‘L’ignoranza della polvere’, la silloge poetica rabdomantica ed etica di Luca Crastolla

La poesia, probabilmente più della prosa, è un sentiero impercorribile per molti, sul quale sono disseminate parole incomprensibili, oscure per chi ancora non ha compreso che la poesia non è altro che l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spilli come sosteneva William Faulkner. In tal senso risulta quanto mai calzante l’esordio della prefazione, curata da Giuseppe Cerbino, alla silloge poetica di Luca Crastolla, da titolo fantiano L’ignoranza della polvere edito da Controluna nel 2018, che strizza l’occhio alla filosofia e nello specifico a Wittgestein, per il quale certi pensieri possono essere compresi da chi li ha già pensati, per “aiutare” il lettore più pigro ad entrare nella poetica e nell’universo di Crastolla. Già, perché anche il lettore meno sensibile ai versi poetici, non può non riconoscersi nella profonda emotività, negli smottamenti propri del nostro pensare, che l’autore pugliese lascia emergere tra le pagine di questo libro che può illuminare come accecare il lettore.

Crastolla attraverso un uso puntuale ed incisivo della parola tenta di universalizzare la profondità del nostro pensiero, intensa come complessità, un insieme di contraddizioni, desideri di riscatto ma anche di abruttimento, di elevarsi e abbassarsi spiritualmente, di innalzarsi verso il Cielo e di toccare il sottosuolo. L’ignoranza della polvere non sconta il compiacimento retorico in cui scivolano purtroppo molti scrittori, non solo esordienti, erigendosi a cantori (superficiali) dell’animo umano. Qui siamo di fronte ad una metapoesia, una poesia che ragiona su se stessa, sulle sue possibilità e sullo stupore che ogni volta può suscitare in primis in chi la compone, che si abbandona alla potenza della poesia, lasciando che siano le parole ad impossessarsi di lui.

Crastolla non vuole confortare il lettore, semmai lo sfida a decifrare i simboli della realtà, soprattutto di quella del sud, terra incantata e allo stesso tempo martoriata, a comprendere che la poesia deve avere anche una funzione sociale. Descrivendo la realtà, Crastolla ne coglie e trasmette le impressioni più indefinite, avvalendosi di immagini sfumate, affiancando espressioni astratte a quelle più concrete: la stagione della reticenza, bicchieri di mirto, marciapiedi urinati dalla distrazione; ponendo(si) interrogativi, esplorando l’ignoto, liberando i pensieri, le paure, evocando sensazioni ed emozioni persino mai provate davvero. Si esce dunque dall’universo individuale per approdare a quello universale; nel mezzo ci sono oggetti da rinvigorire, strade vecchie da asfaltare e come compagna di viaggio la voglia di definire l’idea stessa di poesia. Naturalmente questa ricerca comporta uno scompenso interiore che fa apparire la realtà agli occhi del poeta, come luogo di perenne conflitto, dove le cose sono “dipinte’ in chiaroscuro.

La vita è caos per Crastolla, la quale offre inquietudine e senso di inadeguatezza ai suoi abitanti imbrattati dalla polvere, ma può dare anche serenità e pace se cercassimo di alimentare quanto meno possibile le nostre paure ed incertezze, lasciando, semmai, agire in noi, quella scintilla divina che meglio ci fa conoscere noi stessi, ristorandoci dopo il tortuoso cammino. Ma al di là del contenuto della poetica di Crastolla, la domanda da porsi è che può essa ritenersi universale? L’autore riesce a concentrare in maniera viva, nelle sue settantotto pagine il lato oscuro della realtà, di noi stessi, nonché la rappresentazione drammatica delle cose che ci circondano? In gran parte vi riesce, soprattutto quando volge l’attenzione al suo sud, tuttavia, manca una dimensione spirituale più profonda, un vero e proprio confronto, e perché no, anche un duello, con il trascendente che aiuta a gettar luce sulla mutevolezza umana, storica, esistenziale e non fermarsi alle istanze proprie dell’ateismo cristiano che vuole svuotare la fede di qualsiasi senso religioso e del sacro, provando a superare il dualismo per sfociare nell’Uno per una via più naturale di pensiero, non propriamente filosofica.

Lo sguardo poetico di Crastolla è aspramente surrealistico, votato allo scomponimento dell’oggetto, sull’altra faccia di un pensiero, su un’emozione, sulla dissolvenza ed emergenza del mondo, si inserisce in un’architettura culturale e morale che mira alla scoperta e alla presa di coscienza di una nuova percezione, di un nuovo modo di sentire e raccontare le cose, ancora in fase di sperimentazione, tirando fuori tutte le potenzialità della parola. Si percepisce a tratti la paura di trovare qualcosa, durante questa faticosa ricerca, dove risulta impossibile non guerreggiare con se stessi, ma si deve guerreggiare non tanto per essere in pace con gli altri, rispettare il prossimo, in una sorta di stucchevole “peace&love”, bensì per trascendere se stessi e disabituarsi al caos, alla morte e alla presa d’atto del proprio Io perennemente lacerato sottolineato in particolare, dall’ultimo verso da pronunciare tutto d’un fiato:

Perché non stendere la pelle al sole? Perché giurarci causa e prometterci al danno?
Oggi costruirò un veliero con il legno delle segherie del corallo
Recuperò una prua dalle stive della gentilezza e dell’incuranza
La negherò ostinatamente all’approdo di un paragrafo d’inchiostro
Dammi la tua parola che non hai letto la mia…

[..] ognuno di voi, vessato dal segno ha scavato idrografie sommerse per scongiurare la sete spaccata della terra su cui muoviamo a stento…

<<Nelle attualità del vento pigiavo l’aria contro le parole. Ho tutto l’incidente, ancora, tra le mani insieme al taglio corto dei tuoi versi disarginati>>, si legge ad un certo punto di una poesia, e si percepisce il desiderio del poeta di trovare un equilibrio tra la natura, il mondo esterno e quello interiore, un’armonia poetica, che magari troveremo nella sua prossima opera.

 

 

 

 

‘La Maledizione dell’Acciaio’: il supereroe-saldatore di Oreste Ciccariello

La Maledizione dell’Acciaio è l’opera prima di Oreste Ciccariello, giovane napoletano, già noto al pubblico per la partecipazione ai programmi TV Made in Sud e Colorado con il trio Malinconici, che con questo romanzo si mette in gioco nelle vesti dello scrittore.

In copertina un supereroe con una maschera da saldatore anticipa il genere del libro. Si tratta infatti di un romanzo, una sorta di grafic novel in stile Marvel. La presenza di un supereroe fa presagire un nemico duro combattere: l’Italsider, il mostro d’acciaio di Bagnoli. L’opera è figlia della collaborazione tra lo scrittore e il duo comico Gigi&Ross. Una storia che nasce “dallo smisurato amore che proviamo per la città di Bagnoli” come hanno affermato gli stessi autori. Il volume è corredato da una toccante prefazione del Magistrato Catello Maresca. L’intento non era quello di pubblicare un libro d’inchiesta, bensì portare alla luce e far conoscere una pagina storica della nostra regione. L’Italsider di Bagnoli è stato un produttore di lavoro fino al 1993, ma anche una macchina seminatrice di devastazione e veleno a causa dei rifiuti tossici. E’proprio questo il “cattivo” che si cercherà di combattere nella storia, non da fuori, bensì dall’interno e con gli stessi poteri.

