Sticky Fingers: il torbido rock degli Stones

Sticky Fingers è, forse, l’album nel quale gli Stones fanno davvero gli Stones. Il titolo, letteralmente “dita appicicose” riflette perfettamente la cifra musicale raggiunta da Jagger & Co. e rappresenta egregiamente ciò che effettivamente stavano facendo. Si stavano letteralmente sporcando le mani. Con cosa? Con una miriade di generi musicali, dal blues al rock, al country. Suoni grezzi, sporchi, distorti, testi sudici, depravati, pieni di allusioni a sesso e, soprattutto, droga ma certamente pieni di pathos e fascino. Una copertina leggendaria, ideata da Andy Warhol, in cui si vedono dei jeans con una vera chiusura lampo che nascondono una evidente erezione, lascia poco spazio all’immaginazione su quale sia il contenuto del disco.

“Sovversivi? Certo che siamo sovversivi. Ma se qualcuno crede davvero che si possa iniziare una rivoluzione con un disco si sbaglia. Mi piacerebbe poterlo fare. Siamo più sovversivi quando ci esibiamo dal vivo”. (Keith Richards 1969)

L’attacco micidiale di Brown Sugar, chitarre distorte su un testo che snocciola tutto il sapere degli Stones su droga, sesso interraziale, e lussuria. Rock al massimo grado. Il cantato ciondolante di Sway, la disperazione e la poesia nell’epica ballata Wild Horses, il grandioso riff di Can’t You Hear Me Knocking, il blues alcolico ed acustico di You Gotta Move, la cattiveria di Bitch, la malinconia crepuscolare di I Got The Blues, il dramma della tossicodipendenza di Sister Morphine, il country-divertissement di Dead Flower e la magnifica Moonlight Mile, rappresentano l’apice creativo del duo Jagger e Richards mentre il gruppo raggiunge un feeling senza precedenti anche grazie all’innesto di musicisti esterni quali il sassofonista Bobby Keys e Jimmy Miller. Gli Stones dimostrano di aver metabolizzato bene la lezione della grande musica americana e di averci aggiunto quel pizzico di peperoncino tipico del loro stile rendendola praticamente immortale ed internazionale. Ovviamente il successo di pubblico è enorme, al di la e al di qua dell’oceano, ed anche la critica non risparmia elogi a quello che può essere considerato il disco dei Rolling Stones per eccellenza. Nonostante prevedibili problemi con la censura Brown Sugar diventa un singolo spacca classifiche e le Pietre Rotolanti diventano finalmente superstar libere di esprimersi ai massimi livelli e finalmente libere dall’eterno confronto con i Beatles. Il rock non è mai stato cosi affascinante e gli Stones non sono mai stati più in forma di così….e forse non lo saranno mai.

“Band On The Run”: l’apice degli Wings

Dopo lo scioglimento dei Beatles, nell’aprile del 70, la pubblicazione di due album solisti bellissimi ma interlocutori (McCarteney e Ram), la fondazione di un nuovo gruppo, the Wings, con l’ausilio della moglie Linda che scatena inevitabili paragoni con il gruppo precedente, Paul McCartney capisce che è venuto il momento di rilanciare pesantemente. Per trovare la giusta ispirazione prende armi, bagagli, moglie e quello che resta dei Wings, il solo Danny Laine, prende un aereo e parte per la Nigeria dove, negli studios dell’amico Ginger Baker, inizia a lavorare su del materiale inedito che andrà a costituire la spina dorsale di Band On The Run. Nonostante le enormi difficoltà tecniche e personali (attrezzature non all’avanguardia, furti, minacce da parte di Fela Kuti), il buon Paul riesce a trovare la quadratura del cerchio e a produrre un disco meraviglioso.

