Rocco Scotellaro, poeta del mondo contadino e della lotta per il riscatto del popolo meridionale

Rocco Scotellaro nasce il 19 aprile 1923 a Tricarico, un piccolo paese in provincia di Matera. Di famiglia umile figlio di Vincenzo, calzolaio, e di Francesca Fermento, casalinga,  all’età  di 12 anni dopo i primi studi si sposta fra Matera, Roma, Potenza, e Tivoli, riuscendo a terminare gli studi classici.

Nel 1942 Scotellaro si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Roma, senza riuscire a conseguire la laurea. La guerra imminente  e la morte del padre fanno maturare in Rocco Scotellaro  l’idea di far ritorno al suo paese natale. Inizia, così, quella che probabilmente è la missione della sua breve vita.

Il poeta conosce bene la situazione disastrosa in cui vertono le condizioni dei contadini meridionali. In concomitanza agli studi avvia un’intensa attività sindacale.  Nel 1946, a ventitré anni, è eletto sindaco di Tricarico: nello stesso anno, il poeta incontra Carlo Levi che indicherà, in seguito, come suo mentore.

Nel 1950 Scotellaro è accusato di truffa e concussione dai suoi avversari politici; la cospirazione politica ai danni di Scotellaro è ben presto distrutta: il poeta, infatti, è assolto per non aver commesso alcun fatto. Questa circostanza, unita alla delusione per la mancata elezione a livello provinciale, convince Scotellaro a ritirarsi dalle scene delle politica, pur portando avanti gli impegni e gli ideali verso il popolo meridionale, dedicandosi interamente all’attività letteraria.

Nello stesso anno il poeta lucano si reca presso l’Osservatorio Agrario di Portici per compiere degli studi archeologici  sulle condizioni di vita delle popolazioni del Sud, per conto della casa editrice Einaudi. Tuttavia, il 15 dicembre 1953, muore improvvisamente stroncato da un infarto a soli 30 anni.

Scotellaro: un idealista temerario

Rocco Scotellaro è una delle maggiori personalità letterarie impegnate nelle problematiche del  Secondo Dopoguerra. Idealista, temerario, intenso: i tre aggettivi più consoni per descrivere l’anima del poeta lucano, il poeta dei contadini, degli ultimi, degli indifesi, degli ambienti rurali.

Il suo obiettivo era riscattare la popolazione contadina dai soprusi e le ingiustizie subite nel tempo. Un pensiero maturato fra il 1943 e il 1944, gli anni in cui vive la sua Basilicata assaporando la sua terra in maniera drammatica; un territorio, a quei tempi, ricco di confinanti politici come Carlo Levi, Manlio Rossi-Doria, Emilio Sereni.

L’intensità del suo impegno politico-sindacale coinvolge la popolazione a tal punto da creare un consenso omogeneo fra contadini e braccianti. Il poeta sottolinea l’importanza di una società basata sulla solidarietà internazionale, sul lavoro e sulla libertà: valori auspicabili solo secondo un modello di rieducazione politica, morale  e valoriale del popolo.

Ciò che contraddistingue l’operato politico di Scotellaro è la concretezza: la sua amministrazione coinvolge sé stesso in prima linea, insieme al popolo. Gli obiettivi principali sono la risoluzione dei problemi a favore delle persone più in difficoltà, quindi, la costruzione di ospedali, scuole e strade. La peculiarità di questo giovane poeta è proprio l’idealismo bruciante e coraggioso nei confronti della vita: i suoi ideali non sono impressi solo nei versi, ma nella vita vera, lì dove potevano esser visti.

Nella passione, nella lotta contro le ingiustizie, verso coloro che non hanno voce. Scotellaro si mette in prima linea anche nelle occupazioni delle terre rivendicando i diritti dei contadini contro lo sfruttamento dei latifondisti.

L’istruzione è un requisito fondamentale per sconfiggere i poteri forti: l’apertura delle scuole, così bramata da Scotellaro, è  l’unico modo democratico da parte dei popoli per elevarsi culturalmente. La lotta all’analfabetismo è la chiave della vittoria. Avendo vissuto gran parte della sua infanzia e molti anni dell’età adulta in un centro rurale, Rocco Scotellaro, conosce la situazione di carenza a cui è costretta a sopravvivere la civiltà contadina: condizioni igienico-sanitarie inesistenti, povertà, carenze di ogni genere. A tal proposito, si configura fra i maggiori promotori della Riforma Agraria del Sud.

 

Poetica e attività letteraria di Scotellaro: la rivendicazione di un uomo orgoglioso di appartenere a una società contadina

Le produzione letteraria di Rocco Scotellaro si concentra, per lo più, sulla poesia. E tutta la sua produzione poetica è un continuo ribadire, con orgoglio, la sua appartenenza a una società agreste, la stessa che fa affiorare i moti di lotta e passione del giovane poeta.

