Vincenzo Calì: ‘la mia poesia contempla e accetta la realtà’

Secondo Platone la poesia ha un suo statuto di dignità ontologica, e merita di più di essere relegata a una certa, divina pazzia. Nello Ione Platone, mostra come vi sia un’intimità tra l’anima cosmica e il ritmo poetico. Vi è poi il divino la cui veridicità esce dalla bocca di un poeta. A questa concezione dell’ispirazione poetica non sfugge un interessante autore siciliano che nel tempo libero va alla ricerca delle conoscenza dell’amore e lo mette nero su bianco. Il suo nome è Vincenzo Calì, classe 1973, di professione analista chimico. L’autore milazzese prenderà parte il prossimo 21 luglio ad un evento nella splendida cittadina barocca di Caltagirone, Angeli a Calatagèron, dove saranno esposte le opere d’arte del maestro Lorenzo Chinnici accompagnate dai versi di Calì che ne raccontano l’essenza e il sentimento. Ha pubblicato due raccolte poetiche: Vincikalos nel 2011 e Intro del 2013, aggiudicandosi il premio MT Bignelli per la Poesia d’Amore della XXI edizione del concorso “Garçia Lorca” 2010/2011.

Vincenzo Calì è la dimostrazione che la poesia non può essere considerata, come purtroppo ancora molti fanno, una categoria retorica e argomentativa, ma è in grado di mostrare il trascendente, la scintilla divina che è dentro di noi ed è, soprattutto, scevra da ogni forma di finzione. Ma Calì non dice l’impossibile aiutandosi con l’immaginazione superando i limiti della poesia come imitazione del reale, della natura, dice quello che c’è di più intimo in se, partendo dal reale, per giungere, come per Petrarca, alla lirica, creando bellezza non raccontandola, come dimostrano la musicalità, il colore e la sensualità dei versi del poeta siciliano che cerca di dare una forma all’essenza, in primis all’amore. Ricerca unità e armonia Calì, sia il cielo che la terra, il dolore e la gioia, l’amore e la sofferenza, toccando quel soffio aereo che coincide con i versi poetici alla maniera di Rilke. ma senza esserne l’epigono. D’altronde questo significa guardarsi dentro, ascoltarsi, anche giudicarsi e augurarsi qualcosa per se stessi, senza cercare di imitare nessuno. L’autore fa proprie anche le istanze culturali e storiche, rielaborandole non mimandole, mostrandoci, attraverso l’isolamento di alcune parole che si caricano di significato universale, come la poesia sia certamente un pensiero cognitivo che crea linguaggio, ma rimane sempre, anche nella nostra magmatica e confusa contemporaneità il cui mantra è spesso distruggere quello che è venuto prima, proponendo nuove concezioni, in nome della modernità, un respiro che si fa musica, che sia essa allegra, inquietante, triste, angosciante.

 

1. L’ispirazione per scrivere ti viene guardando solo a te stesso, alle tue esperienze, al tuo modo di guardare le cose, o osservando anche la vita degli altri?

L’ispirazione per la mia poesia parte principalmente dal bisogno di mettere sulla carta i disagi della vita, gli amori tormentati, la quotidianità, ma anche il mondo che mi circonda, le sofferenze altrui e le esperienze di chi mi sta accanto, le somatizzo quando mi scuotono e mi inducono a scrivere e nel momento in cui lo faccio, quando trasferisco sulla carta la poesia, tutto si placa, si acquieta dentro come se mi fossi confidato con un amico caro, un cerchio che si chiude, per cui sono sensibile ad ogni evento. Ricordo molti anni fa di aver scritto una bellissima poesia, in occasione di una visita fatta a mio padre in ospedale vidi il suo vicino di letto che era afflitto da una malattia grave che lo rendeva quasi deforme ed in fin di vita, ho sentito un dolore così forte dentro il mio stomaco che quasi mi ero dimenticato il motivo per il quale mi trovavo lì e in poco tempo sono dovuto andare via per la sofferenza ed il bisogno impellente di scrivere, chiuso dentro l’automobile nel parcheggio dell’ospedale e nacque così la poesia  “LUI” :