La Maledizione dell’Acciaio racconta la storia di Massimo Mancini, un bambino che ha il sogno di diventare calciatore. La sua famiglia vive nei pressi del complesso dell’Italsider, il luogo di lavoro del papà di Massimo dove tutti conducono una vita serena e spensierata. Ma ad un certo punto qualcosa cambia, il papà di Massimo muore per l’Asbestosi, la malattia contratta da la maggior parte dei lavoratori dell’Ilva. Questa tragica notizia cambierà la vita di Massimo per sempre: Massimo promette al padre che avrebbe combattuto, decide di appendere le scarpette al chiodo per dedicarsi alla medicina. Riesce ad entrare alla facoltà di medicina, si laurea. Accanto a lui la mamma, il fratello, la nonna e un sacerdote Don Peppe-chiaro omaggio a Don Peppe Diana-la fidanzata Laurea, medico anche lei. Riesce ad entrare nella commissione di bonifica, ma, quando tutto sembrava procedere per il verso giusto, succede qualcosa: un salto dall’ordinario allo straordinario: Massimo si ritrova ad avere dei poteri ed ora è pronto ad affrontare il mostro ad armi pari. Lo scontro è avvincente e sorprendente al tempo stesso.

Il romanzo, che richiama alla mente il film Lo chiamavano Jeeg Robot, è diviso in due parti: nella prima si racconta l’adolescenza di Massimo, nella seconda, si descrive un Massimo adulto e la sua “trasformazione” in supereroe. Oreste Ciccariello dimostra di essere un’abile penna, che sprigiona una forza allucinatoria: quasi per tutto il tempo il lettore entra nelle pagine del libro e sembra essere coprotagonista, partecipando agli eventi come se fosse davvero presente. La storia è davvero avvincente, avventurosa, coinvolgente ma allo stesso tempo straziante. La scrittura è semplice ma efficace, come la scelta di adottare la grafic novel: si tratta infatti di un genere che avvicina un pubblico trasversale. La Maledizione dell’Acciaio è un romanzo originale, un misto di realtà e fantasy che con leggiadria tratta di un argomento tanto delicato.

La mission del libro non è stata tanto quella di confezionare semplicemente la storia di un eroe che combatte contro la malvagità, bensì sottende un messaggio importante: ognuno di noi può essere un supereroe con un’armatura di coraggio e come unico potere, la forza di combattere e il coraggio di restare nonostante le circostanze avverse. Lo stesso coraggio che ha contraddistinto Massimo, quando decide di diventare medico, prendendosi l’impegno di agire, fare qualcosa di concreto, senza girarsi dall’altra parte. Sono questi i supereroi, gli eroi del quotidiano. In questo romanzo si narra nello specifico di Bagnoli, che fa da sfondo alla storia, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altra città del mondo cui c’è un “mostro” da combattere; perché come scrive Oreste Ciccariello “Se ci credi, tutto è possibile”.

 

Il 12 aprile a Roma la presentazione de ‘L’Azienda’, il romanzo utopico di Cristiano Chiesa-Bini

E’ prevista a Roma il prossimo 12 Aprile presso la Biblioteca Marconi di via Marconi la presentazione de “L’Azienda”, romanzo utopico e realistico di Cristiano Chiesa-Bini. L’autore, che ha esordito nel 2015 col saggio “…è una bella DOMANDA!”, catapulta il lettore nel 2055, un tempo non troppo lontano dove, come immaginato da Orwell, la popolazione è tenuta sotto controllo dal sistema: sopra tutti e tutto, il grande cervello organizzativo dell’Azienda, che appiana le differenze individuali per garantire l’assenza di conflitti. La storia della protagonista, Cinzia Proietti classe 2022, s’intreccia con gli eventi storici, politici e con il destino dell’intera umanità. Un libro semplice e mai scontato, dal ritmo incalzante, che estremizza le conseguenze del domani per ragionare sulle scelte dell’oggi e che esce in contemporanea anche in formato Audio Libro. Di seguito un stralcio del romanzo:

Tutto era cominciato una mattina di un giorno imprecisato in un futuro vicino…Cinzia, giovane impiegata del reparto Casting-Italia dell’AZIENDA, avrebbe accolto alcuni aspiranti al ruolo di sindaco di Andria, cittadina pugliese di 100.000 abitanti. Lei si sarebbe occupata dell’estetica, mentre i suoi tre colleghi Paul, Kostas e Zhu avrebbero esaminato le capacità dialettiche, l’attitudine al ruolo e il grado di leadership dei candidati. Nel suo reparto il lavoro consisteva nello scegliere la persona giusta per interpretare un ruolo pubblico in base a canoni precisi delineati da manuali, norme e regolamenti elaborati da un altro settore dell’AZIENDA e aggiornati in base a un preciso piano di sviluppo. Quindi, di lì a poco, si sarebbe cercato chi potesse far percepire ai cittadini di Andria affidabilità, intraprendenza, coinvolgimento e sicurezza. Un giovane preparato, deciso e dalla faccia pulita.

L’azienda è un racconto pragmatico, così reale da sembrare la descrizione di un domani molto più che plausibile. Parla della libertà interiore, della consapevolezza, della responsabilità individuale e del potere catartico dell’amore. Gli avvenimenti scandiscono le vite dei personaggi e viceversa, in un susseguirsi che aiuta il lettore a comprendere che effetti possano avere le decisioni prese dagli stakeholder attuali (attori sociali, politici ed economici). Il romanzo di Chiesa-Bini è impregnato di riferimenti culturali e filosofici che fungono da stella polare per Cinzia, confusa dai dettami dell’azienda e dalle sue intuizioni in conflitto con questi, cerca una nuova soluzione a dubbi e incertezze.
Prevale su tutti il Nuovo Umanesimo Universalista, dottrina che attraverso lo strumento della non violenza e non discriminazione, promuove lo sviluppo umano in senso sociale e personale. Si tratta di assunti che spingeranno i protagonisti a riflettere sulle derive di un controllo assoluto, una “manipolazione illuminata” manipolando i bisogni di tutti nega l’individualità e, di conseguenza, l’umanità.

Trama del romanzo

Roma, 2055. Cinzia lavora nel reparto selezioni pubbliche dell’Azienda: un ente supremo che guida i desideri dell’umanità con lo scopo di parificare i bisogni umani per un nuovo ordine mondiale privo di conflitti. Ma i nuovi dettami sociali, questo livellamento imposto dall’alto, riusciranno a generare una società appagata e libera? La narrazione è costruita attorno a Cinzia e Giulia, due amiche legate fin dalla nascita da una profonda amicizia, parti di una società ipertecnologica che non hanno potuto scegliere. Le loro riflessioni e le loro scelte cambieranno il corso della loro esistenza, il punto di vista del lettore e il futuro di tutta l’umanità.

