogni qual volta osserviamo i luoghi che hanno accompagnato la nostra infanzia, quei luoghi fatti di quegli attimi che ci hanno cambiato. E allora il bambino cambia, il corpo inizia la sua trasformazione, “forzata”; attraverso il sangue, le lacrime nascoste, prese di posizione di fronte ad una madre che non sa scegliere, che sembra aver bisogno dell’appoggio di un “bambino” di dieci anni per trovare le sue risposte. O è forse quel bambino, a sentire di doverle dare, quelle risposte.

Il romanzo, racchiuso nella sua dolcezza, ci parla di una storia ordinaria, ma indimenticabile. Poche parole, poche notizie, piccoli accenni, spesso brevi commenti. L’indispensabile per raccontare quei momenti che tutto cambiano.

E poi lui, quel sentimento che sconvolge l’animo, che lo riempie e lo svuota, che smuove dentro, che arricchisce con le sue mille ferite. L’amore, quel solo verbo, “amare”, che il bambino non riesce a comprendere. I grandi se ne riempiono la bocca senza nemmeno sapere cosa sia. Ma quell’estate anche questo cambia. L’ amore arriva e ha due occhi che, il nostro giovane protagonista non riesce a smettere di guardare.

“Ero rimasto immobile a guardarla. “Ma tu non chiudi gli occhi quando baci? I pesci non chiudono gli occhi.””

I racconti di quei momenti che riportano all’ infanzia, si alternano ai pensieri dell’uomo ormai divenuto adulto: lo scrivere di oggi, il salire su un palco a strimpellare la chitarra, la morte dei genitori, la mano di sua madre che posava tiepida sulla fronte, fino all’ultimo. E ancora la madre, che amava tanto gli scrittori e che lo amava, anche come scrittore. Spesso, quando qualcuno dei suoi libri le era particolarmente piaciuto, lo guardava e diceva “Aro’ sì asciuto?” (Da dove sei uscito). E lo stupore, accompagnato da un dolce sorriso, per quell’amore, per quel verbo che, ancora oggi, gli adulti non sono in grado di comprendere.

Lo scrittore si lascia andare ad un certo autocompiacimento, ma le pagine scorrono veloci. I pesci non chiudono gli occhi è nn altro libro da “divorare”, come tutti quelli con cui lo scrittore napoletano ci ha appassionato. E quella lingua, il napoletano, quella che anche chi non la conosce, non può fare a meno di amarla. E così, Erri De Luca, torna a Napoli, noi camminiamo accanto a lui, ascoltiamo quella musica dolce, quella malinconia che accompagna le nostre giornate, gli anni che passano, inesorabili, come il tempo che corre troppo velocemente. Ma a De Luca, come un dono, è stato fatto quel dono che si concede solo ai grandi scrittori. Lui lo ferma il tempo, il nostro tempo, quello passato: ai ricordi andati, rimasti in quell’isola dove, quel tempo da bambini, si fermava per imparare a vivere.

“Capivo all’indietro quello che succedeva dentro i libri, quando uno si accorge della specialità di un’altra persona e concentra su quella l’esclusiva della sua attenzione. Capivo l’insistenza di isolarsi, starsene in due a parlare fitto. Non c’entrava per me il desiderio, quell’amore chiudeva con l’infanzia ma non smuoveva ancora nessun muscolo degli abbracci. Scintillava dentro, mi visitava il vuoto e me lo illuminava.”

“Il weekend”, di Peter Cameron

Peter Cameron

<<Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria>>.(Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”).

Le parole di Pavese sembrano siano state cucite addosso al nuovo romanzo dello scrittore americano Peter Cameron, Il week-end, dove piccolezza, meschinità, turbamenti quotidiani, si perdono nella potenza della natura.

E’ trascorso ormai un anno esatto dalla morte di Tony, fratellastro di John e amante, per nove lunghi anni, di Lyle, critico d’arte di New York. Marian, moglie di John, ha così deciso che è giunto il momento di ricreare quell’atmosfera, quei magici momenti che custodisce nel cuore, quei momenti che il tempo non ha cancellato, sbiadito, portato con se. Ma ciò che i due coniugi ignorano è che Lyle, dopo il successo del suo ultimo libro sull’ascesa e sulla caduta dell’arte contemporanea, ha incontrato un giovane, Robert, di cui si è invaghito, in cui ha rigettato le sue speranze , quell’attesa interminabile “che la sua vita stia per cambiare“.

E così, quello che sarebbe dovuto essere un momento fatto di dolcezza, malinconia, lacrime e sorrisi, ricordi di un dolore mai cancellato, diventano una serie infinita di momenti imbarazzanti, parole non dette, silenzi colmi di rabbia e finta indifferenza verso quell’incontro che sporca ogni singolo ricordo, un amore che il tempo, mai, potrà cancellare. Perché, il tempo non cancella le ferite, non può farlo. Il tempo, quello che scorre forse troppo velocemente per chi, come Lyle, è rimasto aggrappato ad una flebile speranza che, un giorno, si possa sorridere ancora, è legato alla consapevolezza che nulla, sarà mia più come prima. Nulla potrà mai più riportare indietro l’amore di una vita intera.

Peter Cameron, ci mostra la dolcezza, la bellezza, la paura, di entrare nei meandri nascosti della mente umana. Sentimenti che si cerca di nascondere ad un mondo indifferente ai nostri dolori, perché ogni dolore appartiene, in modi e misure diverse, solo a chi ha subito quella perdita, quella perdita che con se, porta via anche la speranza di poter, un giorno, essere ancora in grado di sorridere, amare, ricominciare. Attraverso le sue parole, Cameron, porta il lettore in quel mondo segreto, nascosto, chiuso nell’anima di ogni personaggio, di ogni uomo. Un luogo in cui le domande, le ansie, le angosce, le paure, restano sigillate, chiuse e pronte ad esplodere, come un vecchio armadio che non può contenere più nessun abito.