Maligna vita, beffarda ignara,
negò il nascente a sua sembianza.
Ti tengo a me,
nel pugno ho stretto, quel soffio d’aria,
dò lotta estrema, che vince i vinti.
La mano è inerme, già molle lascio, ti dono l’io.
Mi lasci vita…
Ti vedo andare, inerme e flesso a Dio obbedisco.
Ti lascio vita…

2. Secondo te la poesia deve confortare, rassicurare o è suo dovere anche turbare per smuovere in noi qualcosa?

Io credo che la poesia abbia un solo ruolo, quello di trasmettere a chi la legge le sensazioni e il patos che l’autore stesso esterna lasciando liberi tutti di fare proprio tale sentimento o legarlo ad un evento personale, qualcosa anche in cui riconoscersi.

3. Nelle tue poesie si avverte uno sguardo languido, ma lucido, consapevole riguardo alle contraddizioni e alle complessità. Accetti queste complessità o cerchi attraverso la poesia di semplificarle?

In effetti è vero, uno sguardo languido è il termine usato per eccellenza e sta a definire quel modo di osservare la vita, l’amore e le tentazioni, il proprio io che a volte si castra nel lasciar fluire gli eventi, anche quelli dell’intimità, ma senza il tentativo attraverso la poesia di alterare la realtà o rendere il boccone meno amaro, solo un vivido contemplare ed accettare.

4. Ci sono dolori che hanno perso la memoria e non ricordano perché sono dolori?

Non ci sono dolori per me che hanno perso la memoria, rimangono sempre i marker di certe cose accadute, forse ho perduto il disagio mentale di quando li ho provati, questo è sicuro e quindi a distanza di tempo posso analizzarli in modo diverso ma senza mai dimenticare.

5. Qual è la principale differenza che noti tra la prima raccolta Vincikalos e la seconda Intro?

Vincikalos poiché rappresenta la mia prima silloge poetica, risulta a chi la legge un tentativo personale di far arrivare il mio disagio interiore e mette in condizioni il lettore di osservare ed immedesimarsi, si evince un lavoro più privato quasi fosse creato per un pubblico di nicchia, senza ovviamente tralasciare la bellezza per alcuni componimenti a mio avviso magnetici e discordanti dal tema del libro. A differenza, Intro diventa il mio lavoro di crescita, un’evoluzione del tipo di scrittura che comincia a staccarsi dagli schemi anche se involontari, fino a quel momento seguiti, un osservare di più gli eventi, esaltare i profumi del mondo attorno, un emissione di passione con meno dolore, più gioia e nostalgia al contempo, che si trasforma sulla carta.

6. Il poeta è un fingitore. | Finge così completamente | che arriva a fingere che è dolore | il dolore che davvero sente. Sei d’accordo con questa poesia di Pessoa?

Pessoa è stato un grande poeta e non vorrei contestare la sua lirica seppur bella e ricca di prospettive soggettive, ma mi trovo in disaccordo con questa affermazione. La poesia per me è un magma che fuoriesce incontrollato, non sarei mai in condizioni di potere scrivere se non avessi qualcosa da dire o una forte ispirazione, non potrei mare simulare o indurre a provare un dolore a chi legge le mie poesie se prima non è passato attraverso la mia anima, io lo faccio quando lo sento ovunque mi trovo, è un bisogno impellente.

7. Chi scrive, a volte rischia di sottrarre il meglio della vita per trasferirlo nella scrittura?

No non credo sia così, penso invece che chi scrive può lasciare un segno di ciò che è meglio o peggio della vita e non toglie nulla, anzi la analizza da una prospettiva anche soggettiva e non, verbalizzandola, e questo tutti i giorni non è possibile farlo nella società contemporanea. Io direi che scrivere è un valore aggiunto per chi lo pratica.

