La violenza morale e il rapporto verità-menzogna in Marcel Proust nelle considerazioni di Bataille e Simone Weil

È un Proust meno noto quello che emerge dal saggio La letteratura e il male di Bataille. Il tema della riflessione sembra essere l’urgenza della voce della moralità che si articola nell’approfondimento del rapporto non scontato fra verità e menzogna; in quest’angolazione è possibile fare un raffronto fra il pensiero di Bataille e le osservazioni di Simone Weil sulla moralità in letteratura. Nella lettera ai “Cahiers du Sud” sulla responsabilità della letteratura la scrittrice lamenta, oltre alla «facilità dei costumi letterari» e alla tolleranza della «bassezza», «la carenza del sentimento dei valori» negli scrittori del secolo. La psicologia che è alla base della letteratura contemporanea «consiste nel descrivere gli stati d’animo disponendoli sullo stesso piano senza discriminazioni di valore, come se il bene e il male fossero loro estranei, come se lo sforzo vero, il bene, potesse essere mai assente dal pensiero di un uomo». La letteratura, in altri termini, si muove su «stati d’animo non orientati». L’opera di Proust non sfugge secondo la Weil a questo orizzonte: «Il bene vi appare solo nei rari momenti in cui per effetto del ricordo o della bellezza, si riesce a presentire l’eternità attraverso il tempo». Dalla lettura di Bataille emerge invece l’immagine di un Proust che, con una passione che si spinge fino alle soglie della violenza, persegue verità e giustizia e quindi il Bene. I passi batailliani che sottolineano l’impegno morale del Jean Santeuil e il suo commento ad alcuni passi esemplari della Recherche hanno una singolare affinità di tono con alcuni passaggi della lettera di Simone Weil, ma anche dello scritto La personne et le sacré, pubblicato in Francia nel 1950. Afferma Bataille: «Il solo fatto di essere uomo comporta l’amore della verità e della giustizia. Questa passione è distribuita in modo ineguale fra le persone, ma essa indica in realtà la misura in cui ognuna di esse è umana, in cui ad ognuna di esse spetta la dignità di uomo» (LM, IX, 259; 119). Leggiamo in Simone Weil: «C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo prima di tutto che è sacro in ogni essere umano». Per il romanziere francese, come per Bataille e Simone Weil che del resto riconosce allo scrittore verità e bellezza, la verità e la giustizia umana che affonda le radici negli strati più profondi del cuore (o dell’anima secondo Simone Weil che possiede il senso del soprannaturale) sono altro dalla sfera del diritto, a cominciare dal diritto naturale. L’uomo non ha scolpito nel cuore il senso del diritto, ha invece il senso della giustizia e del bene che non sono stadi intermedi e relativi, ma assoluti.

Il Jean Santeuil e l’amore appassionato per la verità di Proust

Troviamo in Bataille un passo del Jean Santeuil: «Si odono sempre con una emozione gioiosa e virile proferire parole audaci e singolari da parte di uomini di scienza che vengono a dire la verità per una questione di onore professionale: una verità che li preoccupa soltanto perché è la verità e che devono prediligere nella professione senza timore di scontentare chi la vede in tutt’altro modo, in quanto è coordinata ad un insieme di considerazioni di cui essi non si preoccupano punto» (LM, IX, 259; 119). Jean Santeuil risale a Platone per esprimere l’amore appassionato per la verità: «È questo – afferma – che […] ci commuove nel Fedone quando, seguendo il ragionamento di Socrate, abbiamo all’improvviso la straordinaria sensazione di ascoltare un ragionamento la cui straordinaria purezza non è stata alterata da alcuna passione personale come se la verità fosse superiore ad ogni cosa: perché in realtà non ci accorgiamo che la conclusione, che Socrate ricaverà da questo ragionamento è quella di dover morire» (LM, IX, 259260; 119-120). Jean è il Proust trentenne abitato da una grande passione per la politica. Il Proust della Recherche non è indifferente alla giustizia ma i suoi sentimenti «avevano ormai perduto questa semplicità aggressiva» (LM, IX, 260;120). Se nel Jean Santeuil Proust trova accenti lirici per esprimere la sua identificazione con «la voce della giustizia palpitante e pronta a sciogliersi in canto», la scrittura successiva non registra più tale ispirazione. Anzi, secondo Bataille, senza il Jean Santeuil non sapremmo che la giovinezza di Proust fu contrassegnata da sentimenti socialisti. L’indifferenza della maturità aveva essenzialmente motivi di carattere psicologico ma anche di classe: Proust apparteneva al ceto borghese di cui le agitazioni operaie tendevano ad abolire i privilegi, ma soprattutto, agli occhi di Bataille «la sua lucidità influì vivamente sulla sua ansia di generosità rivoluzionaria» (LM, IX, 260; 121). Un movimento di esitazione di fronte all’azione socialista non mancava del resto nemmeno nell’opera giovanile. Bataille ci invita a leggere un passo esemplare a questo proposito: «Soltanto quando riflette Jean si stupisce che (Jaurès) tolleri nei suoi giornali, o scagli nelle sue interruzioni, attacchi tanto violenti e forse calunniosi, quasi crudeli contro certi membri della maggioranza» (LM, IX, 261; 121). Lo stesso Proust si dà la spiegazione con quella che Bataille definisce «una ingenua goffaggine». Queste le conclusioni del giovane Jean: «La vita e soprattutto la politica sono una lotta, e poiché i malvagi sono armati in ogni modo possibile, è dovere anche dei giusti esserlo, almeno per non lasciar perire la giustizia […] Se i grandi rivoluzionari avessero troppo badato al modo, la giustizia non avrebbe mai conseguito la vittoria»