“Con la possibile eccezione di Plastic Ono Band di John Lennon, è il miglior album mai realizzato da uno dei quattro musicisti che una volta si chiamavano Beatles” (Rolling Stone-1973)

Si tratta di un lavoro essenzialmente rock, potente e vigoroso, che però lascia spazio a malinconiche ballate e sogni traslucidi che rivelano la ritrovata capacità dell’ex Beatle di spaziare con estrema disinvoltura tra le varie pieghe della musica. I sentori dell’Africa e le atmosfere di Abbey Road, la giungla ed il cemento, sono magistralmente mescolati in dieci memorabili brani di una bellezza assoluta. Le accelerazioni ed i cambi di tempo della title track, i possenti ottoni e le distorsioni di Jet, l’onirica delicatezza di Bluebird, l’enorme giro di basso di Mrs. Vandebilt, le tremolanti tastiere e gli attacchi sghembi di Let Me Roll It, danno la misura del grado di ispirazione e qualità compositiva che McCartney ancora possiede. Si prosegue con la delicatissima e quasi acustica Mamunia, forse la più “africana” delle canzoni presenti nel disco, per poi passare alla corale No Words e alla malinconica Picasso’s Last Word (Drink To Me) ispirata alla morte del celebre pittore avvenuta pochi mesi prima, in cui vengono riprese in maniera geniale due brani precedenti, Jet e Mrs. Vandebilt. La salva finale è affidata al rock di Nineteen Hundred and Eighty-Five la cui lunga coda strumentale, riprendendo la melodia di Band On The Run, chiude definitivamente il cerchio. Ovviamente il disco si rivela un trionfo sia dal punto di vista delle vendite che della critica. La celebre copertina in cui figurano, tra gli altri, gli attori Christopher Lee e James Coburn, staziona per mesi nei primi posti delle classifiche contribuendo a fare dei Wings una delle band più celebri e acclamate del pianeta. Persino gli altri ex Beatles inaspettatamente riconoscono la bellezza e la qualità del disco. Certamente rimane uno degli album più importanti degli anni ’70 ed una dimostrazione tangibile che anche dopo lo scioglimento dei Beatles, Sir Paul McCartney conosceva molto bene il significato della parola rock.

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‘Smile’: Il fantasma dei Beach Boys

Capita molto raramente di vedere dei fantasmi, ma in campo musicale qualche volta succede ed il “fantasma” più famoso del rock è senza dubbio SMiLE, il leggendario album dei Beach Boys, cancellato improvvisamente a pochi giorni dalla pubblicazione dall’autore Brian Wilson e rimasto inedito per più di quarant’anni. Negli anni la fama di “capolavoro perduto”, di “opera maledetta”, ne ha accresciuto enormemente il fascino facendogli assumere contorni mitici, alimentando, cosi, l’affannosa ricerca di collezionisti e la continua pubblicazione di bootleg contenenti stralci di quelle fantastiche sessions. Nel 2011 il mistero è stato svelato. Le SMiLE Session sono state pubblicate (lo stesso Wilson ne aveva riproposto una sua versione “solista” nel 2003 ma si stratta di tutta un’altra cosa), la scaletta originaria è stata ricostruita svelando l’incredibile bellezza e complessità di un album magnifico e geniale. Difficile anzi difficilissimo, un caleidoscopio di colori e note in cui nulla è casuale ma collocato nel punto esatto in cui era previsto che fosse, seguendo un preciso percorso sonoro ben stampato nella mente dell’autore. Vi si possono trovare suoni “insoliti”, pezzi di altri brani, armonie vocali, struggenti ballate, testi visionari e lisergici, surf e malinconiche ballate, in un mosaico apparentemente senza senso ma che dopo il primo ascolto assume un disegno ben preciso.

“Una sinfonia adolescenziale diretta a Dio”. (Brian Wilson-1966)

Il livello raggiunto in Pet Sounds, viene ampiamente superato attraverso l’ideazione e la composizione di un album in forma di una lunga suite, contenente brani scritti appositamente ed incisi con tecniche innovative, per poi venir legati tra loro con grande forza concettuale ed abilità musicale. Un lavoro monumentale che avrebbe dovuto essere la risposta americana a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles e che avrebbe dovuto proiettare la musica pop in un’altra dimensione.

