Cosa sono i valori?

Tutti sono concordi nel dire che a questo mondo non ci sono più valori. I preti parlano giustamente di secolarizzazione. Pasolini scriveva che negli anni settanta si stavano sempre più affermando i valori del consumismo, improntati sull’edonismo, sul laicismo, sulla tolleranza a discapito dei valori della tradizione cattolica.

È difficile stabilire quali sono i valori che prevalgono oggi in questa Italia. Come scrive Giovanni Siri i valori a livello psicologico strutturano l’identità e la personalità di base di una persona. Dalla discrepanza tra valori e comportamento possono scaturire disagio esistenziale, sensi di colpa, tormento. Ma è anche vero che un valore non è una meta raggiungibile una volta per tutte, a cui approdare definitivamente, ma un principio che ci chiede continuamente prove, riprova e conferme.

È difficile anche essere totalmente coerenti ai propri valori. Un valore è un fine a cui tendere quotidianamente. Aristotele sosteneva che più che professare dei valori bisogna metterli in pratica e qui la cosa si fa davvero difficile, quasi impraticabile, molto facile a dirsi e molto difficile a farsi.

Per Allport i valori sono delle credenze morali. Alcuni studiosi fanno sottili distinguo tra valori ed ideali. I valori per alcuni sono solo teorici, mentre dovrebbero anche per essere tali diventare delle norme di comportamento. Per altri i valori sono delle regole da seguire pedantemente, ma di cui non avvertono al di là della prassi la portata interiore di certe leggi morali. I valori dovrebbero essere vissuti sia interiormente che praticamente, perciò nessuno è una persona veramente risolta nei confronti della propria sfera valoriale, anzi è una partita sempre aperta, che dura tutta la vita e di cui è difficile, quasi impossibile sapere il risultato.

Bisognerebbe vivere autenticamente i nostri valori, crederci veramente e seguirli nella quotidianità,  ma spesso ci sono ostacoli insormontabili nel praticarli e poi chi ci dice che i valori che crediamo nostri siano veramente nostri? Spesso sono i valori che ci hanno inculcato da piccoli, ma forse questo non importa. Importante è stare bene con sé stessi nel viverli. In psicologia ci si basa sui valori per determinare la devianza o meno di un individuo.

La psicologia ci insegna che negli ultimi anni gli uomini occidentali hanno delle “personalità fluttuanti”, talvolta piene di piccole incoerenze e contraddizioni. Di solito di usa dire che uno che uno ha valori, è di sani principi. Ciò significa di solito che è un uomo all’antica, che non beve, non si droga, non è gay. Alcuni si dicono uomini di onore e per l’onore sono pronti a farla pagare per un apprezzamento volgare rivolto alla loro ragazza. Al di là di ogni ricerca di psicologia è giusto ritenere  che ancora oggi i valori degli italiani almeno in teoria siano basati sulla morale cattolica.

Vale ancora oggi ciò che scriveva Croce, ovvero che in Italia non si può non dirsi cristiani. Probabilmente a livello giovanile c’è un fiorire di “personalità fluttuanti”, ma inserite, volenti o nolenti, in un contesto socioculturale cattolico. Il nostro Paese è un baluardo, una roccaforte del cattolicesimo in un mondo in cui prevalgono sempre di più la soggettività dei valori e il relativismo culturale. Ma cosa si intende ad esempio per valori? I più comuni sono Dio, la giustizia, la libertà,  la solidarietà,  l’amore.

Comunque data una morale qualsiasi la gente peggiorerà, deteriorerà, deformerà sempre a sua immagine e somiglianza,  a suo piacimento quei codici etici. Sgombriamo il campo da ogni equivoco: non è la morale cristiana che si presta ontologicamente all’odio. Sono piuttosto gli animi delle persone che covano l’odio. Non è la morale sessuale cattolica ad essere omofoba, ma è una quota parte della popolazione ad essere omofoba per i più disparati motivi psicologici.