L’autore

Cristiano Chiesa-Bini, nato a Roma il 20 settembre del 1962, si definisce un autore umanista. Dal 1986, politica e attivismo non violento sono stati il suo pane quotidiano. La sua sensibilità nella comunicazione gli ha concesso di destreggiarsi bene tra mass media e social network, unita alle sue doti organizzative che, negli anni, hanno trovato spazio nei campi della cultura, spettacolo, sport e svago. Grazie a questi interessi ha conosciuto Roma, l’Italia, ma anche numerose parti del mondo. Negli ultimi anni ha promosso due edizioni della corsa “RUN THIS WAY! La Nonviolenza corre tra noi” e cinque edizioni del Premio Nazionale della Nonviolenza dedicato alla formazione dei giovani. Ha ottenuto vari incontri istituzionali al passaggio da Roma della Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza del 2009, mentre nel 2011 ha fatto installare da Provincia e Comune di Roma una stele nel quartiere della Garbatella dedicata alla Giornata Internazionale della Nonviolenza del 2 ottobre. Dopo il saggio “…è una bella DOMANDA!”, in cui analizza il peso degli interrogativi che ognuno si pone nella vita, si propone al pubblico con L’Azienda un romanzo utopico e distopico dedicato all’essere umano.

‘Caterina’, il thriller psicologico di Vincenzo Zonno che capovolge ruoli dati per scontati

Cat è un’adolescente che, dopo aver perso prematuramente la madre, vive e lavora nel piccolo circo itinerante gestito dal patrigno. Sogna di diventare una funambola, ma la realtà è dura e avara di soddisfazioni. L’uomo che dirige la compagnia e che dovrebbe farle da padre è severo e autoritario, così come il resto degli artisti che provano invidia o indifferenza. Quando il circo si stabilisce in una foresta isolata dal più vicino centro urbano iniziano ad accadere eventi misteriosi. La natura che li circonda sembra nascondere segreti al limite dell’illusione, in un continuo vortice onirico, sempre a metà tra il sogno spettrale e la realtà, tra l’allucinazione e la macabra certezza di essere osservati. Qualcosa di oscuro si muove tra le ombre del tempo. Questa è la sinossi dell’ultimo romanzo di Vincenzo Zonno, scrittore pugliese che vive da tempo a Bologna, Caterina (Watson edizioni), un thriller onirico, un viaggio nella mente e nelle paure che ci attanagliano e che ci fanno smarrire il senso della realtà, e perdere nell’illusione.

Caterina, titolo che fa riferimento al nome della diciasettenne protagonista del romanzo di Zonno, è un libro che punta molto sulle descrizioni degli stati d’animo dei personaggi, soprattutto su quello della giovanissima protagonista, osteggiata dal mondo, amante delle marionette del Bulgaro, persa nelle sue fantasticherie e nei suoi desideri.

Il romanzo è incentrato sulle azioni dei personaggi, e sui pensieri che visitano la protagonista: tutto pare avvenire nella sua mente che trasforma la realtà circostante, che può essere sogno o incubo. Certamente in Caterina location, stati fisici e psichici e trama interagiscono efficacemente, sebbene siano presenti ridondanze, didascalie, frasi già lette e ripetizioni a scapito di una narrazione più asciutta che avrebbe giovato di più alla storia.

Se la foresta è lo scenario privilegiato per sentire paure e avvertire misteri, il circo, luogo dell’onirico per eccellenza, affascinante quanto opaco, qui diventa palcoscenico dove si consumano odi, sfide, competizioni, rancori, ed invidie, dove i personaggi mostrano come le loro vite  appartengano ai cilindri ed ai trapezi, come essi non camminino su linee rette e terreni solidi. E’ tutto qui il senso del romanzo “distorsivo” di Zonno: deformare, cambiare significato ai simboli del circo dove Caterina si accorge dopo un po’ di tempo di essere al contempo
protagonista e spettatrice dello spettacolo in corso.

L’impasto di dramma e thriller arricchito da incursioni della tecnica del flusso di coscienza che contribuiscono alla resa emotiva del romanzo che non scivola mai nel sensazionalismo, puntando a spaventare il lettore con bagni di sangue e sequenze gratuitamente truculente, bensì l’autore mira a coinvolgere il lettore, facendogli provare la più atavica delle paure: quella per l’ignoto.

Caterina è una storia che affascina e che si riempie soprattutto nelle ultime sessanta pagina di maggior suspence, irrorata da una buone dose di sentimento e commozione, che ha per protagonista una ragazza con la quale si entra subito in empatia, la cui purezza d’animo ci ricorda per certi versi il bambino di Shining, e la sua “luccicanza”, che le consente di vedere ciò che gli altri non vedono e di carpire i segreti di una natura misteriosa che ai più sfuggono.

Caterina è un viaggio allucinogeno dove i confini tra sogno e realtà sono labili e che ribalta gli esiti di vicende già scritte da adulti come recita una frase del libro: “Quando è il buio a comandare
chiunque può essere il mostro chiunque la vittima”. Nella protagonista, un cigno nero che simboleggia l’eccezionalità della natura, in cui ognuno di noi può rispecchiarsi, è la funambola sul filo della vita aggrappata ai suoi sogni. Zonno ci dice che quando si ribaltano i giochi, quando l’innocenza si ribella, e si vira nel relativismo, la vendetta può essere spietatamente considerata giustizia da chi, secondo chi la esercita, la pratica “giustamente”, in assenza però di raziocinio, si scivola nel terrore, perché anche chi non è più vittima può portare sulle spalle il fardello dell’essere diventato carnefice. Caterina è un romanzo molto originale che trascina appieno il lettore, per il quale sarebbe stato opportuno uno stile più asciutto, ma senza dubbio è tra le opere più interessanti e non banali nel panorama letterario italiano attuale, dove scrittori emergenti di qualità fanno fatica ad affermarsi.

L’interrogativo che emerge dalle pagine del romanzo di Zonno è lynchiano: in fondo non è la vita stessa a sembrarci un horror? Un enigma? Tuttavia nel finale Caterina non si fa troppe domande e si incammina per vivere una nuova avventura ignota che ha le sembianze di un’isola.

L’autore

Vincenzo Zonno nasce a Brindisi ma vive a Bologna dal 1990. La sua prima formazione artistica inizia nella musica e successivamente nella danza. Come scrittore inizia a pubblicare alcune raccolte di racconti, prima di esordire con due romanzi storici e successivamente con un thriller psicologico. Il primo, “Non è un vento amico”, edito da Vocifuoriscena, ottiene molte recensioni positive e un piazzamento nei primi cinque classificati del premio Perseide di Roma. Il secondo, “Sherlock Holmes e la grande madre”, pur essendo uno storico è pubblicato come apocrifo Sherlockiano.

 

A nord. Devo andare a nord dove il mare non ha fine e la terra brucia in mezzo al gelo. Dove l’acqua rovente sgorga direttamente dalla
roccia e si dissolve prima di raggiungere il cielo. Dove il sole non scalda se non il cuore e i venti ti bastonano impietosi, rammentandoti a ogni istante che sei un uomo: un essere debole e indifeso. (Da Caterina)

‘La tentazione di essere felici’: la senilità secondo il napoletano Lorenzo Marone

La tentazione di essere felici è la terza prova narrativa del napoletano Lorenzo Marone, edito da Longanesi (che per un esordiente è un particolare non da poco) nel 2015. Il romanzo è stato pubblicato in nove paesi stranieri, nonché scelto da Gianni Amelio per la sceneggiatura del suo film. I segreti che il protagonista Cesare scoprirà sulla sua vicina di casa, ma soprattutto su se stesso, sono la scintillante materia di questo formidabile romanzo, capace di disegnare un personaggio in cui convivono, con felice paradosso, il più feroce cinismo e la più profonda umanità.