Our Prayer ed il doo-wop di Gee, per la loro breve durata e mancanza di testo, possono considerarsi l’introduzione ad Heroes And Villans, uno dei pezzi cardine del disco  caratterizzato da continui cambi di tempo e partiture impossibili. Do You Like Worms (Roll Plymouth Rock) riprende il refrain del brano precedente per poi fondersi senza soluzione di continuità con i raccordi di I’m In The Great Shape e Barnyard in cui vengono ospitati versi di animali. Una rivisitazione psichedelica e lisergica di You Are My Sunshine (classico della tradizione americana), intitolata My Only Sunshine (The Old Master Painter/My Only Sunshine), porta a Cabin Essence, altra canzone incredibile, dove alla strofa molto dolce e delicata si contrappone un ritornello martellante e “ondulatorio”.

SMiLE-Capitol Records

La meravigliosa Wonderful, con il suo tono sognante e l’inconfondibile suono del clavicembalo, la scherzosa Look (Song For The Children), la quasi strumentale Child Is The Father Of The Man, l’incredibile Surf’s Up (una delle migliori interpretazioni di Wilson), le divagazioni di I Wanna Be Around/Workshop (con tanto di suoni da falegnameria!), gli ortaggi sgranocchiati di Vega-Tables, il cui ritornello è una delle migliori composizioni dei Beach Boys, l’assurda Holidays, le rarefatte atmosfere di Wind Chimes, la delirante The Elements: Fire (Mrs. O’Leary’s Cow), le pause di Love To Say Dada, il capolavoro indiscusso Good Vibrations ed la deliziosa You’re Welcome, brano di chiusura dell’album, sono tutte parti di un arazzo musicale che prende forma ad ogni microsolco. Un album assurdo, irripetibile che mette in evidenza tutto il genio musicale di Wilson ma anche tutta la sua fragilità psichica che lo porta ad abbandonare il progetto (anche per l’ostilità degli altri membri del gruppo a pubblicare un disco cosi difficile) e lo costringerà ad anni di paranoia e depressione. Non capito, ripudiato, SMiLE viene smembrato ed i suoi pezzi vengono riciclati per dare sostanza a lavori francamente trascurabili (da Smiley Smile a 20/20) scempiandone le intenzioni artistiche e la qualità intrinseca. Ora la domanda è: chissà come sarebbe cambiato il mondo musicale se fosse stato pubblicato nel 1967…

Abbey Road: il canto del cigno dei Beatles

Il 26 settembre del 1969, giorno dell’uscita di Abbey Road, i Beatles già non esistono più. La separazione ufficiale avverrà di fatto pochi mesi dopo, nell’aprile del 1970, ma inconciliabili divergenze artistiche, economiche e personali ne avevano già minato irreversibilmente la coesione interna. Le tensioni accumulate durante le session per il White Album, il naufragio dell’ambiziosissimo progetto Get Back, l’eroina, le donne avevano lentamente portato il più grande gruppo del mondo sull’orlo dello scioglimento. Tuttavia i Fab Four avevano deciso di chiudere il loro percorso artistico comune in grande stile, ossia con un album che rimanesse nella storia.

“Fu un disco estremamente felice probabilmente perché tutti pensavano che sarebbe stato l’ultimo”. (George Martin)

Nonostante le assenze per motivi personali di Lennon e la scarsa convinzione di Harrison il livello di Abbey Road è altissimo e rappresenta un “unicum” nella discografia beatlesiana. Il lato A infatti è composto da canzoni nel senso classico del termine, mentre il lato B è un lungo medley di brani uniti tra loro da grande forza concettuale e maestria musicale. Non tutto il materiale è eccelso ma per qualche oscuro miracolo tutti i pezzi scelti stanno bene nell’album legandosi tra loro con assoluta armonia. Il fulminante incipit di Come Together (col celeberrimo verso “Shoot Me” che col senno di poi ha assunto toni sinistramente profetici) composta da Lennon, le meravigliose Something e Here Comes The Sun (forse i pezzi migliori del disco) che attestano la raggiunta maturità compositiva di Harrison, il pop sofisticato di McCartney che fornisce la giocosa Maxwell’s Silver Hammer e la disperata Oh Darling!, la spiritosa Octopus’s Garden di Starr e l’allucinata I Want You (She’s So Heavy) di Lennon (in cui viene introdotto il sintetizzatore Moog) compongono la prima facciata. Brani di una bellezza disarmante (tranne un paio forse) e molto eterogenei tra loro che dimostrano come i quattro avevano preso ormai strade diverse sia dal punto di vista musicale che personale.