Gli stati d’animo tortuosi di Proust

L’intento di Bataille è comunque quello di dimostrare che «Proust ebbe fino alla morte la passione per la verità» (LM, IX, 263; 124), nonostante frequenti siano i momenti della sua vita in cui il principio viene trasgredito. In altre parole, i suoi stati d’animo furono tortuosi, i suoi comportamenti spesso discutibili o riprovevoli, ma egli ebbe scrupoli e rimorsi. Solo che Bataille sembra non rendersi conto come la sua critica oscilli dal piano psicologico al piano di più generali categorie antropologiche quando afferma, ripetendo per altro concetti già espressi, che non esiste legge senza trasgressione e che nella dialettica di entrambe risiede la loro umanità. Un passo soprattutto rivela questo atteggiamento: «Noi ironizziamo sulla contraddizione tra la guerra e l’universale interdetto che condanna l’omicidio, ma la guerra è universale tanto quanto l’interdetto […] Accade lo stesso della menzogna e dell’ingiustizia. È vero che in certi luoghi furono rigorosamente osservate delle interdizioni, ma il timoroso che non osa mai infrangere la legge, che rivolge altrove lo sguardo, è ovunque disprezzato. Nel concetto di virilità vi è sempre l’immagine dell’uomo che, pur entro i propri limiti, con piena consapevolezza e senza pensarci troppo, sa mettersi al di sopra delle leggi» (LM, IX, 263; 124). In realtà, la guerra e l’interdizione dell’omicidio sono ben altro rispetto alla fantasmagoria amorosa, che affonda in stati dell’interiorità per i quali è inadeguato ricorrere a categorie così ampie che investono la totalità dell’essere. Lo stesso Bataille si richiama al personaggio di Jaurès per il quale era in gioco non il possesso di un amore passeggero, ma lo scontro inevitabile fra giustizia assoluta e verità da un lato e la prassi politica dall’altro lato. «Se – scrive Bataille – Jaurès avesse ceduto alla giustizia, non avrebbe soltanto nuociuto ai suoi partigiani: questi lo avrebbero anche considerato incapace. Un aspetto oscuro della virilità costringe a non rispondere mai, a rifiutare una spiegazione. Noi dobbiamo essere leali, scrupolosi, disinteressati; ma al di là di questi scrupoli, di questa lealtà e di questo disinteresse dobbiamo essere sovrani. La necessità di infrangere una volta l’interdetto, fosse pure sacrale, è ben lontana dal ridurre a nulla il suo principio».

Nel Jean Santeuil, in ultima analisi, la passione per verità e giustizia emergono attraverso lo schieramento del giovane Proust dalla parte dei socialisti. E anche se questo sentimento non sfocerà mai, come Bataille sottolinea, in una piena adesione politica tuttavia egli mantiene fino alla fine «la sua ansia di generosità rivoluzionaria» (LM, IX, 260; 121), cui si adatta perfettamente il nome di rivolta senza fine e che accompagna o forse è alla base del registro altamente trasgressivo della Recherche.

Il cinismo presente nella Recherche e le critiche di Simone Weil alla letteratura di Proust in quanto letteratura psicologica

Nella Recherche, come Bataille sostiene, «gli episodi di cinismo si moltiplicano», episodi vissuti cinicamente mentre accadono, ma condannati nel racconto. In questo senso la memoria proustiana è veramente capace di mutare il passato nel trasformare il senso dei fatti, ai quali la riflessione che inevitabilmente si accompagna alla memoria aggiunge dolcezza e nostalgia, assoluzione o condanna. Bataille riprende i concetti già precedentemente espressi sul rapporto fra il rigore del principio e la possibilità della trasgressione, per ribadire che la morale autentica è quella che continuamente mette in gioco se stessa e quindi «il vero odio della menzogna ammette, non senza il superamento dell’orrore, che si corra il rischio di una data menzogna» (LM, IX, 264;125). L’insegnamento tradizionale che si pone al riparo dalla trasgressione «gira le spalle allo spirito di rigore» (LM, IX, 264; 125). Siamo nell’ambito dell’ipermorale alla quale fa da pendant l’eccesso. In particolare «Proust, facendoci conoscere la sua esperienza della vita erotica, ci ha offerto un aspetto intelligibile di un tale avvincente gioco di opposizioni» (LM, IX, 264; 126). I passi proustiani più significativi a questo proposito sono individuati da Bataille nell’episodio della profanazione da parte della figlia di Vinteuil della fotografia del padre ormai morto. Seguendo quella che considera una identificazione ormai stabilita, Bataille afferma: «la figlia di Vinteuil personifica Marcel, e Vinteuil è la madre di Marcel» (LM, IX, 265; 126). È in questa chiave che Bataille rilegge il brano proustiano che suona così: «Non c’è forse persona, per quanto grande sia la sua virtù, che non possa essere indotta dalla complessità delle circostanze a vivere un giorno di familiarità col vizio che ella condanna nel modo più aperto – senza che ella del resto lo riconosca completamente nel travestimento di fatti particolari che questo assume per entrare in contatto con lei e farla soffrire: parole bizzarre, atteggiamenti inesplicabili, una certa sera in un certo essere che tuttavia ella ha tante ragioni di amare. Ma per (una donna) come (la madre di Marcel), doveva esserci molta più sofferenza che per (un’)altra nel rassegnarsi a una di quelle situazioni che a torto si pensano come esclusivamente tipiche del mondo bohémien: esse si producono ogni qual volta un vizio, che si sviluppa per natura in un bambino, ha bisogno di riservarsi il posto e la sicurezza necessari… Ma dal fatto che la (madre di Marcel) conosceva forse la condotta (di suo figlio), non consegue che il suo culto per (lui) ne risultasse diminuito. I fatti non penetrano nel mondo in cui vivono i nostri miti: non li hanno fatti nascere, non li distruggono…» (LM, IX, 266; 127-128). Quest’ultima frase costituisce il momento di contrapposizione fra l’atteggiamento della madre (di una madre) e quello del figlio colpevole. I fatti non toccano le fedi profonde che vivono al di là delle azioni malvagie dell’essere amato visto, al di sopra di esse, con gli occhi dell’anima. Diverso l’atteggiamento del sadico della specie di Marcel in cui il Male diventa un’arte nel contrasto consapevole fra l’inclinazione naturale alla virtù, in altri termini a quella che non costa nessuna fatica, e la consapevolezza che esiste un altro ambito nel quale ci si vuole cimentare. Il piacere che si gode nell’esercizio dell’intelligenza sa di allontanarsi dalla sfera del bene ma non trova in esso alcun godimento. Nella pagina proustiana letta da Bataille, al sadico si oppone non colui che gode normalmente, ma l’asceta. Proust non conosce vie di mezzo: o la virtù senza piacere sensuale o la rinuncia totale. Un atteggiamento simile naturalmente nasconde da un lato la convinzione che non il piacere sensuale in genere, ma il proprio piacere in particolare sia fuori regola, cioè fuori dal bene, e dall’altro lato che solo fuori dalle regole, fuori dal bene esista il vero piacere.