Gran parte delle opere  hanno avuto delle pubblicazioni postume, grazie all’impegno di Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria. Alcune opere, nel 1954, ottengono il Premio Viareggio e il Premio San Pellegrino. Fra i componimenti più noti di Rocco Scotellaro spicca  La mia bella Patria:

Io sono un filo d’erba

un filo d’erba che trema

E la mia Patria è dove l’erba trema.

Un alito può trapiantare

il mio seme lontano.

Pochi versi, leggere metafore, l’amore per gli ultimi. Una poesia potente e attuale in cui Scotellaro identifica nel filo d’erba che trema il mondo degli emarginati, dei derelitti, di chiunque viva ai confini di tutte le città; coloro che non hanno voce.

La letteratura per Scotellaro è uno strumento: la sua voce e la sua attività politica in prima linea un grido disperato verso gli assopiti del mondo. Una poesia che condanna le ingiustizie e disapprova quella civiltà industriale che ha costretto alla forca un’antica civiltà contadina, anch’essa con una propria dignità. Il suo amore verso l’attività poetica risale, tuttavia, all’adolescenza. Nel 1940 compone Lucania:

M’accompagna lo zirlio dei grilli

e il suono del campano al collo

d’un’inquieta capretta.

Il vento mi fascia

di sottilissimi nastri d’argento

e là, nell’ombra delle nubi sperduto,

giace in frantumi un paesetto lucano.

 

In questa lirica si intravede il poeta della natura: bucolico, pastorale, agreste. L’ambientazione descritta nei versi crea un’atmosfera quasi arcadica, un’armonia di visioni realistiche  e fantastiche, al contempo, che esalta un’esistenza bucolica di virgiliana memoria.

 

Cambiamenti stilistici: realismo, nostalgia e aspri versi

La guerra, gli stenti della vita del tempo, le asperità portarono il giovane poeta a un cambiamento di rotta stilistica. Le composizioni, ormai, perdono la letizia  e la serenità di una volta tingendosi di criticità e realismo. La guerra e la nostalgia del paese lontano portano alla nascita di “Passaggio alla città” e “La fiera”.

Tuttavia, da questo sconforto nascono le gemme del riscatto politico e sociale verso la civiltà contadina. La lirica di questo periodo assume un tono quasi epico. Un esempio concreto è Sempre nuova è l’alba, definita da Carlo Levi “Marsigliese del movimento contadino”:

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna –

l’oasi verde della triste speranza –

lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova,

perché lungo il perire dei tempi

l’alba è nuova, è nuova.

Uno spazio importante nella poetica di Scotellaro è riservato alla figura dei genitori, il padre in particolar mondo verso cui nutriva un ampio sentimento di affetto e stima.

La scomparsa improvvisa della figura paterna fu per il giovane poeta fonte di estremo dolore come attestano alcuni dei suoi componimenti dedicati alla sua figura:’’ Mio padre’’, ‘’Al padre’’, ‘La benedizione del padre’’.

L’immagine della madre è invece percepita dal poeta in modo ambivalente: in alcuni componimenti guarda la madre con compassione  e amore, quasi con tenerezza per la vita che è costretta a vivere.

Ne esalta le virtù evidenziando i limiti della sua condizione sociale. In altri versi emerge il rapporto conflittuale con la figura materna dove si evince un tono aspro e più deciso, come  nelle poesie ‘’A una madre’’ o ‘’Il grano del sepolcro’’.

Gli scritti in prosa

Seppur minore rispetto alla produzione poetica, Scotellaro scrisse anche delle opere in prosa che andarono, successivamente, a concretizzare tutto il suo ideale letterario futuro.

Spicca fra i primi ‘’L’uva puttanella’’, un romanzo autobiografico  iniziato nel 1950 ma, tuttavia, rimasto incompiuto a causa della morte improvvisa del poeta. Si parla della sua infanzia, del carcere, delle sue dimissioni da sindaco, nei primi capitoli; in seguito, ecco emergere le ambizioni, i sogni, gli ideali di quello che non era un tacito diario asettico di eventi personali.

La negatività degli eventi, i dispiaceri e gli sconforti vissuti sono un trampolino di lancio verso una riflessione intimistica ma anche oggettiva sul contesto storico in cui il poeta viveva. Protagonisti sono quel sottobosco di personaggi degli ambienti rurali; il sottoproletariato che, Scotellaro, ben conosce e paragona ad acini d’uva maturi ma fin troppo piccoli.

Fra pensieri, tribolazioni  e sofferenze Scotellaro tenta di unire emozioni a soluzioni. ‘’Contadini del sud’’ è, invece, un’indagine sociologica rimasta incompiuta in cui l’autore tratteggia il profilo della civiltà contadina contraddistinto dalla sofferenza  e dalla voglia estrema di riscatto.