The Beatles-1969

Ma la seconda facciata di Abbey Road è tutta un’altra storia. Le complesse armonie a tre voci di Because (ispirata da Al Chiaro Di Luna di Beethoven), il dolore della separazione in You Never Give Me Your Money, le atmosfere notturne ed il non sense di Sun King, i divertissement di Mean Mr Mustard e Polythene Pam, il rock di She Came In Through The Bathroom Window, per arrivare al gran finale composto dal trio di brani Golden Slumber, Carry That Weight e The End, nella quale i Beatles salutano per sempre i fan con il meraviglioso verso “e alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che fai”, rappresentano un momento di puro genio. Non contenti inseriscono una ghost track Her Majesty che rappresentava una novità assoluta per l’epoca. L’8 agosto del 1969 i quattro sfilano sulle strisce pedonali antistanti lo studio dando vita ad una delle copertine più famose, citate e discusse del rock. I Beatles da quel momento non esistono più (una delle interpretazioni più famose della foto la considera il funerale del gruppo), lasciando ai posteri un album praticamente perfetto, in cui tutto fila liscio come l’olio, in cui le note si incastrano a meraviglia ed il feeling tra i musicisti è notevole nonostante il periodo. Un testamento artistico/spirituale unico e irripetibile. Un’opera in cui i Fab Four trascendono schematizzazioni di ogni genere facendo semplicemente musica; una musica immortale, bellissima, capace di ricordare al mondo che un tempo quattro ragazzi di Liverpool sono riusciti a cambiare il mondo con la sola forza delle idee.

“Here’s Little Richard”: la via nera al rock’n’roll

Here’s Little Richard-Specialty Records-1957

Il rock’n’roll non è nato dal nulla. Per anni studiosi e musicologi hanno tentato di capire quale fosse la fonte primigenia ed indiscutibile della “musica del diavolo” senza tuttavia riuscire a trovare una risposta univoca e soddisfacente. Persino sulla data di nascita c’è discordanza. Personalmente ritengo che il rock’n’roll sia nato da due filoni musicali differenti per poi fondersi in un’unica corrente. Esiste il r’n’r “bianco”, derivato da country e bluegrass ed il r’n’r “nero, derivato da blues, gospel, jazz e swing. Bill Haley, Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Johnny Cash erano aspiranti cantanti country che hanno cercato di svecchiare la tradizione americana. Chuck Berry, Little Richard, Bo Diddley dal canto loro sono bluesman o cantanti di gospel che hanno tentato di diffondere e “nobilitare” la musica nera. In particolare Little Richard (nato Richard Penniman) è una delle figure iconiche del genere che, grazie ai suoi pezzi infuocati, al suo look eccessivo ed alle sue interpretazioni superlative ha semplicemente fatto scuola aprendo la strada al funk ed al soul. La sua infuocata miscela di piano “boogie”, ottoni incandescenti, l’uso del non-sense, i caratteristici urli che spezzano il cantato, una voce roca, implorante, altissima, lo rendono immediatamente riconoscibile e ne fanno uno dei più grandi artisti dell’ultimo mezzo secolo.

“Venivo da una famiglia in cui a mio padre non piaceva il rhythm and blues. Bing Crosby, “Pennies From Heaven”, Ella Fitzgerald: ecco tutto ciò che mi capitava di ascoltare. E sapevo che c’era qualcosa che poteva essere molto più rumoroso, ma non sapevo dove trovarlo, Poi lo scoprii in me” (Little Richard- Rolling Stone-1970)

Brani semplici, trascinanti, testi immediatamente memorizzabili e cantabilissimi ne decretano l’immediato successo che arriva all’indomani della pubblicazione di una manciata di singoli che saranno poi riuniti nell’epocale album di debutto, Here’s Little Richard, pubblicato nel marzo del 1957.