Chi si lamenta della vecchiaia è un demente. Anzi no, cieco mi sembra più azzeccato. Uno che non vede a un palmo dal proprio naso. Perché l’alternativa è una sola e non mi sembra auspicabile. Perciò già essere arrivato fin qui è un gran colpo di fortuna. Ma la cosa più interessante è, come dicevo, che puoi permetterti di fare ciò che vuoi. A noi anziani tutto è permesso e persino un vecchietto che ruba in un supermercato è visto con candore e compassione. Se a rubare, invece, è un ragazzo, gli danno, nel migliore dei casi, del «furfante». Insomma, a un certo punto della vita si apre un mondo fino ad allora inaccessibile, un luogo magico popolato da gente gentile, premurosa e affabile. Eppure la cosa più preziosa che si conquista grazie alla vecchiaia è il rispetto. L’integrità morale, la solidarietà, la cultura e il talento sono nulla di fronte alla pelle incartapecorita, le macchie sulla testa e le mani tremolanti. A ogni modo oggi sono un uomo rispettato e, si badi, non è poca cosa. Il rispetto è un’arma che permette all’uomo di raggiungere una meta per molti inarrivabile, fare della propria vita ciò che si vuole.
Mi chiamo Cesare Annunziata, ho settantasette anni, e per settantadue anni e centoundici giorni ho gettato nel cesso la mia vita. Poi ho capito che era giunto il momento di usare la considerazione guadagnata sul campo per iniziare a godermela sul serio.

Cesare Annunziata, un anziano di settantasette anni cinico, schietto, perspicace, ben consapevole degli errori commessi nella sua vita, un po’ menefreghista ma molto rispettoso delle scelte altrui, che è solito non giudicare.
Cesare, ormai vedovo da cinque anni, vive da solo in un condominio di un quartiere di Napoli dove tutti si conoscono. Nonostante l’età, ha ancora molta energia e non vuole quindi poltrire nella sua casa come invece fa Marino, suo amico dai tempi in cui i due lavoravano insieme: anche lui vedovo, si è invece lasciato andare alla malinconia e la sua massima attività è affacciarsi sul pianerottolo e scambiare quattro chiacchiere con Cesare ed Eleonora, la pettegola del condominio e soprannominata La Gattara.

È anche forse con l’intenzione di non impigrirsi e non solo perché è sempre stato un donnaiolo, che Cesare intrattiene rapporti con Rossana, una donna sotto i sessant’anni molto schietta, di professione infermiera ma che per arrotondare fa anche la prostituta. Nella vita del protagonista ci sono anche i due figli Sveva, primogenita più simile per carattere al padre, nel bene e nel male, e Dante, che con i modi dolci e la sensibilità ricorda invece di più la madre.
Con entrambi l’uomo non ha un rapporto sereno ed è consapevole che buona parte della colpa sia sua perché non è mai stato troppo presente durante la loro crescita: sposato all’idea del vivi e lascia vivere, si è sempre preoccupato più a pensare ai propri interessi che a seguirli nella crescita. Così ora da un lato c’è Sveva, rigida e scontrosa e che per vendetta gli rivelerà un doloroso segreto di famiglia, e dall’altro c’è Dante, ragazzo omosessuale che è riuscito a dichiarare la sua inclinazione alla madre e alla sorella, ma non al padre.
In questo scenario si aggiunge una nuova conoscenza, Emma, una ragazza trentenne che si è trasferita da poco nel condominio insieme al marito violento.

Contrariamente alla sua indole menefreghista, Cesare non potrà fare a meno d’interessarsi alla ragazza e, anzi, cercherà di fare tutto il possibile per aiutarla, perché ha capito essere coinvolta in un caso di violenza domestica.
Questa nuova situazione gli darà inoltre la scossa per intervenire anche nella vita dei figli. I due dapprima non accetteranno questo suo improvviso cambiamento, Sveva soprattutto, ma poi resteranno positivamente impressionati da quanto invece Cesare abbia ancora da dare…
In un crescendo di eventi che coinvolgono sia la sfera familiare del protagonista che tutte le sue conoscenze all’interno del condominio in cui vive, Lorenzo Marone ci porta con maestria ad affrontare con delicatezza e freschezza diversi temi attuali, come la violenza domestica, l’omosessualità, il rapporto con i figli.

Una lettura trascinante e divertente per la verità dei personaggi. Un libro che racconta la senilità, ma, come ha notato Bruno Quaranta per La Stampa, c’è senilità e senilità. Chi, come lo sveviano Emilio Brentani, «traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il gradimento, la felicità». E chi, come Cesare Annunziata, settantenne si spalanca alla Tentazione di essere felici, a «un mondo fino ad allora inaccessibile».
Ecco la confessione di un anziano che non vuole «assomigliare a un anziano». È in primis un gineceo, l’humus di Cesare Annunziata. Fra rose non colte (grazie irraggiungibili, che nelle estreme ore resuscitano, si riaffacciano), una moglie che gli ha lasciato in eredità la spina di un tradimento, la malafemmina-amante, la gattara («…una di quelle vecchine che incontri per strada col loro bel piattino di carta, rintanate tra le auto in sosta….»), una «ministangona dai capelli patinati», vicina di pianerottolo, maltrattata dal compagno, eppure depositaria, per il suo prossimo, sempre, di un salvifico «pizzico di gioia». Di figura in figura, di rendez-vous in rendez-vous afferrando la verità: «La vita credo sia donna: quando deve evidenziare un tuo errore, non usa troppi giri di parole».
È un racconto benedettamente tradizionale, La tentazione di essere felici. Una sentimentale promenade verso l’ultimo giorno, ma impermeabile infine all’incenso, sensibile invece, di tanto in tanto, all’autorale compiacimento proprio di chi ha identificato il pezzo di legno ad hoc da modellare.
Di fronte alla parabola di Cesare Annunziata come non riandare al salotto di Sommerset Maugham, dove, del romanzo, «non se ne parlava dal pedantesco punto di vista letterario. Quei sottili conoscitori del cuore umano, quegli uomini esperti, qual più qual meno, della vita e delle passioni, non vedevano nel romanzo che un problema umano. Nulla più, non è forse tutto?».