La trasgressione di Proust secondo Bataille

Il piacere proustiano è indubbiamente un piacere trasgressivo, ma forse agli occhi di Proust la colpa maggiore è di non saper scindere il piacere dal male. Proust è contemporaneamente la figlia di Vinteuil ma è anche Vinteuil: egli vede non da una sola angolazione, ma a tutto campo. Vinteuil convive col vizio senza volerlo vedere, ma capisce anche il punto di vista altrui. Leggiamo infatti nella Recherche: «Quando Vinteuil pensava alla figlia e a se stesso dal punto di vista degli altri e della buona reputazione, quando cercava di situarsi insieme con lei al posto che occupavano nella considerazione generale […] si vedeva insieme con la figlia nell’estrema abiezione». Non può sfuggire che qui il bene è perfettamente inserito all’interno dell’idea borghese di moralità che coincide con la rispettabilità. I miti non crollano di fronte ai fatti, così come nessuna ragionevole considerazione sul bene può mutare le individuali inclinazioni al piacere; è possibile rinunciare asceticamente ad esso, non però trovare per esso il modo di tutti; e non a caso Proust usa il termine inumano; la lucidità della ragione si schiera dalla parte della moralità comune e ne vede le ragioni. Il sadico non è uno spregiudicato qualunque: non gli sfuggono tutte le sottili implicazioni del male che compie e ha la sventura di poter godere solo nel male. Secondo Bataille nessuno più del sadico conosce il Bene. Quella che Bataille definisce «la scena più forte della Recherche» è la scena che ha anche una inusitata e originalissima connotazione estetico-esistenziale: «È più facile – scrive Proust – vedere sotto la luce delle scale dei teatri del boulevard che sotto la luce della lampada di una vera casa di campagna, una ragazza che fa sputare un’amica sul ritratto del padre il quale è vissuto solo per lei; e forse soltanto il sadismo è capace di dare un fondamento nella vita all’estetica del melodramma. Nella realtà al di fuori dei casi di sadismo, una ragazza potrebbe avere degli atteggiamenti altrettanto crudeli verso la memoria e il desiderio del proprio padre morto, ma non li riassumerebbe espressamente in un atto di un simbolismo così rudimentale e ingenuo; quel che la sua condotta avrebbe di criminale sarebbe più voluto agli occhi degli altri e di lei stessa, e farebbe il male senza confessarselo». Proust definisce sadico l’atteggiamento di Mademoiselle de Vinteuil, Bataille parla di cinismo a proposito del Marcel della Recherche. La stessa conclusione di Proust, nel passo citato, subisce uno scarto. Il sadismo ha bisogno di rappresentare il reale in un simulacro e l’opera di Sade ne è la dimostrazione. Lo stesso Proust afferma: «Forse non avrebbe pensato che il male fosse uno stato tanto raro, tanto straordinario e conturbante, dove fosse tanto riposante emigrare, se fosse stata in grado di discernere in sé e in tutti gli uomini quell’indifferenza ai dolori che si provocano ad altri e che sotto qualsiasi nome è la forma terribile e permanente della crudeltà».

Qui Proust costruisce e demolisce un’estetica. Anch’egli appartiene, alla fine, alla tradizione dei moralisti, ma nella lettura di Bataille appare un essere profondamente morale nel suo schierarsi dalla parte della giustizia e della verità indipendentemente dalle sue azioni. Ha ragione Simone Weil nel definirlo scrittore di stati d’animo, non ha ragione quando lo vede «non orientato». Egli chiama col suo nome il vizio cui, non senza lacerazione, indulge, e nel brano citato assume su di sé non solo il punto di vista ma anche la sofferenza altrui. Scrive Simone Weil: «Non vi sono limiti ai nostri voleri se non la necessità della materia e l’esistenza degli altri esseri umani intorno a noi. Ogni estensione immaginaria di questi limiti è voluttuosa e così vi è voluttà in tutto ciò che fa dimenticare la realtà degli ostacoli. Ecco perché gli sconvolgimenti, quali la guerra e la guerra civile, che svuotano le esistenze umane della loro realtà, facendole simili a burattini, sono talmente inebrianti. È anche per questo che la schiavitù è così piacevole per i padroni» .

La lettura proustiana di Bataille suggerisce inoltre un ultimo raffronto con Simone Weil che nel testo già citato scrive: «Nulla più del Bene è bello, meraviglioso, perpetuamente nuovo, perpetuamente sorprendente, carico di una dolce e continua ebbrezza. Nulla più del male è desertico, triste, monotono, fastidioso. Tali sono il male e il bene autentici. Il bene e il male fittizi sono il contrario. Il bene fittizio è fastidioso e piatto. Il male fittizio è vario interessante, attraente, profondo, pieno di seduzioni». Il Bene in sé è piatto in quanto armonia e quiete, laddove l’arte è gioco di tensioni. La stessa Weil afferma ancora: «Se nella tela di un quadro raffiguro un uomo che sale in aria, ciò non ha nessun interesse: la cosa ha interesse solo in quanto esiste. L’irrealtà toglie ogni valore al bene». Naturalmente siamo con Simone Weil nella sfera dei valori morali che vengono distinti nettamente dalla valenza estetica, della quale la filosofa avverte il fascino ma che è pronta a sacrificare alla morale; quest’ultima sembra assumere nella sua riflessione un carattere incompatibile con la letteratura dalla quale «l’immoralità sembra inseparabile». E tuttavia ammette: «è certamente a torto che si rimprovera agli scrittori di essere immorali, a meno che non gli si rimproveri anche di essere scrittori, come si aveva il coraggio di fare nel XVII secolo. Quelli che aprono a un’alta moralità non sono affatto meno immorali degli altri, ma solo scrittori peggiori; in loro come negli altri qualunque cosa possano fare, loro malgrado, il bene è noioso e il male più o meno avvincente».