Little Richard sul palco

Il primo brano in scaletta basta a dare la scossa. Tutti Frutti con la sua leggendaria intro, forse uno dei testi più ispirati e noti di sempre, non ha certo bisogno di presentazioni. Ricantata praticamente da tutti è un’evergreen ancora in grado di riempire ogni sala da ballo del pianeta. True Fine Mama è un altro indiavolato boogie basato sul botta e risposta tra la voce principale ed il coro. Il blues (che si trasforma magicamente in uno slow) di Can’t Believe You Wanna Leave concede una piccola pausa prima che il ritmo torni ad essere travolgente con Reddy Teddy, semplicemente uno dei brani più celebri del rock. La splendida Baby, la magnifica Slippin’ And Slidin’, con la sezione fiati in grandissima evidenza, l’arcinota Long Tall Sally, vera materia d’esame anche per i Beatles, l’accorata Miss Ann, l’implorante Oh Why?, la tambureggiante Rip It Up (altro classico), gli urli di Jenny Jenny, la trascinante She’s Got It, non ne fanno solo un’ottima raccolta di singoli ma uno delle opere fondamentali del r’n’r. Non ci sono pause al ritmo, la tensione rimane sempre altissima dalla prima all’ultima canzone. Non c’è impegno intellettuale, denuncia sociale o poesia in musica, liriche semplici, onomatopeiche, quasi scioglilingua, adatte a far ballare la gente, facili da ricordare e da cantare. Semplici storie giovanili, che siano d’amore o di divertimento poco conta, asservite alla melodia ed al ritmo della canzone. Non importa ciò che dice Little Richard, importa come lo dice. Dal punto di vista compositivo e tecnico i brani sono basati su un giro armonico di pochi accordi, che li rende immediati, accattivanti ed assolutamente riproducibili, sia dal ragazzo con la chitarra come dalla big band. Forse è proprio questa trasversalità il segreto del successo praticamente perenne di quest’album che, evidentemente, trascende ogni limitazione spazio-temporale per assumere lo status di “pietra miliare” o di “patrimonio culturale dell’umanità”. Certo gli anni ’50 sono passati da un pezzo, il rock è cambiato, si è evoluto, ma sfido chiunque a rimanere fermo ogni volta che qualcuno attacca “A wop bop a lu bop a lop bam boom”.

“Mad Dogs & The Englishman”: l’apoteosi di Joe Cocker

Mad Dogs & The Englishman- A&M Records-1970

All’indomani della sua travolgente performance al festival di Woodstock, nell’agosto del 69, Joe Cocker, la voce graffiante del rock, scomparso il 21 dicembre 2014, si ritrova ad essere uno dei performer più acclamati del pianeta. La sua drammatica versione di With A Little Help From My Friends scala le classifiche ed entra nella leggenda. Sull’onda di questo enorme successo, il soulman di Sheffield, parte per un mastodontico tour attraverso gli Stati Uniti da cui scaturirà il suo primo album dal vivo intitolato significativamente Mad Dogs & The Englishman. Mad Dogs è la “gabbia di matti” rappresentata dagli oltre trenta musicisti sul palco capitanati da quello strano condottiero di nome Leon Russell apprezzato pianista e chitarrista. Gente come le cantanti Rita Coolidge e Claudia Lennear, il bassista Carl Radle, il tastierista Chris Stainton, il batterista Jim Gordon ed il sassofonista Bobby Keys fanno veramente faville dando vita ad uno spettacolo impressionante per qualità ed intensità. L’intesa dei musicisti è pressoché perfetta, a dispetto delle pochissime prove fatte e dei ritmi frenetici del tour. Poi c’è The Englishman, l’inglese, la punta di diamante che con la sua voce unica e possente, la sua fisicità straripante, fornisce il tocco magico ad ogni singola esibizione. Joe Cocker è in splendida forma ed interpreta magistralmente brani degli artisti più disparati, spaziando con naturalezza, dal rock al blues, dal soul al country, al pop.

“Venite con noi cari amici, vi condurremo in un viaggio lungo la storia del rock’n’roll” (Leon Russell in apertura di album)

Russell ha ragione. Assistere ad uno di questi concerti equivaleva ad avventurarsi in un viaggio lungo, entusiasmante ed onirico nei meandri del rock. Il disco restituisce solo parzialmente l’aria che si respirava sotto il tendone dei Mad Dogs, in quanto non riesce a trasmettere la fisicità, l’atmosfera circense, l’elettricità sprigionata durante una di queste memorabili date.