 

 

 

 

 

 

 

“Cristo si è fermato ad Eboli”: il triste incontro con il Meridione

«Nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa». Cristo si è fermato ad Eboli, scritto tra il Natale del 1943 ed il luglio del 1944,e poi  pubblicato da Einaudi nel 1945 è un romanzo autobiografico, è la storia del periodo di confino che Carlo Levi trascorse in Basilicata, le sue coraggiose idee antifasciste lo portano a fare la conoscenza di un mondo altrimenti, forse, mai scoperto, un mondo chiuso e immoto, lontano dal tempo e dalla storia, un mondo di pena, di problemi antichi irrisolti.

Già il titolo potente, suona come una sentenza, una negatività tutta da risolvere, una difficoltà e una differenza tutta da superare. Cristo si è fermato ad Eboli perché al di là di questa cittadina campana, una volta abbandonata la costa, si fermano la strada e la ferrovia; superato tale punto, si arriva nelle terre aride, desolate e dimenticate della Basilicata. I contadini di questa terra sono lontani dai canoni della civiltà, sono inseriti in una Storia diversa, dal sapore magico e pagano, una Storia nella quale  Cristo non è mai arrivato. Eboli dunque non  è solo un confine geografico ma è il confine che segna la fine della civiltà verso una “terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte”.

Carlo Levi offre un’analisi puntuale e a tratti meravigliata del Mezzogiorno, narra osservando con i suoi occhi di piemontese, visione libera e condizionata allo stesso tempo.

Durante i due anni d’esilio nella cittadina di Aliano, nel libro sarà Gagliano, paese sperduto in provincia di Potenza, tra i monti della Lucania, l’autore ebbe modo di conoscere lo stato di miseria in cui la gente viveva; nel ripercorrere la propria esperienza a con quella gente che dice: «Noi non siamo cristiani, Cristo si è fermato ad Eboli», l’autore riflette con straordinaria lucidità sull’ estraneità dello stato e della politica. Prende consapevolezza di un « un mondo tanto diverso dal suo quanto più vero e più legato all’essenza stessa della vita».

Levi osserva e analizza la miseria materiale in cui i contadini lucani degli anni Trenta sono costretti a vivere, abbandonati da uno Stato in cui non possono riconoscersi, da uno Stato che impone, pretende e vessa. E nonostante tutto i giorni trascorsi a Gagliano, sempre uguali a se stessi, lo rendono partecipe di un mondo nuovo che trae la sua linfa vitale dalla grande forza interiore dei contadini, dalla rassegnazione, dalla pazienza, dalla grande saggezza che li guida. Gli  insegnamenti di questo popolo lasciano quasi stupito Levi, l’immenso senso dell’ospitalità e  l’attaccamento a valori veri, la dignità ferma e salda anche nella povertà e l’entusiasmo dei bambini desiderosi di apprendere sono lezioni importanti per l’autore.

Tutto il libro è attraversato dalla scoperta di una nuova dimensione dell’animo umano, fino ad allora  sconosciuta. Importantissima è anche la componente linguistica Levi infatti scopre innanzi tutto un linguaggio nuovo, inedito e sconosciuto; un linguaggio amaro e ironico e talvolta grottesco.

Una parentesi dalla vita dura di Agliano è rappresentata dall’arrivo della sorella, la quale si trattiene in paese per quattro giorni. A questo punto Levi coglie l’occasione per descrivere Matera, la città fantasma tutta racchiusa nel baratro dei Sassi; le abitazioni scavate nelle grotte e sovrapposte le une alle altre tutte a precipizio sul Basento. I bambini denutriti e scheletrici, condannati sin dall’infanzia alla malaria sembra armonizzarsi con la descrizione del paesaggio brullo e bruciato dal sole. Dimenticati dallo Stato, dalla civiltà, dalla religione, i contadini di Lucania considerano la magia come un mezzo di difesa contro i mali fisici che li affliggono da ogni parte e nello stesso tempo la coltivano come estrema illusione per dominare gli eventi. E Levi entra anche nel mondo misterioso della magia, comprendendo ancora meglio la disperazione contadina. Il grande significato antropologico è rispettato da Levi che non condanna e non considera la  componente magica come superficiale superstizione. Egli si adopererà molto per i gaglianesi ma molto di più faranno i gaglianesi per lui, curando il suo animo.

“Cristo si è fermato ad Eboli” è scoperta e  delusione, amarezza e gioia, impossibilità e speranza, storia e mito, un affresco pietroso e emozionante di una civiltà fuori dal mondo eppure così fermamente legato ad esso. Il romanzo  colpisce anche per la straordinaria capacità dell’autore di cogliere ogni singola sfumatura della miseria e della solitudine arcana del Meridione. Libro attualissimo, da non perdere.

Nel 1979 il regista Francesco Rosi firma l’adattamento cinematografico del libro, affidando il suo capolavoro all’ interpretazione di Gian Maria Volontè.

 

Exit mobile version