Simone Weil critica Proust in quanto esponente di una letteratura essenzialmente psicologica, e la psicologia porrebbe male e bene sullo stesso piano nella descrizione degli stati d’animo. Bataille dimostra che Proust sottopone a tensione critica gli stessi stati d’animo che appartengono all’uomo, allo sforzo di essere tale, e «il solo fatto di essere uomo comporta l’amore della verità e della giustizia» (LM, IX, 259; 119). Questa passione non è però distribuita allo stesso modo fra le persone, «essa indica, in realtà, la misura in cui ognuna di esse è umana, in cui ad ognuna di esse spetta la dignità di uomo» (LM, IX, 258; 119). Se verità e giustizia tendono al Bene, la letteratura non può essere che il territorio per eccellenza del male; i due piani, complementari in Bataille, sembrano nettamente separarsi nella Weil la quale tuttavia cerca una soluzione negli scrittori di genio: essi hanno «il potere di destarci alla verità», perché «sono fuori dalla finzione e ce ne portano fuori. Ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere perché stiamo bene nella menzogna» La finzione del genio mette in luce la verità nascosta della menzogna e quindi perde il suo carattere di finzione, rispondendo alla verità ideale. Se per la Weil Proust appartiene alla schiera di coloro che, descrivendo stati d’animo, finiscono per porre sullo stesso piano Male e Bene, per Bataille la trasgressività letteraria ribadisce il principio del Bene.

 

Bibliografia: Georges Bataille e l’estetica del male, di Maria Barbara Ponti

Kafka o l’assenza dell’attesa: il radicale disincanto dello scrittore cecoslovacco per mettersi al riparo dalla tentazione di ogni illusione

Il radicale disincanto che pervase il pensiero e il sentimento della vita di Kafka non risparmia nemmeno la letteratura, che tuttavia fu alla base della sua vita. Egli scelse di scrivere non come tentativo di sfuggire all’infelicità o all’inadeguatezza, ma per mettersi al riparo dalla tentazione di ogni illusione. Questa negazione, all’origine, dell’attesa è l’angolazione assoluta da cui Bataille sembra guardare Kafka. Dopo aver sottolineato, non senza ironia, che la proposta-interrogativo dei comunisti di bruciare Kafka era stata preceduta dalla volontà o almeno dal desiderio dell’autore, il filosofo Bataille afferma: «Capì che la letteratura gli rifiutava la soddisfazione attesa, e questo egli voleva: ma non cessò di scrivere. Sarebbe anzi impossibile dire che la letteratura lo deluse. Essa non lo deluse, ad ogni modo, in paragone ad altre finalità possibili» (LM, IX, 272; 138). A questo punto Bataille si inoltra nell’atmosfera e nel linguaggio kafkiani per ammettere che forse la letteratura fu per Kafka ciò che ai suoi occhi era stata la Terra Promessa per Mosè. Bataille ci indica, attraverso una pagina dei Diari, che idea avesse Kafka della Terra Promessa a Mosè. Scriveva Kafka: «Il fatto che egli giunga a vedere la Terra Promessa soltanto alla vigilia della morte non è credibile. Questa suprema prospettiva ha un unico senso, quello di rappresentare fino a che punto la vita umana sia un istante imperfetto: imperfetto perché questa specie di vita (l’attesa della Terra Promessa) potrebbe durare indefinitamente senza che ne risultasse mai qualcosa di diverso da un istante. Mosè non raggiunse Canaan non perché la sua vita fu troppo breve, ma perché era la vita di un uomo» (LM, IX, 272;138).

Kafka letto da Bataille: lo stato infantile e il mancato riconoscimento da parte dell’adulto dell’unicità e particolarità del bambino

È strano, che Bataille nel suo saggio La letteratura e il male, così sensibile all’aspetto immanente del sacro, non sottolinei il fatto che Kafka non solo denuncia la vanità di ogni bene e di tutti gli scopi ma, riportando il sacro sulla terra, ne vanifica implicitamente il senso di trascendenza. Se infatti la vanità degli umani beni e degli umani scopi è denunciata anche dalla Bibbia, la Terra Promessa costituisce in essa in ordine di tempo il primo scopo per l’uomo. Qui Kafka sembra dire non soltanto che la vita umana non raggiunge mai gli scopi, per una reiterazione dei desideri o per un’impossibilità a realizzarli, ma piuttosto che gli scopi, quali che siano, anche se realizzati non raggiungono l’uomo, non riempiono che gli istanti della sua vita, mentre la vita di un uomo è continuamente posseduta da una smania che non si ferma all’istante e nemmeno al tempo se, come afferma Bataille, «uno scopo è sempre, senza speranza, nel tempo – come un pesce è nell’acqua – un punto qualunque del moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana» (LM, IX, 272; 138-139). In questa prospettiva Kafka, non senza rifiutare per l’uomo o comunque per se stesso qualunque scopo – persino quello che nella ortodossia ebraica viene suggerito da Dio – si pone su un piano assoluto in cui il tempo relativo è rinnegato totalmente come portatore possibile della nostra realizzazione. Non abbiamo tempo perché non abbiamo tutto il tempo. Non è questo o quello scopo ad essere messo in forse è la vita umana concepita come tale. Se il tempo è limitato «ciò basta a condurre Kafka a considerare lo scopo in se stesso come un’illusione» (LM, IX, 273; 139). Bataille mette qui in risalto le ragioni che, a suo tempo, spinsero il settimanale comunista Action a chiedersi se si dovesse bruciare Kafka; naturalmente era una provocazione, ma l’idea «era logica nello spirito dei comunisti» (LM, IX, 271; 138).

Questa discussione appare ormai lontana e superata ma la riflessione batailliana, col suo riferimento al tempo, apre al lettore di oggi altri problemi che non emergono chiaramente dall’argomentazione batailliana. Bataille non distingue con chiarezza fra la sua posizione e quella di Kafka per ciò che riguarda l’istante. Dello scrittore egli condivide certamente l’antiteleologismo politico – altro è la letteratura e altro è l’azione – ma, se l’istante è l’unico tempo in cui la letteratura trova il suo terreno, Kafka è ben più radicale di Bataille, a differenza del quale non sceglie l’istante ma ci si trova rinchiuso. Proprio dalla lettura di Bataille ricaviamo che Kafka avrebbe voluto per sé tutto il tempo possibile, in mancanza del quale anche lo scrivere non è che la riconferma di una continua insoddisfazione. L’istante non solo vanifica gli scopi al loro sorgere, ma vanifica ogni aspirazione alla felicità: non solo gli scopi sono «senza speranza», tutto è senza speranza. Di questa mancanza di speranza testimoniano le opere di Kafka, a cominciare dalle trappole continue delle sue parole e delle sue frasi alle quali, secondo Bataille, è vano cercare di dare un significato. Leggere Kafka è muoversi in un labirinto che difficilmente può essere decifrato. Il senso che Bataille ne trae è quello di «un atteggiamento del tutto infantile».