Joe Cocker e Leon Russel-1970

Si parte con una torrida versione di Honky Tonk Woman, classico degli Stones, che Joe Cocker lacera con la sua inimitabile voce. Il viaggio continua con Sticks And Stones di Titus Turner e si snoda attraverso Bird On The Wire di Leonard Cohen, Feelin’ Alright dei Traffic, I’ve Been Lovin’ You Too Long di Otis Redding, Girl From Nothern Country di Bob Dylan. Ma il meglio deve ancora venire. E’ quando il gruppo intona She Came In Through The Bathroom Window che si raggiunge lo zenith. Appare subito evidente che Cocker ha un feeling particolare con i Beatles dal momento che anche questa versione possiede un fascino ed un sound assolutamente irresistibile e trascinante. The Weight, del gruppo canadese The Band, subisce lo stesso trattamento a base di soul e pathos mentre Delta Lady, grazie al suo ritmo vorticoso, assurge a pezzo-simbolo dell’intero disco. Per l’ovazione finale ci si affida, ovviamente, a With A Little Help From My Friends che il gruppo ripropone lasciandone inalterata tutta la forza e la bellezza sprigionata a Woodstock.

L’enorme carrozzone dei Mad Dogs diventa leggendario e l’album che ne viene tratto diventa uno dei migliori live di tutti i tempi. Leon Russell, monta, smonta, assembla e riarrangia brani già famosissimi nelle loro versioni originali dimostrando una competenza ed un istinto musicale fuori dal comune. Joe Cocker, dal canto suo, è il padrone incontrastato della scena. Suda, si contorce, urla, sussurra, suona la sua chitarra immaginaria ipnotizzando pubblico e ascoltatori che pendono letteralmente dalle sue labbra. Grazie al suo “sentire” le canzoni, alle sue tarantolate performance, al suo istinto mostruoso, questi happening diventano vere e proprie maratone musicali in grado di spossare chiunque sia dal punto di vista fisico che emozionale. Il Leone di Sheffield mette in gioco tutto quello che ha e le conseguenze saranno devastanti sia dal punto di vista professionale che umano. Col tempo il buon vecchio Joe, diluirà il suo rock primordiale trasformandosi in un grandissimo interprete dalla voce potente ed evocativa. Con gli anni arriveranno l’Oscar, le top ten ed i dischi d’oro ma il ruggito roco e selvaggio presente in quest’album è diventato il simbolo di un’intera generazione.

“Ram”: McCartney và alla carica

Ram- Apple Records- 1971

Nell’aprile del 1970, a pochi giorni dallo scioglimento dei Beatles, fa la sua comparsa nei negozi un curioso LP con una ciotola e delle ciliegie in copertina, nessun nome. Non appena lo si mette sul piatto si svela l’arcano. La voce e lo stile sono inconfondibili. Si tratta dell’album solista dell’ex bassista dei Fab Four intitolato semplicemente McCartney. Nonostante il successo di vendite si scatena immediatamente una ridda di polemiche. Pur contenendo brani degni di nota, Every Night, That Would Be Something, Junk, Maybe I’m Amazed, si tratta di un lavoro incompleto, rudimentale, approssimativo, indegno di un musicista della sua statura. Scosso dalle critiche e volendo fare di meglio, Paul si rinchiude nella sua fattoria in Scozia ed inizia a comporre nuovo materiale in totale solitudine giovandosi della lontananza, sia fisica che mentale, dallo scompiglio creato dalla fine del gruppo più famoso del mondo. Talmente grande la voglia di fuggire da tutto e da tutti che le sedute di registrazione vengono spostate oltreoceano, a New York e Los Angeles, ed effettuate con l’aiuto di turnisti statunitensi. Il 28 maggio 1971 vede la luce Ram, la cui cover, questa volta, non lascia spazio a dubbi. Anticipato da un singolo dal titolo quanto mai esplicito, Another Day ed accreditato a Paul & Linda McCartney, è il disco della definitiva scissione dai Beatles. In dodici magnifici brani l’autore affronta il dolore della separazione, trova una sua identità musicale e progetta il futuro. Eppure, nonostante arrangiamenti raffinati, sonorità maestose degne del miglior Abbey Road e melodie di grande impatto, quest’album viene inspiegabilmente disprezzato da tutti, in primis dai suoi ex colleghi.