8. Come nasce la scelta di scrivere poesie brevi e perlopiù in versi liberi?

Non c’è una spiegazione nel mio modo di scrivere, non ho studiato la metrica poetica, non sono un letterato, sono un autodidatta, il mio credo sia un dono. Il giorno che decisi di farlo, fu spontaneo e naturale e dopo la mia prima pubblicazione Vincikalos, un amico professore di lettere, mi disse che molte delle mie poesie son scritte in esametrico, ma io gli dissi che non è calcolata questa cosa e che lascio gli altri giudicare il mio stile in quanto poco esperto, io mi limito a scrivere poesie.

9. Per te nomi e aggettivi contano più dei verbi, nel senso che da soli possono esprimere un pensiero, un’azione?

No non contano più dei verbi, gli aggettivi e i nomi fanno parte insieme ai verbi del periodo e mi servono tutti per rendere fino in fondo il messaggio che voglio trasmettere.

10. Parlaci un po’ della tua partecipazione all’evento “Angeli a Calatagèron”, che avrà luogo il prossimo 21 luglio a Caltagirone.

All’evento che si terrà il 21 Luglio, potrete gustare le mie poesie istallate sotto ogni singolo quadro esposto, attraverso un percorso evocativo creato per le opere di Lorenzo Chinnici, con l’intento di raccontare la Sicilia nelle sue tradizioni, con versi anche dialettali che rendono bene il concetto che si vuole esprimere e danno colore forse a tratti anche folcloristico alle opere del maestro, tra antico e contemporaneo, tra passione e amore per la propria terra.

11. Ti piacerebbe cimentarti anche nella prosa e pensi di proseguire a scrivere in versi?

Direi che non sono interessato a scrivere in prosa, preferisco mantenere questa mia forma di scrittura che sia in versi o no, ma quella che è marchio di ciò che sono ed indice di riconoscibilità del mio lavoro.

12. Nella poesia intitolata Intro, parli di una migrazione verso te stesso, è il tuo io che dopo essersi smarrito ritorna alla casa natale, per così dire, oppure assorbi nuovi mondi esterni al tuo?

Con Intro si tratta di un ritorno al mio io, dopo una migrazione controllata, metabolizzata, senza il dolore iniziale e con nuova consapevolezza del mio corpo e della mia anima, cambia in parte il modo di scrivere, ma non attingo mai dall’esterno o da nessun autore passato e contemporaneo, in quanto una cattiva mia abitudine è quella di non leggere molti libri di poesia, non mi serve assorbire o seguire la scuola di pensiero di altri, sono autodidatta per cui mi serve solo sfogarmi o sublimare con le parole la vita e lo faccio con il mio dono inconsapevole se così vogliamo chiamarlo.

10. Nella poesia premiata Senso d’amare, contrapponi la staticità di un fiume al dinamismo dell’ansia di cercare sempre l’amore anche a tempo finito, giocando con le parole (senso, senza, ansia). L’amore per è un semplice sentimento o un moto dell’anima?

Del fiume ormai fermo, mangiai lo sgomento, è misera ansia, sono tutti termini che vogliono rappresentare l’accettazione di un amore che termina, contemplando in silenzio la fine, ma cercando come forma di negazione alla realtà, di aprire un varco ancora per poter recuperare anche a tempo scaduto, il salvabile. Una poesia dolorosa, come tale era la situazione reale e sembra sia arrivato tutto alla giuria che l’ha scelta per il premio, poiché troppo vera e troppa sofferenza per metterla sulla carta. L’amore per me è un moto dell’anima che mi fa fare cose impensabili, ma che per esistere nel tempo necessita di essere intriso di stima e condivisione, essenziali nella vita.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa: tra distacco e ironia

Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo, 23 dicembre 1896 – Roma, 23 luglio 1957), la cui fama è inevitabilmente legata al suo capolavoro il Gattopardo, è stato uno scrittore dalla personalità complessa, solitaria e taciturna.