Ma Lyle lo sa, è consapevole del pericolo in cui incorre nel portare questo giovane ventiquattrenne in quel luogo in cui la presenza di Tony è ancora troppo viva, nonostante quell’assenza concreta a cui, nessuno, potrà mai riparare. Perché Tony è li. In ogni oggetto, in una cena in giardino, in un bagno nel lago, in ogni parola, sguardo… in ogni lungo silenzio.

In un tempo labile, veloce, eppure lento e inesorabile, in quel weekend in cui tutto, avrebbe dovuto essere perfetto, la presenza di Tony è ancora troppo “viva” per poter anche solo sperare di dimenticare quella nuova presenza incarnata nel volto di Robert che, in qualche modo, sostituisce, o forse semplicemente occupa, un posto che non può, non deve appartenergli.

Ed è il dolore a dare consapevolezza. Il dolore, quello nascosto al resto del mondo, quello con cui facciamo i conti quando apriamo gli occhi e, solo per un istante speriamo sia stato solo un brutto sogno, cerchiamo di percepire ancora una presenza che, ormai, è solo assenza.

“Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che il tempo porta via è andato, e poi si resta con qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai.”

Un libro che si legge con piacere, per la straordinaria capacità di far immergere il lettore in quell’atmosfera minimalista dove lo scrittore analizza la psiche umana.

“L’assassino”: l’arguta psicologia di George Simenon

Georges Joseph Christian Simenon (1903-1989) è autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico come ideatore del personaggio Jules Maigret, commissario di polizia francese. Prolifico scrittore, inizia la sua carriera a poco meno di sedici anni, a Liegi, come giornalista nella sua città natale. Trasferitosi a Parigi negli anni venti, diventa autore di narrativa popolare ottenendo grandi successi. Negli anni ’70 produce un considerevole numero di romanzi (gialli e non), tale da renderlo uno degli autori più letti e tradotti del XX secolo.

“L’assassino” (in originale francese “L’assassin”), è appunto uno dei suoi romanzi, edito nel 1937 da Gallimard e pubblicato in italiano nel 2011 dalla casa editrice Adelphi ,tradotto da Raffaella Fontana.

Hans Kupérus è un medico, ma anche un uomo corpulento, metodico, abitudinario, riservato. Ha da sempre un’ambizione frustrata: quella di diventare presidente dell’unico posto di ritrovo del piccolo paese in cui è cresciuto: il circolo del biliardo. È un martedì di gennaio e Kupérus è ad Amsterdam per una periodica riunione medica dove è solito fermarsi anche a dormire per tornare il giorno successivo, ma al convegno questa volta non si presenta. Entra in un’armeria e compra una pistola anche se non sa ancora cosa farne, poi riprende il treno per tornare in paese a Sneek.

È ormai trascorso un anno da quando un biglietto anonimo l’aveva messo al corrente che la moglie, quando lui andava in città, passava la notte fuori casa tradendolo proprio con la persona che da sempre veniva eletto tacitamente, per la sua altolocata posizione, presidente del circolo impedendogli di coronare il suo modesto sogno. Non lontano dalla stazione d’arrivo, il treno improvvisamente si ferma e Kuperus prende una decisione. Scende di nascosto e si reca nel capanno dove è certo di trovare i due amanti. Colti sul fatto, li uccide. Poi getta i corpi nel lago che, ghiacciando, li occulterà per tutto l’inverno. Quindi rientra in paese e passa al solito caffè, chiacchiera con gli amici e torna a casa. Al rientro Neel, la domestica, gli comunica che la moglie è andata a trovare dei parenti e che sarebbe rientrata il giorno dopo. Kuperus, come se fosse la cosa più normale, ordina a Neel, sulla quale aveva da sempre fantasticato, senza mai osare nulla, di raggiungerlo in camera da letto. Dopo un debole tentativo di dissuasione lei cede alle sue richieste. Da quella volta, Kuperus rinnova ogni sera la pretesa che viene silenziosamente soddisfatta, divenendo sempre più  coinvolto in questo strano menage. Così comincia questo romanzo noir , intrigante e  gelido come il suo protagonista, in cui Simenon segue la discesa nell’abisso di uno dei suoi eroi più tipici: uno di quelli che osano “passare la linea” e ne pagano il prezzo.

Pur utilizzando uno stile narrativo asciutto e poco incline a estetismi letterari, le opere di Simenon dimostrano una notevole capacità di ritrarre con arguta psicologia vicende dal sapore profondamente umano. Si parla addirittura di borghesizzazione del racconto giallo: uomini umili appartenenti alla borghesia, si trovano coinvolti in vicende drammatiche, passando sotto la lente di un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in descrizioni favolistiche, ma anzi ad esse dedica poche ed esaustive righe. Tutto è realtà e naturalmente anche il bigottismo e l’ipocrisia della società perbenista che condanna senza pietà l’assassino. Simenon attraverso la vicenda criminale e la discesa nelle tenebre della coscienza di Kuperus, dà grande prova di conoscere profondamente l’ambiente di provincia (in questo caso quella olandese ma è universale).

Molti dei romanzi di Simenon sono diventati film, sceneggiati e serie televisive. “L’assassino” è stato portato sullo schermo da Ottokar Runze, in un film tedesco dal titolo “Der Mörder”, uscito nel 1979.

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