Nella Bibbia c’è anche scritto che chi è senza peccato scagli la prima pietra, c’è scritto di amare il prossimo tuo come te stesso, c’è scritto di non fare mai agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. I valori per certi versi vengono sempre stravolti dalla popolazione, che giudica e condanna il prossimo. Data una etica qualsiasi una parte della popolazione trasformerà dei valori impeccabili in disvalori e commetterà delle ingiustizie. Fa parte della realtà delle cose.

Ad ogni modo esiste una sorta di pansessualismo della morale degli italiani. Viene data dagli italiani grande importanza alla sfera sessuale,  che determina l’onorabilità e la reputazione delle persone. Molto spesso è il giudizio impietoso su una sfera così intima come quella sessuale e non la professionalità, l’onestà,  la lealtà,  la validità che determina la vita sociale delle persone, soprattutto in provincia e l’Italia è fatta più che altro da piccoli paesi. Per alcuni comunque non ha più un senso parlare di valori perché la parola valore è un termine desueto.  Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori in un mondo in cui gli uomini sono dei mezzi e dei mezzi come il denaro diventano dei fini. Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori quando conta un sistema premiante imperniato sull’avere,  sull’apparire,  sul successo.

La maggioranza cerca gratificazioni immediate, il facile consenso nel numero dei like, nel culto della macchina, intesa come status symbol, nel carnet di conquiste femminili esibite agli amici come trofei di caccia. Probabilmente i valori più importanti da promuovere oggi sono il rispetto per l’ambiente, il rispetto per la dignità umana, la capacità di vivere qui ed ora. Rispetto a quest’ultimo principio c’è da ricordare che molti vivono talmente immersi nel virtuale da non saper più godere il reale.

Ma come dice la filosofa Ilaria Gaspari in una intervista chi si ferma a fotografare la luna ritorna a casa con una fotografia che non rende la bellezza della luna vista e vissuta realmente. Chi fa delle foto in pizzeria per metterle sui social difficilmente si gode il momento.  Ritornando alla moralità degli italiani questa si è sempre distinta tra etica pubblica e moralità privata.

Ancora oggi si pensa che un politico dovrebbe essere di specchiata moralità e spesso con questa espressione si sottintende che non abbia mai avuto scandali sessuali, che rispetti la morale sessuale corrente. Molti pensano ancora oggi che senza una adeguata condotta morale non si possa essere buoni politici. In realtà abbiamo avuto uomini politici corrotti che erano irreprensibili mariti e padri di famiglia, ma forse erano altri tempi. Forse alcuni politici allora scelsero deliberatamente il compromesso come male minore.

 

Davide Morelli

Croce, la letteratura napoletana e la tradizione italiana

Alle soglie del Novecento, Benedetto Croce si lascia alle spalle, in virtù di uno storicismo vitale che esautora la luttuosità del rimpianto, la passione campanilistica composta da tanti amici e sodali del suo primo tempo di studioso locale e mette in campo il valore che guiderà gran parte delle strategie crociane in fatto di critica militante. Prospettiva, questa, che si rivela discriminante quando si paragonano il giudizio del giovane Gustavo Colline (pseudonimo che usava Croce sulla <<Rassegna Pugliese>> degli anni ’80 dell’800), su Salvatore Di Giacomo o su Imbriani e i ritratti poi forniti di questi autori napoletani nelle Note pubblicate sulla <<Critica>> e poi raccolta sotto il titolo di Letteratura della nuova Italia.

Negli articoli del giovane Croce, Di Giacomo viene investito dall’impressione di una lettura sincronica, alla ricerca di quella che egli indica come “la napoletanità più schietta” e che Imbriani risulta fin troppo legato al contesto culturale cittadino, difendendo la riconoscibile struttura napoletana dello stile e del fraseggio del romanzo, scritto in una lingua tanto più italiana quanto più vivificata dall’apporto del dialetto. Imbriani dunque è un propugnatore del pregio dei dialetti e spinge gli italiano delle altre provincie ad imitarlo, ma in seguito, all’interno del progetto intellettuale della <<Critica>> queste figure saranno sottoposte ad un trattamento opposto. In mezzo c’è il passaggio dalla storia piccola alla storia grande, c’è la polemica contro la critica regionale, c’è la centralità attribuita alla letteratura come momento conoscitivo e fondativo: la letteratura intesa come concentrazione spirituale e ricerca del vero, come recita la prima pagina della <<Critica>>.