Alcuni giornali parigini, chiudendo il bilancio dell’annata letteraria italiana del 1959, proprio in relazione a Il Gattopardo, hanno fatto i nomi di Proust e Musil. Giorgio Bassani, nella prefazione dove dava notizie dell’opera e dell’aristocratico autore, afferma che se la materia del Gattopardo ricorda molto da vicino quella del libro di De Roberto, I Viceré, bisogna accostare Tomasi al contemporaneo Brancati ma anche ad alcuni grandi scrittori inglesi della prima metà del secolo. Se la critica parigina ha fatto i nomi di Proust e Musil, probabilmente ha esagerato: infatti non c’è nulla della proliferazione memoriale proustiana, né dell’analisi psicologica e ambientale di Musil nello stile narrativo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che guarda al mondo con distacco ed ironia. Se a Parigi si sono affidati a questi richiami, è perché è stato preso in considerazione solo il lato biografico di Tomasi. Infatti la fama di Proust e Musil sono state postume. Per quanto riguarda poi il paragone con i Viceré, esso fa riferimento a motivi interni: la storia di decadenza di una famiglia siciliana d’antica nobiltà, gli Uzeda e quella dei Salina, sullo sfondo della fine di un regno e la stessa origine siciliana dei due romanzieri. Ma se De Roberto ha edificato il suo romanzo entro un’impalcatura positivistica rinforzata da una psicologia desunta dalle teorie del romanzo sperimentale alla francese (Zola, Bourget), servendosi del documento storico e di costume come di un dato oggettivo al quale il lettore doveva credere, in Giuseppe Tomasi di Lampedusa il documento storico è un pretesto per ambientarvi una storia della famiglia feudale dei Salina, alla vigilia dell’arrivo dei Mille; rappresentata in una condizione di corrosione economica e morale impersonata nel principe Fabrizio, fedele alla cadente monarchia borbonica solo formalmente, ma profondamente deluso.

Tomasi di Lampedusa: racconto di un mondo in decadenza

La formalità del principe Fabrizio non è professata solo di fronte al regno di cui egli è suddito passivo, ma rispetto allo stesso principio dinastico; egli non solo non crede più al re Ferdinando, di cui fin dalle prime pagine del romanzo Il Gattopardo viene fuori un ritratto che ci dice tutto sulla monarchia, ma egli non presta fiducia maggiore neanche al re piemontese e agli uomini della monarchia sabauda. Si tratta di una sfiducia biologica da parte dell’ultimo esponente di un mondo in rovina, accompagnata ad una coscienza delusa e non più irridente per le fortune della “classe nuova”, “la borghesia dei galantuomini”.

Tuttavia nel principe una simpatia c’è, ma è un riflesso del suo sangue, indirizzata al giovane nipote Tancredi che, all’arrivo di Garibaldi, si è arruolato con le camicie rosse e poi sposerà una borghese, Angelica, il cui padre si è arricchito rodendo all’ombra del feudo che reca “l’impresa” del Gattopardo e diventerà uomo politico. Fanno da contrappunto morale e familiare i sotterfuggi amorosi del principe, l’affetto distaccato per la moglie, i figli, il cane Bendicò, l’indole della sua gente, le fortune del simpatico nipote, e in questo modo l’ironia diventa sarcasmo, la benevolenza pietà inutile. Sono queste qualità dell’animo che, nel loro intreccio psicologico, formano i lati più ambigui e accattivanti del carattere del principe Fabrizio.

Di Tomasi di Lampedusa poi non si sa più nulla di quanto abbia assunto Bassani nella sua prefazione. Nato a Palermo e morto a Roma; combattente durante la prima guerra mondiale, prigioniero in Germania, studioso di psicoanalisi e materia militari, è certo che la figura spirituale Giuseppe Tomasi di Lampedusa va inserita in quel tipo di cultura “decadente”, considerate anche le sue letture: D’Annunzio e Baudelaire, oltre ai saggisti inglesi e francesi del Sette e Ottocento come Voltaire.