 

 

http://www.orlandofurioso.com/libreria/scrittori-famosi/5647/la-tentazione-di-essere-felice-di-lorenzo-marone/

‘Tre di uno’, la raccolta poetica di ricerca e ragionamento di Beatrice Cristalli

E’ una raccolta poetica dagli echi luziani e ungarettiani quella della giovane autrice piacentina Beatrice Cristalli, classe 1992, laureata in materia umanistiche, per la quale la parola è fatto, realtà ed ha un peso. Le poesie di Beatrice Cristalli ci consegnano un’autrice che trova prima ancora di cercare, riflettendo sul significato della parola nella nostra magmatica contemporaneità. Come nota giustamente Giovanna Rosadini nella prefazione dellopera, da un lato si ha, quindi, la scissione postmoderna fra la parola-realtà e un soggetto sempre più disancorato da evenienze oggettuali (ovvero i contesti che tradizionalmente lo definivano: modelli, relazioni, ruoli ecc., ormai “liquefatti”, per dirla con le parole del grande sociologo Zygmunt Bauman, e in continua trasformazione); dall’altro quel «voler essere / a tutti i costi» a cui «non c’è tuttavia rimedio», anche se «non è poi / così male essere e basta – le parole non frugano più». Se l’esistenza è sotto il segno della precarietà, infinite sono le possibili declinazioni, e rifrazioni, del soggetto: «Guarda che sei libero, verrà un ladro / E vorrà rubarti perché non potrà mai capire>>. O anche: «Non potevo essere altro se non / Questo / Il giusto riconoscersi del dito che / Punta lo specchio». Anche se, forse, questa condizione esistenziale, che l’autrice referta con una lingua sobria, asciutta e priva di orpelli retorici, ha origini remote: «Tutto sta in un’antica ferita / Che parla di una storia mai esistita / come di te che sei solo un uomo / Anche se le iniziali sono di Dio»: una ormai impossibile metafisica, in quella che non a caso Lipovetsky ha battezzato “ère du vide”, dove la ricerca della verità è sempre in bilico sul suo rovescio, il concetto di vuoto. «Sulla linea 90 / Ci sono solo due fatti / e il compimento non ci sarà»; «Ma io me ne vado / A cercare / o morirò negli assiomi»; «Non è vero niente».

Beatrice Cristalli  la cui tesi di laurea L’invenzione della colpa. L’antropologia negativa leopardiana tra Zibaldone e Operette morali,  ha vinto il secondo premio al Concorso per il Premio Giacomo Leopardi riservato alle tesi di laurea specialistica e dottorato 2017 del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, si pone delle domande cercando di dare delle risposte, ricercando l’altro, mostrandosi universale, perché le tematiche della giovane autrice riguardano tutti noi. Tutto questo senza abdicare al ruolo che deve avere un poeta, ovvero quello di emozionare, sia in positivo che in negativo, scavando nella realtà, nella mente e nell’anima umane, restituendola a noi, trasfigurata. Il registro linguistico-riflessivo contribuisce a mantenere in equilibrio a mediare la modalità vivere il mondo da parte della Cristalli, e ne testimonia la rara maturità espressiva e poetica, nonché la compattezza ed organicità della struttura e dei contenuti.

Prendiamo la lirica intitolata Moto retrogrado che pare racchiudere tutto il senso della poetica della Cristalli:

Te l’avevano detto
Di ritrovare il transito
Dal quale si salpa:
Il posto senza nominativo
E il tuo battito in un altro viaggio
Una volta sola basterà.
Amare una cometa, tra i rotoli di numeri:
Ma come si fa, a capire così
Bene e male
Le dita di Cesare Augusto
Che organizza il cuore per tutti.
Non per me?
Tu di qua, io di là,
Io come un titano esiliato
Con un sacchetto della spesa
Tra le dita che ricercano l’ironia,
Il solito scomodo volto del vuoto.
Ma proverò la verità come efficacia
– Basterà
A sorridere in un vivo mutismo
Non sarai mai il tempo di una cometa:
Vedo sempre poco pudore
Nelle partenze di chi non conosco
Perché nessuno, in effetti, ha richiamato il tempo
Le giustificazioni
E non è sintomo di maturità

Non è non è, ma vivi nelle parole
Quelle che ora aderiscono al solo suono.
Che quello che vedo negli occhi degli altri
Sia il vero
Io credo non possa – non deve –
Ripercorrere i corridoi di un romanzo.
Si incastra piano tra i ritorni di una poesia
E poi uno scatto all’aperto
Il sole dell’ateneo tra i rumori dei passi
Come tra le voci e le mie nuove rotte
Lasciano una scia, non una risposta
La stessa prima di ogni perché:
A nuovo e luce annodati
Pochi versi, senza verbo
Accolgo come la sabbia fresca
Delle ore contate.
Non preoccuparti se i segni non
Spariscono, sprezzanti
Non dicono
Intanto è già cambiato un codice
Lui che ha solo una funzione
Qualche senso sotto le carte:
Sapessi giocare, io.
Ci sono diagnosi che rimangono nell’aria
Parte nelle fibre una consumazione diversa
Come un raggio nello spazio;
Salgo allora su quella deriva
La cometa che arriva al contrario:
Quel momento che era già negli altri

Ma arriva sempre dopo e mai tardi.
Basterà

L’autrice qui abbastanza ermetica, come se conciliasse passato e presente, antichità e contemporaneità, parlando ad un interlocutore immaginario, rassicurandolo sull’arrivo certo della cometa che farà luce sul confine tra bene e male. Senza lasciarsi sedurre da scorciatoie stilistiche la Cristalli ragiona scrivendo versi, agognando “il fuori”, perché solo smarrendosi, perdendosi, si può ritrovare se stessi, giungendo all’uno (o allo zero?). Una poesia fatta di immagini, simboli ricorrenti presenti nella mente umana che trovano forma nella realtà attraverso la parola, la poesia.

La contemporaneità, noi immersi in essa, la velocità, la frenesia dei nostri gesti e delle nostre azioni ci rende difficile recuperare qualsiasi assenza, inghiottiti come sia nel rituale moderno di tenere in mano il telecomando, facendoci anestetizzare dalla TV come si evince della poesia Una vita di cambi:

Recupero ogni assenza
E vorrei metterci dei punti
Gonfi come quella circostanza
La ripeto con un telecomando:
La verità è che pagherei caro
Per avere un dolore giusto
Culto per una mente diversa da me
Alla destra delle forme
Mi metto in fila come i Re Magi
Per aspettare una profezia rappresa
Ma torno sempre indietro alle quattro
Quando ho sentito una cicala
E la sua vocale sola:
Mi diceva che potevo vederti
Sotto quelle maglie spesse
Una voce verso qualche paradiso:
Noi non ci siamo detti niente.
Coi capelli piegati
Non mi sento tanto distante
Da voi
Che vi preoccupate del destino.
Pretendo di nuovo quelle pagine
Così come una preghiera sul tuo dorso:
Non so perché l’ho fatto,
E quanto ci ho messo
Tutto era veloce come le ciglia

La poesia cervellotica ed emozionale di Beatrice Cristalli conduce l’autrice, in questo articolato viaggio della mente, a spremere ogni singola parola per cavarne un senso nel mare di confusione e mediocrità che ci soffoca, dove non riusciamo più a comunicare, a trovare le giuste parole per esprimere la nostra interiorità. I versi liberi della Cristalli sfiorano, accarezzano la forma delle cose, afferrando (lievemente) per un momento ciò che. come afferma Silverio Novelli nella postfazione, è destinato a sottrarsi ora e sempre per riproporsi sempre, ogni volta, ad una nuova comunione transitoria di alterità («con il piacere di una sola carezza», Uno di uno). Alla base di queste poesie vi è certamente la consapevolezza da parte dell’autrice dell’esistenza della forza di resistenza della vita, quella tensione che provoca turbamento e dolore nell’anima e della mente. Ma se questo mondo è portatore di dolore, bisogna dialettizzarlo, tentare di trasformare il dolore in dolore giusto. In che modo? Considerandolo un dolore, un male necessario, pieno di significato. Ed ecco il cuore della raccolta Tre di uno: indicare la strada giusta per comprendere il senso di un dolore, ovvero liberare la semantica dall’evanescenza, riempire e nobilitare le parole ridotte a simulacri.