Bataille afferma che lo stato infantile non è solo di Kafka: «Per cominciare tutti siamo infantili, in assoluto, senza remore e, bisogna dirlo, nel modo più sorprendente: ed è proprio con il suo infantilismo che l’umanità allo stato nascente manifesta la sua essenza» (LM, IX, 274; 140-141). Queste osservazioni di Bataille, nella loro perentoria generalizzazione, sembrano nient’altro che una riproposizione delle teorie psicanalitiche sul rapporto tra poesia e nevrosi regressiva. Di fatto, Bataille introduce alla lontana e seguendo schemi a lui familiari, ai quali sembra non poter rinunciare, l’essenza dello stato infantile che consiste nel ricondurre il senso suggerito dall’adulto ad un ulteriore senso irriducibile. Nel mondo di delizie dell’infanzia, dice Bataille, «ogni cosa per un momento, lasciava perdere quella ragione di essere che l’aveva fatta cosa (nell’ingranaggio di significati in cui la segue l’adulto» (LM, IX, 274; 141). In Confessioni e immagini Kafka afferma: «Non si farà mai capire – per esempio – ad un ragazzo il quale alla sera è immerso nella lettura di una bella storia avvincente, non si riuscirà mai a fargli capire con una dimostrazione che si riferisca solo a lui che deve interrompere la lettura e andare a letto» (LM, IX, 274; 141) 2. L’aspetto più importante per Kafka emerge come il mancato riconoscimento da parte dell’adulto dell’unicità e particolarità del bambino; le regole dell’adulto si fondano sulla generalizzazione nella quale il bambino non può assolutamente entrare. Per Kafka, inoltre, l’ignoranza della sua particolarità si traduce in un senso di condanna e quindi di colpa: il rimprovero si dilata fino all’autocensura. Lo scrittore prosegue: «In tutto ciò l’importante è che la condanna inflitta alla mia particolarità di leggere a lungo, io poi la estendevo di mia iniziativa alla mia particolarità segreta di trascurare i miei doveri e, in conseguenza, giungevo al risultato più deprimente» (LM, IX, 274; 141) 3. Si delinea già una situazione senza via d’uscita: la costrizione e il divieto fanno sì che il bambino detesti «l’oppressore» o, alternativamente, detesti se stesso costretto a tener nascosta come una colpa la sua particolarità che, del resto, considera insignificante e senza valore alcuno perché tale appare agli occhi degli altri. Scrive Kafka: «Se io tenevo nascosta una delle mie particolarità, allora in conseguenza detestavo me stesso e il mio destino, allora mi consideravo malvagio o condannato» (LM, IX, 274; 141) 4.

Nell’ottica di Bataille assume particolare rilievo l’elemento dell’insignificanza che è sottilmente legata alla colpa: l’attività del bambino, la lettura, essenzialmente è non degna d’essere, inutile perdita di tempo e perciò non innocua, ma colpevole. Se l’adulto non ha tempo abbastanza, il bambino non ha il senso del tempo che spreca  Bataille cita un passo dei Diari in cui Kafka descrive drammaticamente questa scoperta confusa nell’animo del bambino che è stato e che si ripropone con chiarezza per il giovane che scrive: «Restai seduto e mi chinai come prima su quel foglio che dunque non serviva a nulla…, ma in realtà ero stato espulso d’un colpo dalla società» (LM, IX, 275; 142). Ma Kafka voleva scrivere, voleva, secondo Bataille, «restare nella infantilità del sogno», il sogno che antepone il presente e l’istante all’adoperarsi per l’avvenire; voleva comunque anche l’approvazione del padre, «l’uomo dell’autorità» che rappresenta «la società degli adulti, la sola indistruttibile» (LM, IX, 275; 142). Proprio la ricerca di approvazione e di comprensione costituisce il grande conflitto di Kafka: da essa deriva la sua indistruttibile infelicità. La particolarità del suo essere si identifica nel destino all’infelicità da cui egli non può scindere se stesso. Bataille parla di confusione: «Nel carattere di Kafka è strano il suo profondo desiderio che il padre lo comprendesse e accettasse la sua attività “infantile”, la lettura e più tardi la letteratura, che il padre non lo respingesse fuori dalla società degli adulti, la sola indistruttibile; questo desiderio egli confuse fin dall’infanzia con la particolarità del suo essere» (LM, IX, 275; 142). Kafka in altri termini ha ritenuto per sé essenziale allo stesso modo la vocazione alla scrittura e alla elusione della utilità e l’approvazione paterna, quella del mondo «dell’azione efficace» alla quale generalmente gli adulti si uniformano. «In modo puerile Kafka viveva come ogni scrittore autentico sotto l’opposta priorità del desiderio attuale […]. Si sentì sempre escluso dalla società che lo utilizzava ma considerava di nessun valore – come una forma di puerilità – ciò che nel suo profondo egli era con una passione esclusiva» (LM, IX, 275; 142).