 

Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V.III.

Luigi Pirandello: precursore del modernismo

“Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni”. (Luigi Pirandello)

Forse è questo ciò che accade quando, nelle nostre certezze, entra una frase, una parola, un concetto o un’idea di quell’uomo che, ancora oggi, resta con le sue opere famoso in tutto il mondo.

Pirandelliano, pirandellismo, termini che derivano da uno dei più grandi scrittori del ‘900 per indicare un avvenimento o una situazione paradossali. Un autore, un uomo, uno scrittore che, elabora e costituisce la poetica dell’umorismo respingendo l’armonia classica e il mito romantico.

Tre furono gli ambienti che influenzarono la formazione psicologica e culturale del grande drammaturgo e narratore sicliano premio Nobel per la letteratura che risponde al nome di Luigi Pirandello: quello siciliano, quello tedesco e quello romano. In Sicilia Pirandello visse dalla nascita, avvenuta ad Agrigento il 28 giugno 1867, fino al 1887, anno in cui si trasferì a Roma per continuare gli studi universitari, conseguendo a Bonn, in Germania, la laurea in filologia romanza.

I primi passi furono mossi all’interno della scuola siciliana, portando l’autore ad una visione relativistica della vita e del mondo. Fu però il teatro a dare quella fama più che meritata. Lo scrittore siciliano mette in scena attraverso relativismo, surrealismo ed espressionismo, le diverse fasi di uno stile di vita volto ad affrontare la realtà attraverso quell’umorismo, quel paradosso, che l’hanno reso uno dei pochi scrittori famoso in tutto il mondo. Per i primi anni, successivamente a conseguimento della laurea, si dedicò all’attività poetica  (“Mal giocondo”, 1889; “Pasqua di Gea”, 1891), testimoniata in seguito da poche altre opere (“Elegie renane”, 1895; “Zampogna”, 1901; “Fuori di chiave”, 1912). Giunto a Roma nel 1893, fu introdotto negli ambienti giornalistici e letterari, dedicandosi ad un’intensa attività pubblicistica e creativa. Fu a partire dal 1915, successivamente ad una serie di problemi familiari che colpirono il padre e la moglie dell’autore siciliano, che si legò al teatro, anche nella regia, affrontando una serie di spostamenti all’estero. Diresse il Teatro d’Arte di Roma (1925-28) creando una propria compagnia, chiamandovi come prima attrice la giovane Marta  Abba, alla quale rimase legato da profonda passione fino alla morte. Nel 1934 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura.

E, attraverso gli echi della sua vita, di quella giovinezza che lo ha condotto a divenire un drammaturgo mai dimenticato, ancora in grado di stupire chi si accinge per la prima volta ad avvicinarsi alle sue opere, ci avviciniamo a quei romanzi, “L’esclusa”- “Il turno” (1901-1902), in cui, come già accennato, si delinea una visione angosciosamente relativistica della vita.

“La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.” 