Tre di uno è un libro asciutto dalla forte connotazione filosofica che si rifà alla dolorosa esperienza di vivere di matrice leopardiana, ma non esente da un pathos espressivo (evidente soprattutto nella parole isolate che fanno verso da sole e che risuonano con veemenza) che non può non colpire il lettore e renderlo partecipe di questo viaggio conoscitivo.

Stefano Lanuzza: ‘Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo’, o il bosco dell’Essere nella dialettica dell’Esistere

L’ombelico dell’esplorazione dello scrittore siciliano Stefano Lanuzza  nella sua opera Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo (Stampa Alternativa, 2016) è nella metafora del Bosco, né idilliaca né accattivante, ma tragica: in quanto si presenta sic et simpliciter come Bosco dell’Essere, chiuso/aperto nella dialettica serrata dell’Esistere. Si parla tanto di cosa la poesia possa essere e nessuno dice che essa è, infine, edonistico piacere della parola.

Non è facile intervenire su un libro del quale si condivide tutto, e del quale – per buon peso – non si può che ammirare la pregnanza della lingua che esalta l’energia di un pensiero fondato su una griglia di consapevolezza rigida e allo stesso tempo mobilissima. Il libro in questione inalbera un titolo non esplicativo né metaforico, ma piuttosto avaro di promesse non arcane e non enigmatiche; cosicché il lettore è obbligato a penetrarne per quanto può il senso e le declinazioni oblique o esplicite, quando non fulminanti.

Scrittore inesausto, il siciliano Lanuzza da decenni fattosi cittadino di Firenze (e dell’ormai invisibile Firenze dantesca, si direbbe), continua a organizzare pensieri mai assopiti e mai arresi alla volgarità di questo nostro iniquo presente – e a far pratica filosofica di ciò che chiamiamo linguaggio letterario, nel mentre che realizza con la stessa acuminata finezza e la stessa radicale intransigenza stilistica le sue figurazioni erotico-demoniache: un pitto-scrittore, insomma, cui si devono un’infinità di indagini critico-teoriche sul nostro Novecento lontanissime dalla pigra vulgata dei manuali, una messe di traduzioni di grandi autori francesi da Sade a Nerval, da Huysmans a Gide, da Barbey d’Aurevilly a Musset a Lautrèamont a Céline, e prose creative, e almeno una raccolta di poesie decisamente devianti rispetto al riflusso lirico che segnò tristemente di sé gli anni Ottanta e oltre.
Con questa sua impresa recente, Lanuzza lavora fino all’osso il crinale di ciò che lo caratterizza da gran tempo, e che potremmo definire la sua personalissima Critica del Giudizio (estesa stavolta dalle arti alla vita, alla società, alla politica, all’amore): con la stessa radicale lucidità di sempre, la stessa disposizione a mettere in gioco le proprie responsabilità, senza ambagi né infingimenti. La scelta aforistica e l’adozione di una ratio filosofica concentrata in un breve giro riflessivo lo apparenta a certi pensatori esemplari della modernità più antiaccademica: quella che parte da Nietzsche e si deposita più prossima a noi in Adorno, in Benjamin, in Gramsci.
Quindi, “Nel bosco non per celebrare qualche mito del ‘viaggio’, ma solo per ‘dire’ la semplice voglia di ‘andare’”. Andare non per toccare questa o quella meta, ma per saggiare negli spostamenti la possibile saldezza del proprio fragilissimo io. “Vai finalmente nel bosco, se vuoi essere libero. Coraggio, e vai!… Coraggio, da cuore… Ma il coraggio non salva dall’altrui paura”. E ancora: “Vai senza fretta: il bosco è lì e aspetta”. Perché poi, alla fine, “Non riparti da zero, ma da un non ingannevole bosco-labirinto dove sei tu Teseo e tu il Minotauro. La lentezza con cui procedi è il rovescio del desiderio d’affrettare lo scontro con l’Altro, il Minotauro del dolore… Scontro di due specchi che si guardano adunchi, di due Chimere esiliate”. L’imperativo è: “Addentrarsi nel bosco, allontanarsi, sparire, dileguarsi, stare ‘altrove’. Solo per (perdutamente) ‘essere’”.

Questo di Lanuzza non è nichilismo da dandies, solipsismo da aristocratici fuori fase: è, alla fine, semplicemente serietà, rigore nel proprio fare: rispetto dei dati concreti. Per cui, applicata al continente Poesia, questa strategia non può che muoversi – magari secondo la lezione etica e creativa di Leopardi – nel solco di un processo senza ambiguità e senza orpelli: “Una vanificazione dell’ideologia d’una poesia spettacolarizzata si ha, insomma, col constatare come sia impossibile apprezzare una qualunque forma d’arte se non ci si mette in condizioni di solitudine e silenzio: lontani, insomma, come ora nel bosco, da tutto ciò che vuol avere a che fare col sistema dello spettacolo”. Il celebre pamphlet debordiano del 1967 non è passato invano.
Quella che si può fare seriamente nel bosco non è poesia boschereccia. Quindi:

“Se vuoi sapere cosa sono i serragli della poesia, guarda pure le antologie; ma se cerchi i poeti dimentica certi cataloghi e schemi bizantini, i senhals surrettizi, le caselle esegetiche, il sottobosco infestante; e cerca nel bosco. Loro, quelli che non hanno ‘intenzione’ di essere o non essere poeti, che non vogliono ‘appartenere’ a nessuna storiografia, stanno in margini negletti, come ricordi sommersi che stentano ad affiorare, ombre sbiettanti e talora impudiche, uccelli migratori senza quiete né ricetto, esiliati principi straccioni… Non sono troppo belli da vedere: non vestono panni da showman, curiale accademico, incompreso genio, gran sacerdote, e nemmeno da bohèmien. Alcuni di loro, debitamente defunti, adesso, inopinatamente, riposano tra loculi antologici come i suicidi subito dimenticati. Fatti non per il tempo e la vita, concimano invisibili, con le loro fragili ossa, un bosco sempreverde”.