Non c’è letteratura senza colpa: Kafka e la comunità ebraica

Come lo stesso Bataille ha sottolineato, anche Kafka, quando si guarda con gli occhi degli altri, considera insignificante la sua scrittura: se essa non è uno scopo nel senso dell’utile non è però nemmeno un fine di realizzazione; anche ai suoi stessi occhi Kafka è colpevole: non di non vivere e lavorare con lo stesso spirito degli altri, ma di non tentare come tutti la via della felicità. Le lettere a Milena ne sono una dimostrazione: come pretendere di rendere qualcuno felice se manchiamo di questa aspirazione? Kafka indietreggia di fronte a tutte le promesse. Bataille stesso lo ha già affermato: «Capì che la letteratura gli rifiutava la soddisfazione attesa» (LM, IX, 272; 138); più esattamente: dalla letteratura non poteva aspettarsi soddisfazioni. Poteva aspettarsi solo la conferma della sua sofferenza e della sua colpa. Se, per riprendere una formula batailliana, non c’è letteratura senza colpa, Kafka non solo è colpevole di scrivere, ma scrive perché è colpevole e si sente tale; perché, come Bataille sottolinea, la legge, com’è consono all’ebraismo (anche se Bataille non lo dice), viene prima di tutto. Viene prima delle passioni e dei desideri personali ai quali Kafka non rinuncia, ma che ritiene, come gli altri, fuori legge. Di più: non si tratta di una legge esteriore ma di una legge che egli stesso ha interiorizzato. In fondo la ricerca dell’approvazione del padre è il desiderio di rientrare nell’ambito della legge. A dire il vero Bataille sembra sottovalutare l’appartenenza di Kafka all’ebraismo culturale e morale, per farne invece solo una questione di appartenenza a una comunità al cui centro è la figura paterna. «Nel mondo decrepito della feudalità austriaca – scrive – la sola società che avrebbe potuto riconoscere il giovane israelita era l’ambiente paterno degli uomini d’affari, che escludeva gli inganni di uno snobismo invaghito di letteratura. L’ambiente in cui la potenza del padre di Franz si affermava senza contrasti esprimeva la dura rivalità del lavoro, che nulla concede al capricci, e tollera nell’infanzia una forma di puerilità, che esso pure ama nei suoi limiti, ma condanna nel principio» (LM, IX, 277; 144). Più semplicemente, la laboriosa e produttiva comunità ebraica, come ogni comunità del resto, ama e tollera l’infanzia nei bambini, non tollera l’infantilismo negli adulti.

Lo scritto su Kafka costituisce nell’ambito de La Letteratura e il male come l’estremizzazione della visione dell’infanzia già aperta dal saggio su Emily Brontë: i bambini diventati adulti conservano o ritrovano dell’infanzia la libertà noncurante del futuro; Kafka rifiuta del mondo adulto le responsabilità che sarebbero ostacolo alla sua scrittura. Se entrambi i mondi sono illuminati dalla sovranità è indubitabile che la landa di Wuthering Heights è scenario di spontaneità assoluta, laddove la stanza e la casa di Kafka sono luogo fisico e spirituale di costrizione e angustia. Ma Kafka più di ogni altra cosa voleva scrivere e non perché fosse l’unica cosa di cui era capace – quando lavorava lo faceva anche bene –, ma perché della scrittura aveva la vocazione. L’attività dello scrivere è considerata inutile e puerile, in quanto non produttiva, nella comunità a cui appartiene, ed egli accetta e subisce la puerilità che gli viene attribuita, pur di poter sostituire con la parola scritta (si può scrivere anche se nessuno ascolta) la parola che il padre in primo luogo non aveva voluto sentire. Questo il significato della puerilità kafkiana, per la quale Bataille usa, consapevolmente o meno, lo stesso schema argomentativo di cui Sartre si era servito a proposito di Baudelaire e del suo atteggiamento di fronte al male. Kafka ha affermato più volte di voler evadere dalla sfera paterna. Ma secondo Bataille «non dobbiamo ingannarci su questo punto: Kafka non volle mai evadere veramente. Egli voleva piuttosto vivere nella sfera come un escluso. Sapeva in partenza di essere estromesso. Non si può dire che egli fosse estromesso dagli altri, non si può dire che egli si estromettesse da sé. Si comportava semplicemente in modo da rendersi insopportabile all’ambiente dell’attività utilitaria, industriale e commerciale; voleva restare nell’infantilità del sogno» (LM, IX, 276; 143).

Insopportabile, si sa, perché, diversamente che per la comunità all’interno della quale viveva, il lavoro non era la sua vita. In nome dell’adattamento al lavoro Kafka avrebbe voluto il riconoscimento dall’autorità paterna, il riconoscimento alla legittimità di vivere non di lavoro, ma fondamentalmente ed essenzialmente di scrittura. Essendo la scrittura, nella concezione di Kafka come di Bataille, il contrario esatto di un mestiere, essa è deresponsabilizzazione totale. La mancanza di responsabilità, l’essere esonerati dal prender sulle proprie spalle decisioni e progetti, non è forse una delle caratteristiche dell’età infantile? Per questo Bataille può affermare che Kafka, che pur conduceva «una lotta accanita per entrare nella società del padre con pienezza di diritti», ha posto fino alla fine una condizione: «Di restare il bimbo irresponsabile che era» (LM, IX, 277; 144). In realtà questa affermazione batailliana può essere rovesciata: chi ha una forte ed esclusiva, cioè totalizzante, vocazione artistica sa, o dovrebbe sapere, che essa è incompatibile con le responsabilità di una vita normale. L’infantilismo o, più esattamente, il lato immaturo di Kafka risiede invece nell’aver lottato per tutta una vita perché il padre approvasse il suo scrivere, perché accettasse di riaccoglierlo nella sua sfera così com’era. In altri termini, la quasi fastidiosa insistenza, tutta batailliana, sulla presunta puerilità di Kafka può essere giustificata solo nella prosecuzione di un discorso tutto interno ad un’idea della sovranità che ha stati di libertà assoluta e stati di minorità che, di fatto, a differenza del vero stato infantile, sovranamente inconsapevole, assurgono alla sovranità in quanto consapute e volute. Il sogno kafkiano prosegue all’ombra dell’autorità paterna che riconferma la puerilità della sua situazione. Con un congedo definitivo dal padre e quindi dalle opinioni della comunità, Kafka avrebbe potuto essere del tutto libero, ma egli non aspirava alla libertà, aspirava alla scrittura.