Pirandello con Eduardo, Peppino e Titina De Filippo

Ma sono nelle vicende e nei personaggi le discordanze tra l’essere e l’apparire, il pare, ciò che realmente si ritrova nelle sue grandi opere, ciò che appassiona, ciò che trascina in una lettura senza tempo. E così  Luigi  Pirandello interviene nel racconto con ironia, sarcasmo, umorismo. Queste le caratteristiche che ritroviamo in quello che viene, ancora oggi, considerato il suo  capolavoro , “Il Fu Mattia Pascal”(1904). Ma queste caratteristiche sono proprie anche delle successive raccolte di novelle (Erma bifronte, 1906; La vita nuda, 1910; Terzetti, 1912; Le due maschere, 1914, poi intitolata Tu ridi, 1920; La trappola, 1915; Erba del nostro orto, 1915; E domani, lunedì…, 1917;Un cavallo nella luna, 1918; Berecche e la guerra, 1919; Il carnevale dei morti, 1919) e dei romanzi posti nel mezzo o che seguono la “grande opera” (Suo marito, 1911, più tardi in parte rifatto col tit. Giustino Roncella nato Boggiolo, post., 1941; I vecchi e i giovani, 2 voll., 1913; Si gira…, 1916, tit. poi mutato in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925; Uno, nessuno e centomila, 1926). E nonostante quell’elemento realistico rimanga sempre in Luigi Pirandello, i modi della narrativa verista appaiono ora capovolti. Sullo sfondo provinciale e borghese di quella narrativa, e nel bel mezzo dei temi che le sono proprî (gelosie, adulterî, terzetti matrimoniali, pazzie, vendette), prende rilievo un’inquietudine nuova, per la quale il nome di Luigi Pirandello è stato accostato a quello dei maggiori esponenti del decadentismo italiano ed europeo: l’ansia dell’uomo che invano cerca di ribellarsi agli schemi della vita per essere soltanto sé stesso e inutilmente si sforza di comporre il dissidio tra forma (maschera) e vita (autenticità). Ai personaggi della narrativa verista, “vinti” ma non privi di una loro grandezza epica, succedono così figure di medî o piccoli borghesi, di impiegati, professionisti, pensionati, rappresentanti di una società priva d’ideali e condannati proprio per la loro realtà, per la loro condizione, per quella differenza sostanziale tra l’essere e l’apparire; e la narrazione si fa aggrovigliata, intesa, seguendo le tortuosità del pensiero e a creando intorno ai personaggi e alle loro vicende un’aria allucinata, di caos.

Il teatro di Luigi Pirandello, così come la narrativa, si muove prima sugli schemi della commedia borghese (“Lumie di Sicilia”, 1910; “Pensaci Giacomino!”,1916; “Liolà”, 1916, scritta originariamente in dialetto siciliano; “Così è (se vi pare”), 1917; “Il piacere dell’onestà”, 1917; “La patente”, 1918; “Ma non è una cosa seria”, 1918; “Il berretto a sonagli”, 1918; “Il giuoco delle parti”, 1918; “Tutto per bene”, 1920; “Come prima, meglio di prima”, 1920; “La signora Morli, una e due”, 1920); schemi abbandonati per giungere in un clima di dramma e tragedia(“Sei personaggi in cerca d’autore”, 1921, l’opera scenicamente rivoluzionaria che, insieme con “Ciascuno a suo modo”, 1924, e “Questa sera si recita a soggetto”, 1930, costituisce la cosiddetta trilogia del “teatro nel teatro”; “Enrico IV”, 1922; “Vestire gli ignud”i, 1922; “L’uomo dal fiore in bocca”, 1923; “La vita che ti diedi”, 1923; “Diana e la Tuda”, 1927; “Come tu mi vuoi”, 1930; “Quando si è qualcuno”, 1933; “Non si sa come”, 1935). Tutto questo è il teatro della maturità, il teatro di un secondo momento, un secondo approccio, ma che in realtà approfondisce il primo momento pirandelliano. Opere fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Restò incompiuta la sua ultima opera,” I giganti della montagna”.  L’autore stesso provvide a riordinare editorialmente la sua produzione drammaturgica.  Mentre segue a Cinecittà la realizzazione di un film tratto da “Il Fu Mattia Pascal” e lavorando alla conclusione dei “Giganti della montagna” e all’ultimo volume delle “Novelle per un anno”, viene colto da una polmonite. Luigi Pirandello Lascerà questo mondo che l’ha amato e lo ama ancora a Roma, nel dicembre 1936. Non ci furono onoranze pubbliche né funerali di Stato; le sue ceneri furono traslate ad Agrigento, e una “rozza pietra”, come egli voleva, fu posta per memoria ai piedi di un pino nella contrada del Caos, dove lo scrittore era nato sessantanove anni prima.

Exit mobile version