In questo senso, se è vero che l’espressione letteratura è espressione della società è una ridondanza di stampo reazionario, la riflessione di Croce, inquieto post-marxiano, si appunta sigli stessi termini di rapporto ma ribaltandoli: contro l’assenza di una società omogenea in Italia, egli risponde:

“Un artista crea la sua società, non aspetta che vi sia (dove?) una società che egli possa copiare”.

Vale la pena ricordare anche il passo centrale del saggio di Croce su D’Annunzio del 1904:

“Si suole affermare che artisti siffatti sono espressione delle epoche di decadenza; ma bisognerebbe affermare invece, più esattamente, che, quando essi sorgono, qualcosa, in qualche animo, deve essere decaduto”.

Insomma, secondo Croce, la letteratura non esprime altro che se stessa; il concetto di tradizione italiana è nella Letteratura della nuova Italia, concetto militante. Tale letteratura ha il vuoto alle sue spalle e proprio Croce ha “inventato” la tradizione, prendendo in esame una delle grandi culture regionali come quella napoletana, per immetterla nel contesto nazionale.

Nel saggio su Di Giacomo del 1903, il mito digiacomiano della solitudine dell’artista trapassa il concetto critico dell’assolutezza poetica di quell’esperienza, dove tutti i materiali dialettali, del contesto napoletano, si fanno testo, in ossequio di quella che Croce definisce “fusione”. Per questo, nota il critico, è impossibile distinguere le pagine dettate dalla vita vissuta <<da quelle in cui Di Giacomo sceglie, costruisce ed inventa>>. A tal proposito risulta importante un altro passo tratto dalla recensione che Croce ha dedicato nel 1911 al saggio del letterato Francesco Gaeta su Di Giacomo:

“Considero come un vanto non piccolo della <<Critica>> l’avere contribuito a rendere giustizia al Di Giacomo, togliendolo dal gruppo dei poeti regionali e ponendolo in quello dei poeti nazionali, o meglio, dei poeti senz’altro”.

La polverizzazione dei generi, in questo caso della poesia dialettale come genere chiuso ed inferiore dell’arte, la difesa della poesia tout court, risulta collegata al progetto di una moderna tradizione italiana. Non è un caso che il quarto tomo della Letteratura della nuova Italia si chiuda con l’Appendice dedicata alla Vita letteraria a Napoli ed è accompagnata da una giustificazione dato che privilegia la cultura napoletana intesa come la più organica e dotata di una pluralità di livelli, per la sua compattezza rispetto al panorama culturale dell’età giolittiana:

“Mi ero proposto di far seguire nella Critica, al mio tentativo di preparare con una serie di saggi la storia della letteratura nella nuova Italia, una storia della cultura nelle varie regioni d’Italia nello stesso periodo; e come idea del lavoro che desideravo avviare, e per indicazione ai miei collaboratori, scrissi io queste pagine, che lumeggiano alcuni aspetti della cultura dell’Italia meridionale”.

 

Bibliografia: E. Giammattei, Il Racconto e la città, verso il Novecento, in Storia e civiltà della Campania.

 

Benedetto Croce, “il papa laico”

ìIl papa laico”; è stato definito con queste parole il critico ed intellettuale Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952), grande protagonista e patrimonio della cultura italiana, da Antonio Gramsci, per il suo pensiero sul marxismo, sulle varie sfumature del liberalismo (termine oggi stra-abusato che se fosse ancora vivo, Croce arrossirebbe per la vergogna) sul rapporto con la cultura a lui contemporanea e con il Cristianesimo, fino alla polemica con il decadentismo.