In questo senso gli eroi di Kafka sono del tutto impermeabili alla realtà, non prendono mai sul serio il reale ma soltanto i tortuosi sentieri della loro anima, incommensurabile agli oggetti e alle persone da cui è circondata. Ma è appunto ciò che accade a chi si sente assediato da un mondo che non capisce. Nel romanzo di Kafka il reale viene del tutto sostituito da un altro mondo, non per aspirazione ad una idealità più alta, secondo il criterio ben noto della verità in arte, ma per incapacità di fare i conti col mondo di tutti, per la consapevolezza di vivere, come egli stesso disse a Max Brod, nella sfera dell’impossibile. Scrive a questo proposito Ladislao Mittner: «Tutte le cose di questo mondo sono per lui cose dell’“altro” mondo: non solo e non tanto le cose orribili, quanto quelle naturali, quotidiane, banali. […] Chi vive veramente nella realtà, trova angoscianti le cose che violano o sembrano violare la legge della realtà; chi vive fuori della realtà trova angosciante la realtà intera, e la trova tanto più angosciante, quanto più perfettamente essa ubbidisce alla propria legge, quanto più essa è normale». Bataille traduce in termini di irrazionalità e disordine, secondo le sue categorie estetiche ed esistenziali più consuete, il fondamentale stato d’animo kafkiano: «In una parola – dice – volle che l’esistenza di un mondo irrazionale e i cui significati non si compongono in un ordine rimanesse l’esistenza sovrana»; e conclude con un apparente balzo in avanti: «Quell’esistenza che è possibile soltanto nella misura in cui chiama la morte» (LM, IX, 278; 145). È, come si vede, una traduzione radicale del senso del nulla che indubbiamente caratterizzò la scrittura di Kafka. Quando si è consapevoli che il nulla segna non l’esistenza in genere ma, come nel caso di Kafka, solo la propria esistenza, la rinuncia all’azione, il porsi dalla parte del capriccio e dell’arte si rivelano un richiamo verso la morte.

A Bataille sfuggono comunque alcune fondamentali implicazioni estetiche della esuberanza di Kafka, anche nei passi da lui riportati. Questo per esempio: «Non ho mai potuto comprendere come a quasi tutti coloro che sanno scrivere sia possibile oggettivare il dolore pur nel dolore; al punto che, per esempio, nella sventura e forse con la testa ancora tutta febbricitante, io posso sedermi per comunicare a qualcuno per iscritto: io sono infelice. Anzi andando ancora oltre, posso, con diversi svolazzi, secondo il talento che sembra non aver nulla in comune con l’infelicità, improvvisare su questo tema, semplicemente o per antitesi o ancora con delle orchestrazioni intere di associazioni. E questa non è menzogna o lenimento del dolore, ma è una esuberanza di forze accordata dalla grazia in un momento in cui il dolore ha tuttavia esaurito tutte le forze sino in fondo al mio essere che ne è ancora tormentato. Che cosa è questa esuberanza dunque?» (LM, IX, 280-281). Il tema non è nuovo; in modo altamente poetico lo aveva già posto Goethe nel Torquato Tasso: «E mentre l’uomo nel suo tormento si fa muto, a me un dio concesse di dire come soffro». Ma c’è indubbiamente in Kafka una sfumatura diversa. Il dono degli dei è visto come un qualcosa che travalica il sentimento stesso e lo stato d’animo individuale; il talento consente, non senza una nota ironica da parte di Kafka, svolazzi e variazioni sul tema che coesistono col dolore e la sventura. Non si tratta né di mancanza di sincerità, né di catarsi attraverso l’espressione artistica; è eccesso che, alla fine, supera in intensità e in urgenza il dolore stesso. Bataille riprende la domanda kafkiana per dare una risposta nella quale si mescolano più piani di quanti la tematizzazione dell’autore non presenti nel passo citato. Ricorre alla Condanna, ma anche al passo del Diario in cui Kafka registra tempi e stati d’animo del racconto appena concluso. Quel che si ricava dai passi riportati da Bataille è che, laddove i passi del Diario sono una sorta di piccolo manifesto della letteratura, i racconti in genere, e questo in particolare, fanno necessariamente leva su un contenuto particolare, che però è solo pretesto per esprimere uno stato d’animo fine a se stesso.

 

Bibliografia:

Georges Bataille e l’estetica del male, di Maria Barbara Ponti

‘L’azzurro del cielo’, il secondo romanzo erotico del filosofo George Bataille: la ricerca della purezza nel torbido

George Bataille (1897-1962) è stato un intellettuale complesso e discusso. Scrittore, filosofo, sociologo, etnografo, disse di se stesso: “io non sono un filosofo, ma un santo, forse un pazzo”; d’altronde lo stesso Sartre ebbe a definirlo paranoico e folle. Di lui si è detto anche che non è un vero e proprio scrittore, in virtù della scrittura arida e frammentaria. Ma forse è proprio quest’ottica di sacrificio (santità) e di gioia mistica (pazzia) la chiave di lettura di Blue du Ciel, L’azzurro del cielo, secondo romanzo erotico – il primo fu Storia dell’occhio (1928, romanzo osceno ma che nasconde un provocatorio e raffinato gioco retorico tipicamente surrealista) – in cui confluisce l’episodio “Dirty” scritto già nel 1927. Due le principali influenze letterarie: Sade e le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, tuttavia quest’opera non può essere separata dal resto della produzione batailliana (pensiamo ad opere come L’erotismo o Storia dell’occhio). Vi si sentono un non completo abbandono delle idee rivoluzionario-surrealiste nonché un’anticipazione dell’esistenzialismo francese, anche se in chiave “impolitica”. Con Paolo Tamassia: “il rifiuto della dialettica non significa certo per Bataille l’accettazione rassegnata dello status quo, quanto piuttosto l’avvio della ricerca di uno strumento adatto a sovvertire radicalmente lo stato delle cose, che non sia però suscettibile d’essere volto in positivo. Insomma: un “dispendio senza impiego” difficilmente digeribile per gli intellettuali dominanti dell’epoca.

L’Azzurro del Cielo è, innanzitutto, la descrizione del rapporto neurotico di Henri Troppmann – alter ego di Bataille – con le donne:
Dirty, diminutivo provocante di Dorothea S., è l’amante con cui tradisce la moglie, tanto nei bassi fondi londinesi quanto al Savoy. La loro continua ubriachezza e le loro ossessioni fanno da legante ad un rapporto morboso fatto di carne, deliri e morte. “Solo con Dirty, provo sempre quel desiderio di gettarmi ai suoi piedi. La rispettavo troppo e la rispettavo proprio perché era divorata dal vizio.” Ma in fondo il protagonista è alla ricerca proprio nel torbido e nella dissolutezza di una forma di purezza.