  «Sono deluso dall’album di Paul, credo che sia un grande artista, incredibilmente prolifico e intelligente, ma i suoi dischi mi hanno deluso. Non penso che ci sia una sola canzone degna di questo nome in Ram» (Ringo Starr)

«Il punto più basso della decomposizione del rock degli anni sessanta. Incredibilmente incoerente e completamente inadeguato» (John LandauRolling Stone-1971)

Probabilmente fattori di natura emotiva contribuiscono in maniera decisiva alla sistematica stroncatura di quest’opera da parte degli addetti ai lavori poiché al suo interno sono contenute gemme di indiscutibile bellezza che fanno di Ram uno dei capitoli più felici del McCartney solista. La polemica Too Many People (nella quale John Lennon ha voluto ravvisare un attacco alla sua persona nei versi “Too many people preaching practices” e “You took your lucky break and broke it in two”  cui risponderà per le rime con l’aspra How Do You Sleep? contenuta in Imagine), la blueseggiante 3 Legs, la spassosa Ram On con tanto di ukulele, la barocca Uncle Albert/Admiral Halsey, l’urlatissima Monkberry Moon Delight, la rilassata Heart Of The Country, per arrivare alla stupenda Dear Boy, alle monumentali Long Haired Lady e Back Seat Of My Car fino ai puri divertissement di Eat At Home o Smile Away, mostrano un artista in grandissima forma che ha saputo ritrovare la sua strada metabolizzando gli eventi negativi del recente passato.

John Lennon scimmiotta la copertina di Ram in Imagine

Il pubblico si è mostrato molto meno malevolo facendo volare l’album in vetta alle classifiche. Il fatto di non contenere singoli di successo, la non immediata fruibilità dei brani, la commistione di generi molto diversi tra loro fanno si che Ram non colpisce al primo ascolto, ma già dal secondo se ne resta completamente affascinati. E’ un lavoro pulito, di gran classe, lontano dalle logiche commerciali che porteranno alla formazione degli Wings ed alla produzione di album assolutamente trascurabili fatti solo per necessità di mercato, affascinante, pieno di fantasmi ma anche di grazia, fantasia ed ispirazione. 100% McCartney; un distillato denso e succoso di tutto ciò che l’ex Beatle ha saputo infondere in tutta la sua produzione, sia antecedente che successiva. Proprio per questa sua caratteristica, negli anni a seguire è stato ampiamente rivalutato fino a diventare un million-seller degno di tributi ed elogi a dimostrazione di come, qualche volta, l’orgoglio ed il pregiudizio possano prendere il sopravvento sulla ragione arrivando ad offuscare la bellezza e la qualità di un’opera .

 

Mina: L’urlo della Tigre

Un’artista. Anzi, una grande artista. Soubrette, attrice, presentatrice ma soprattutto cantante. Mina è stata il personaggio chiave del panorama televisivo e musicale italiano degli anni ’60 e ’70. Dagli esordi come urlatrice con lo pseudonimo di Baby Gate nel lontano 1960 fino al ritiro volontario nel 1978, Anna Maria Mazzini (questo il suo vero nome) è stata la punta di diamante della canzone italiana. Una voce e che voce! Potente, limpida, sensuale, versatile, dall’incredibile estensione (basta ascoltare il brano Brava scritto su misura per lei proprio per evidenziarne il fantastico registro vocale), che non accenna a mutare col passar del tempo e capace di confrontarsi, negli anni, con i repertori più disparati (dalla musica sacra ai Beatles passando per Renato Zero, Battisti, gli splendidi duetti con Celentano, la canzone napoletana fino ad arrivare ai recentissimi canti natalizi) uscendone, sempre e comunque, vincente. Non è facile trovare, in una produzione sterminata che si snoda in oltre cinquant’anni di carriera, un album simbolo o capolavoro. Un personaggio di tale statura ha lasciato tracce del suo genio e del suo talento in ogni singola opera perciò ho deciso di scegliere due lavori degli anni 70 che riescono a mettere in luce tutta la sua abilità interpretativa sia di brani inediti che di brani incisi da altri artisti.