Uscendo dal suo bosco, la lingua-pensiero dello scrittore non perde nulla della sua ricchezza; e scopre che “La libertà… non è tanto un diritto ‘naturale’ quanto un ‘dovere’ soggettivo”: così, all’uopo, vengono utili, anzi indispensabili, certi autori molto suoi che sono anche straordinari “mitografi moderni dell’infanzia” (Lautréamont, Benjamin, Savinio, Sarraute, Salinger). Ribadendo, al contempo, che ogni consolazione contro il dolore del mondo è illusoria, dal momento che “Non sappiamo niente. Di nessuno”; di conseguenza “Non solo non è necessario capire gli altri, ma non è nemmeno giusto”. E quanto al braccio teso della poesia? “Non me ne faccio niente d’una poesia che fa solo domande invece di dare risposte”, perché “Il plesso della poesia: si tratta di centrarlo con la silente scrittura. Pensare la poesia come esperienza alternativa alla realtà. Esperienza in nessun caso consolatoria rispetto ai corsi storici e alla stessa vita. Si parla tanto di cosa la poesia possa essere e nessuno dice che essa è, infine, edonistico piacere della parola”.

Il gioco drammatico di Lanuzza si fonda sulla contraddizione e il paradosso. “Vorresti l’uguaglianza fra gli uomini, la fine della povertà, la nonviolenza, la giustizia… Mica sarai comunista?” Quella che si chiama Italia e a Leopardi sembrava un paese privo di “società stretta”, cioè di borghesia responsabile, è oggi una dissocietà basata unicamente sull’interesse di un singolo o di un gruppo. Con parole diverse Maestro Stefano, sìculo giustamente ammiratore di Gorgia da Lentini, esprime lo stesso concetto, con amarezza senza speranza: “Famiglie. Chiuse in se stesse, dèdite a occuparsi solo di sé, c on soggetti che si telefonano continuamente più e più volte al giorno ed anche a pochi metri di distanza, parlando di banalità. Quanto esercitano e si scambiano in permanenza è il ‘controllo’, ansioso, costante, assoluto: si controllano affinché nessuno possa sottrarsi al conformismo solidaristico che le distingue e le rende ignobili. Mai, soprattutto, un briciolo di libertà nella loro esistenza quotidiana che fa della famiglia un luogo di pazzia”.

Ancora sulla poesia, questo lavoro che ai nostri giorni conta meno di una vacanza stracciona, e che tuttavia, oscuramente, continua a esercitare su chi cerca di agguantarla o di goderla una febbre di ossessione che non si spegne: “La poesia, quella vera, dovrebbe spaventare il lettore”. Considerazione preceduta da questo rilievo: “Contrariamente alla svalutazione platonica e, da parte dei ‘recitanti versi’, alla definitiva liquidazione dei poeti, lo statuto epistemologico cella poesia – questo mestiere del silenzio e del deserto – resta il più completo, ben più di quello storico: visto che, come afferma Aristotele, “la poesia è cosa di maggior fondamento teorico e più importante della storia; perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari”. Ci si immagini, se si vuole, l’adesione entusiasta di chi scrive, antiplatonico da sempre e da sempre filoaristotelico.
Ha ragione Lanuzza a dire che la Commedia di Dante non è solo un poema di suprema grandezza, ma anche “una grande opera critica dove l’istituzione della critica rivela la propria origine nella poesia”. Non affermava forse Baudelaire, poeta di grande crudeltà anche contro se stesso, che ogni poeta degno del nome contiene in sé un critico?

Nella grande e raffinatissima quantità di citazioni letterarie, filosofiche, artistiche del libro di Lanuzza, c’è una zona riservata agli aneddoti (“Nella disposizione del Sant’Uffizio, emanata il I luglio 1949, la Chiesa cattolica scomunica i cattolici iscritti al Partito comunista e anche quelli soltanto lettori della stampa comunista”), alle constatazioni di costume (“Finita la critica, resta la …pubblicità”), ai motti di spirito di classe elevata (“Platone non credeva nell’amore… platonico”): e, pur nella varietà apparentemente casual, capricciosa e disorganica di questi eterocliti elementi, il discorso ha una valenza unitaria fortissima, una coerenza dialettica di formidabile tenuta. E’ il risultato di un’incessante indagine sul mondo della cosiddetta realtà e sul mondo della cosiddetta irrealtà che Lanuzza conduce da un tempo lungo e troppe volte di colpo accorciato da eventi traumatici, con un’intelligenza, una responsabilità e un’onestà ormai troppo rare in chi ancora in questo paese si occupa di cultura.

 

E tanto basta, sono portato a credere.

 

http://www.archiviomalacoda.cloud/2016/02/26/stefano-lanuzza-il-bosco-il-mondo-il-caos-come-un-romanzo-una-personalissima-critica-del-giudizio-di-mario-lunetta-lombelico-di-questa-esplorazione-e-nella-metafora-del-bosco-ne-idilliaca-ne/

Crocifisso Dentello: ‘La vita sconosciuta’, il suo secondo e dirompente romanzo che, come il primo, non delude le aspettative

Lo scrittore emergente Crocifisso Dentello nato a Desio nel 1978, il quale ha esordito nel 2015 con Finché dura la colpa (Gaffi), romanzo che è diventato un caso editoriale grazie al successo di critica e di pubblico accoglienza della critica e dei lettori, è tornato quest’anno in libreria con un’opera dirompente, originale e potente. Anni di piombo, omosessualità, immigrazione, e senso della perdita le tematiche del suo ultimo romanzo.

Quando un giovane scrittore fa centro col primo romanzo, tanto da appassionare un vasto pubblico e divenire un caso tra gli esordienti, viene naturale chiedersi se riuscirà a bissare il colpo. Se non si appartiene a quella esecrabile schiera di critici che con disturbante sadismo aspettano solo di cogliere in fallo chiunque cerchi di farsi largo nel panorama editoriale, si vive l’attesa con una certa apprensione, facendo dentro di sé il tifo, soprattutto se si pensa sinceramente di avere a che fare con una vera promessa. Certamente Crocifisso Dentello, con il suo La vita sconosciuta, vi farà tirare un sospiro di sollievo. Lo scrittore conferma se stesso come astro nascente della narrativa italiana. Finché dura la colpa, il suo primo romanzo, non era stato solo una meteora, un ingannevole abbaglio.

Dopo l’agognata e sofferta ricerca di un editore per la prima opera, che ha visto la luce editoriale grazie al coraggioso appoggio di Alberto Gaffi, Dentello approda, in accordo con la sua agenzia letteraria la Benedetta Centovalli Literary Agency, a La Nave di Teseo. Questa nuova e curiosa casa editrice, fondata da Elisabetta Sgarbi, e che è già riuscita a mandare un testo in finale allo Strega (Elena Stancanelli, La femmina nuda), si conferma oculata e lungimirante andando ad annoverare nel suo cotè un talento quale Dentello. Non solo devono avervi scorto il valore e la vendibilità del prodotto, ma è ragionevole ritenere abbiano inoltre compreso le potenzialità insite nella penna di questo giovane scrittore.