E’ importante sottolineare come alla base dell’esistenza e della riflessione di Bataille vi sia il rifiuto della vita profana, chiusa nella sfera dell’utile. Privato di Dio il soggetto non ha più garanzie per fondare una spiegazione di se stesso e del mondo. Ma se il senso della trascendenza divina tramonta nel momento in cui la modernità ha decretato la morte di Dio, Bataille in controtendenza nei confronti della modernità stessa, reintroduce il sacro nella sfera del quale «il mondo è dato all’uomo come un enigma da risolvere». Se gli esseri sono isolati all’origine, le loro situazioni esistenziali eccessive (il riso, l’erotismo, l’ebbrezza, il sacrificio) li pongono in una situazione di intimità comunicativa che è anche all’origine dell’arte in quanto opposta al reale. Infatti «il mondo intimo si oppone al reale come l’eccesso alla moderazione, la follia alla ragione, l’ebbrezza alla lucidità». 

Non è un caso che gli autori preferiti da Bataille (basta leggere il suo saggio La letteratura e il male) sono votati «alle forme di attività più deludenti, alla miseria, alla disperazione, all’inseguimento d’ombre inconsistenti che non possono dare altro che vertigine o rabbia». Esistono invece forme meno estreme in cui, comunque, attraverso l’arte giochiamo con la morte e col pericolo, ci misuriamo con angosce e orrori che rispondono al nostro desiderio di richiamare volontariamente le ombre della morte che noi lasciamo «ingrandire in sé, fino ai limiti dell’esistenza, fino alla morte stessa». Alla morte vera e propria si giunge col sacrificio e tuttavia l’arte implica se non la morte vera e propria due aspetti fondamentali legati ad essa: la rinuncia al mondo reale, la perdita dell’oggetto che nell’opera d’arte viene sacrificato e consumato; la perdita, l’occultamento del soggetto stesso (il poeta, l’artista) che, se non muore, precipita verso la delusione e la miseria o la “minorità” perenne (Baudelaire, Kafka) o scompare nell’impersonalità più totale guidato da un demone che lo eccede (Manet). La letteratura è in questo senso pratica di morte, e gli stessi scritti letterari di Bataille affrontano temi e situazioni in cui non solo si sfiora o si raggiunge la morte nell’estremizzazione del desiderio senza più freni, ma non si arretra nemmeno di fronte alla necrofilia, per quanto l’intento sia quello di descrivere l’orrore e insieme l’attrazione vertiginosa che la morte, nella sua densità più cruda, suscita nell’essere che con essa si confronta.

È una donna bellissima e molto ricca che, ciò nonostante, Henri non riesce a soddisfare a causa di un’angosciante parafilia, nominata solo dopo alcune esitazioni: la necrofilia. “C’era sempre, al fondo di tutto, un tanfo di cadavere”.
Henri si confessa con Lazare, l’amica parigina dall’aspetto assurdo. La sua descrizione, che occupa varie pagine, rimanda senza grande difficoltà all’effettiva amica di Bataille: Simone Weil. Venticinque anni, brutta, visibilmente sporca, malsana, capelli corti ed irti, carnagione giallastra, naso da ebrea ed occhiali cerchiati d’acciaio. Dice Henri riferendosi a Lazare: “quello che mi interessava di più in lei era l’avidità morbosa a dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati.” Lazare, calma come un prete, accoglie il racconto di tutta la sua vita, ridotta a fiumi di alcol, ossessioni ed allucinazioni febbricitanti.
Xénie è la seconda amante di H. Troppmann e, forse, l’unica che lo ama perdutamente oltre alla moglie (personaggio sempre presente nel romanzo pur nell’ossessione della sua assenza). I deliri continuano a divorarlo e, in più, si ammala di un’influenza complicata da gravi sintomi polmonari. Sarà curato, oltre che dalla suocera, dalla stessa Xénie, la quale baciandogli la mano gli sussurra: “Lo so. Tutti sanno che avete una vita sessuale anormale. Ma ho pensato che dovevate essere soprattutto infelice. Sono solo una sciocca. Mi piace ridere. Ho solo stupidaggini per la testa, ma da quando vi ho conosciuto e ho sentito parlare delle vostre abitudini, ho pensato che chi ha abitudini ignobili.. come voi… molto probabilmente soffre”.
Henri, scampato dalla morte, riesce a dire a Xénie ciò che sino ad allora gli pareva inconfessabile. La sua necrofilia, di per sé agonizzante, ha un risvolto di vergognosa pietà: ebbe inizio con la morte della madre! “Tremavo di paura e d’eccitazione davanti al cadavere, ero all’estremo dell’eccitazione… ero in trance… mi sono tolto il pigiama… mi sono… capisci…”.

L’azzurro del Cielo non è, tuttavia, solo anomalie sessuali ed ossessioni deliranti, bensì anche la ricerca – la “prova asfissiante” – di spingere lontano la propria visione e, con Bataille, “di andare incontro all’attesa del lettore stanco dei limiti angusti imposti dalle convenzioni”. Si domanda nell’autoprefazione: “Come si può perdere tempo su libri la cui creazione l’autore non sia stato manifestamente costretto?”. Così L’azzurro del cielo scritto nel 1935 ma pubblicato solo nel 1957, quando ormai Bataille è lontano dallo stato mentale che ha partorito queste pagine, risulta un libro necessario sebbene urticante. Per leggere quest’opera è necessario arrendersi alla provocazione, accettare di entrare senza scrupoli né paure nella taverna dei bassifondi londinesi, il primo dei luoghi sporchi di sporca umanità in cui l’autore ci conduce, per incontrare Dirty, naturalmente ubriaca, bella e dannata. Bisogna rassegnarsi all’eccesso e al disgusto: non c’è altra strada percorribile per arrivare a scorgere l’azzurro del cielo. Bataille è uno scrittore irritante, il suo mondo costantemente ai margini è disarmonico e inconcludente, ma può essere affascinante e ipnotico, tiene avvinto il lettore, lo trascina in luoghi e in situazioni che vorrebbe evitare o da cui vorrebbe presto fuggire. La forza trascinante, il vero dono di Bataille, è la sua capacità di comunicazione.

Commenta Jacques Réda nel 1962, anno della morte di Bataille: “in un secolo di filosofi come il nostro, occorreva che fosse un santo, per l’appunto, o forse un pazzo a ricordarci che l’uomo non è riducibile alle sue ontologie né addomesticato dai suoi sogni, ma è l’essere insonne al quale, anche in pieno bagliore, sfugge la luce dell’essenza, e che non può sottrarsi, senza rinunciare a se stesso, alla fascinazione colpevole di ciò che lo distrugge”.

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