Mina- anni ’70

Frutta e Verdura (1973)

Frutta e Verdura, pubblicato nell’ottobre del 1973, è senza dubbio uno dei migliori album di Mina in assoluto; splendidamente arrangiato, magistralmente suonato e prodotto.

«Frutta e verdura è un album straordinario» (Placido Domingo– Rai2-“Unici”-7 novembre 2013)

Frutta E Verdura- PDU-1973

In quest’album la Tigre Di Cremona si confronta con pezzi di autori di gran classe quali Califano, Shel Shapiro, Pino Donaggio, Dario Baldan Bembo e Antonio Carlos Jobim. Si passa dall’ironica e cadenzata Fa Qualcosa alla splendida Non Tornare Più, dalla tormentata Devo Tornare A Casa Mia alla tenerissima e poetica La Vigilia Di Natale fino alla straordinaria rivisitazione di un classico della bossa nova Aguas De Marco che si trasforma nella fantastica La Pioggia Di Marzo. Un disco molto intimo e sentito fatto di amori tormentati, tradimenti, sensazioni profonde e felicità a momenti. Suoni prettamente acustici ed un’orchestrazione leggera che permette a Mina di “indossare” al meglio le canzoni evidenziando tutte le sue doti di interprete. Uscito inizialmente in coppia con Amanti Di Valore  e poi distribuito singolarmente, Frutta E Verdura arriva a vendere un milione di copie risultando, così uno dei maggiori successi della cantante.

Minacantalucio (1975)

Minacantalucio-PDU-1975

Che Lucio Battisti sia stato l’alter ego maschile di Mina ci sono pochi dubbi. Il feeling artistico/musicale tra i due artisti è sembrato più che evidente in numerose occasioni. La stima reciproca è testimoniata dal fatto che Battisti ha “regalato” a Mina due delle canzoni più belle che abbia mai composto: Insieme (1970) e Amor Mio (1971); dal canto suo Mina ha infarcito i suoi dischi di rivisitazioni del canone battistiano fino a dedicare, nel 1975, un intero album al musicista di Poggio Bustone. Minacantalucio, uscito due anni dopo Frutta E Verdura, si avvale degli arrangiamenti del premio Oscar Gabriel Yared che riescono nell’impresa di trasformare e riadattare brani già famosissimi nella versione originale. Titoli quali I Giardini Di Marzo, 7 e 40, Dieci Ragazzi, L’Aquila, Emozioni, Il Nostro Caro Angelo, 29 Settembre, Innocenti Evasioni e Fiori Rosa Fiori Di Pesco diventano improvvisamente canzoni di Mina. Sembrano essere state composte appositamente per lei, per la sua voce, per il suo stile cosi dinamico ed eclettico. Cambiano pelle, cambiano forma, assumono nuovi significati e nuovo fascino grazie allo splendido lavoro dell’artista cremonese. Non è un semplice disco di cover fatto in un momento di scarsa ispirazione ma un preciso progetto artistico di altissima qualità musicale e di enorme spessore tecnico. Un omaggio al più grande cantante italiano di tutti i tempi dalla più grande cantante italiana di tutti i tempi. Non serve aggiungere altro.

Mina- un’immagine recente

I successi, i drammi personali, le discese ardite e le risalite, attraversano tutta la carriera di Mina e si riflettono inevitabilmente nei suoi lavori che assumono così una dimensione umana, vicina, familiare. Anche ora che è lontana, invisibile, inavvicinabile, Mina c’è e riesce ogni volta a stupire noi ascoltatori e amanti della musica, grazie alla sua innata capacità di trasformarsi musicalmente e di risultare totalmente nuova anche dopo mezzo secolo di carriera. E’ proprio questo suo essere un “camaleonte canoro” (potrebbe essere un ottimo titolo per un suo album), unitamente ad una voce “eterna”, a renderla una stella di prima grandezza nel firmamento artistico internazionale (al pari di Aretha Franklin, Celine Dion, Barbra Streisand, Liza Minelli) capace di trascendere confini geografici e generazionali, musicali e temporali.

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