Questa la sinossi del romanzo:

Milano, primi anni Duemila. Ernesto, cinquantenne disoccupato, reduce da un incontro sessuale con un gigolò arabo, rincasa nel cuore della notte e scopre la moglie Agata riversa senza vita sul divano. Il tragico evento è preceduto alcune ore prima dall’ennesima disputa coniugale perché Agata – costretta a lavorare come domestica per salvare il bilancio familiare – rimprovera al marito una colpevole rassegnazione.
Il lutto improvviso esaspera i sensi di colpa di Ernesto. Da anni conduce una doppia vita costellata da menzogne e tradimenti. Agata, siciliana dal carattere ribelle, ignora che il marito la tradisce con prostituti nel degrado di parchi pubblici e toilette di stazioni ferroviarie. Così com’è all’oscuro del terribile segreto che Ernesto custodisce, risalente al loro comune passato di rivoluzionari negli anni Settanta.
Scandito da capitoli che si accumulano come istantanee capaci di illuminare il nostro passato prossimo grazie a un particolare, un dettaglio, un’emozione, il romanzo attraversa la memoria intima e pubblica di un uomo che si mette a nudo in una confessione senza sconti. Crocifisso Dentello, alla sua seconda prova, racconta due vite perdute, un marito e una moglie offesi dalla Storia e dai sentimenti negati.

La prima cosa che bisogna riconoscere a Dentello è che ha capito la regola numero uno dello scrivere: l’incipit deve essere fulminante. E quello di La vita sconosciuta, allo stesso modo di quello del suo primo lavoro, lo è. Fulminante e sconvolgente:

Mentre Agata rincorreva il suo ultimo respiro, sciogliendo il suo finale di vita in un sonno senza più risveglio, io me ne stavo genuflesso sull’erba umida del Parco Nord, profanato dal cazzo di un tunisino e accogliendo nella mia bocca, come in una torbida eucaristia, il suo seme di musulmano infedele.
Formidabile l’idea di catapultare il lettore in medias res avviluppandolo in una mistura di squallore e turbamento, amore mercenario e morte. In questo romanzo si ritroverà per certi versi molto del Dentello con cui si era familiarizzato attraverso il primo lavoro. Lo stile resta inconfondibile, caratterizzato da una prosa ricercata ma piacevolmente scorrevole. Allo stesso modo resta l’ambientazione, l’orizzonte periferico della città che evidentemente lo scrittore sente e conosce intimamente. Nuovo e inaspettato giunge invece l’ambito temporale entro cui la storia risulta dispiegarsi con salti, ritorni, e oscillazioni tra la fine degli anni settanta del secolo scorso e il presente.

Dentello decide di misurarsi niente meno che con la questione del terrorismo e, al contempo, con l’epoca del precariato e della disoccupazione. È interessante questa tensione storica. Si tratta per altro di una tendenza che in parte si era già riscontrata per esempio in un altro giovane scrittore, il Marco Missiroli di Atti osceni in luogo privato. Può sembrare strano che un giovane romanziere che, per semplice questione anagrafica, non ha potuto conoscere quegli anni decida poi di scriverne. La soluzione interpretativa più probabile sembra quella per cui, alla ricerca delle motivazioni profonde dello stato di crisi nella presente contingenza storica, l’autore si muova setacciando il passato nella persuasione che in esso stia la chiave di comprensione del fattuale.

Gli altri due temi, oltre alla questione del terrorismo come risposta degli umiliati e offesi alla loro condizione sociale, sono il senso della perdita e quello dell’omosessualità. Il protagonista, nonché io narrante, Ernesto, è un ex magazziniere (prima ancora operaio in una fabbrica di vernici) recentemente naufragato nel declivio senza uscita della disoccupazione, come tanti altri cinquantenni che, di questi tempi, si ritrovano improvvisamente senza lavoro. Al suo fianco, ma tra costanti tensioni e attriti, la moglie Agata. Anche lei come lui militante in gioventù tra i gruppi rivoluzionari, svolge, oramai giunta alla mezza età, la mansione di colf in case di ricchi signori nella tragedia di una Milano in cui la forbice sociale si va facendo sempre più larga. Essendo la sola a lavorare, in questo disastrato nucleo famigliare, il suo stipendio costituisce l’unica fonte di reddito.

Si potrà facilmente comprendere la difficile condizione in cui versano i due coniugi e la spirale malsana di frustrazioni e recriminazioni che travaglia la loro convivenza. Ad aggravare ulteriormente la situazione, vi è il fatto che l’uomo di casa custodisce un terribile segreto, la sua omosessualità, che lo porta a vivere una doppia vita. Una sorta di moderno Dr Jekill e Mr Hyde che durante il giorno, è un semplice sfaccendato comprensibilmente abulico e privo di stimoli che bighellona tra il divano e la cucina, con qualche saltuaria e inefficace puntatina nei supermercati, alla ricerca di un nuovo impiego come magazziniere. Ma la notte, dopo che la moglie è regolarmente rientrata a casa e l’ha pesantemente redarguito per il suo stato di inoperosità, si manifesta il suo lato sconosciuto. Approfittando dei continui battibecchi e scontri, Ernesto finge di essere alterato più di quanto effettivamente sia. Allora, prende la porta e inizia le sue peregrinazioni notturne a caccia di qualche amore mercenario. Il più delle volte, questa caccia si risolve nel praticare una fellatio a un extracomunitario:

Non avevo grandi disponibilità di denaro, ma questi immigrati, con i loro denti guasti e la loro igiene sommaria, si accontentavano di pochi euro, di un pacchetto di sigarette, di una ricarica telefonica.

Anche la sua vita sessuale è quindi segnata dal degrado e l’abiezione. Spaventoso e di grande tristezza il racconto di questi incontri clandestini, tra parchi avvolti in una cupa atmosfera notturna e bagni delle stazioni dei treni. Il tono diretto della prima persona, quel punto di vista endogeno, accentua ancor di più la misura della desolazione vissuta dal protagonista. Dentello è abilissimo nel rendere tutto ciò, restituendoci il senso di una drammaturgia rigidamente codificata che viene ripetutamente messa in scena tra ragazzi di vita e clienti.

Sarà proprio al ritorno da uno di questi incontri consumati con travagliato senso di colpa e voracità che Ernesto troverà Agata morta sul divano. Nessun omicidio. Per fortuna Dentello ci ha risparmiato dalla sciagura di un ennesimo e abusatissimo noir. Un semplice attacco, uno di quei “colpi” improvvisi che possono sottrarre alla vita in men che non si dica. Da quel momento, lo scrittore intraprende ciò che si potrebbe quasi definire una proustiana ricognizione della costruzione ed evoluzione della storia tra Agata ed Ernesto. Ciò è occasione per dimostrare come la vita, con le sue mille pastoie, riesca a corrompere anche un amore tutto sommato puro, tra persone semplici. Il lettore avrà modo di constatare come Dentello sappia essere delicato e toccante nello sviscerare i moti dell’animo sottoposto a una dolorosa perdita. Come affermato in precedenza, emerge il meglio della lezione proustiana dove, come in una trasposizione metropolitana del noto passo della madeleine, Ernesto rievoca partendo da mille particolari l’essere amato scomparso. Similmente che nel noto autore francese, il processo sarà molto doloroso e tormentato, nella fattispecie la sofferenza della perdita verrà inasprita dal senso di colpa. Amarissima, quanto veritiera, la presa d’atto finale che se ne ricava in merito all’amore:

Ognuno ha una percentuale di vita sconosciuta alla propria compagna. Lo spicchio è di varia grandezza ma il mio era ampio e irreversibile come un pozzo senza fondo.

 

Recensione de L’intellettuale dissidente

 

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