Un classico del pensiero italiano dunque, un punto di riferimento per molti decenni, la cui opera potrebbe essere paragonata ad un romanzo cosmico che trova nel continuo svolgersi della vita, sempre del materiale interessante per formare nuovi episodi; “Croce si realizza liricamente in episodi tipici e plastici di vita morale”, si è espresso in questi termini che più di ogni altro giudizio sul critico abruzzese, appaiono calzanti, il critico Debenedetti sul collega Croce, occupandosi della sua opera filosofica, storica e letteraria e giungendo alla conclusione che Croce è arrivato letterariamente ad un risultato, dopo essere partito alla conquista della filosofia.

Nel formare il proprio pensiero, Croce ha reso ben visibili e regolari i moti lirici e figurativi, senza però mai mostrarci la rappresentazione del suo caos. Nato in una famiglia di ricchi proprietari terrieri, ancora legati ai Borboni, Croce frequenta le scuole secondarie in un collegio di religiosi. Nel 1883 villeggia a Casamicciola (Ischia), durante un terremoto perde entrambi i genitori e la sorella Maria. Viene allora accolto a Roma dallo zio, il senatore Silvio Spaventa dal quale i Croce si erano allontanati perché lo consideravano un apostata.

Grazie a suo zio, Benedetto incontra importanti uomini politici ed intellettuali, tra i quali Antonio Labriola ma non ha mai finito gli studi universitari, per sua scelta, non volendo conseguire titoli accademici, ma continuando comunque a studiare: il grande critico non era laureato.

Nel 1886, Croce lascia la società romana, e torna a Napoli, dove compra la casa nella quale aveva vissuto il filosofo Giambattista Vico; negli anni successivi viaggia in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra, ed accresce l’interesse per la storia, grazie alle letture di Francesco De Sanctis che insieme a Carducci rappresentano i suoi punti di riferimento. Nel 1895 Labriola fa conoscere a Croce le idee del marxismo, alle quali inizialmente il filosofo napoletano si interessa, studiando  libri di economia, riviste e giornali italiani e tedeschi d’ispirazione socialista, e si dirige così verso la politica e verso lo studio di Hegel, su consiglio dell’amico Giovanni Gentile, con il quale fonda, nel 1903, la rivista “La Critica”, il cui prestigio culturale ha reso impossibile al fascismo la soppressione. Nel 1910 Croce è nominato senatore per censo e diventa ministro della Pubblica Istruzione nel 1920-21, durante il governo Giolitti: elabora una riforma scolastica, che non ha voluto mai  attuare per la propria non adesione al fascismo, ma la riforma è stata comunque ripresa e realizzata dal Gentile nel 1923. Nel 1914 sposa Adela Rossi, con la quale ha quattro figlie.

Dopo aver rotto con Gentile, in risposta al suo “Manifesto degli intellettuali fascisti”, Croce fonda il “Manifesto degli intellettuali anti-fascisti”, definendo la scrittura del Manifesto del suo ex amico “un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono”. Dopo la firma dei Patti Lateranensi, il critico mostra la sua contrarietà anche al Concordato tra Stato e Chiesa, e Mussolini dal canto suo, definisce Croce “un imboscato della storia”.

Avverso al comunismo, Croce si commuove quando legge le lettere di Gramsci, delle quali celebre il valore letterario; sulla questione meridionale non attribuisce all’unità nazionale appena raggiunta, l’arretratezza del sud, ma l’ ascrive al retaggio del Regno di Napoli. Secondo Croce infatti (pensiero discutibile), “la dissoluzione del Regno di Napoli, è stato “l’unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale, e per dare migliore avviamento agli stessi problemi che travagliavano l’Italia del mezzogiorno”.

La filosofia di Benedetto Croce tende a diventare “filosofia dei fatti particolari”, una “storia pensata”, restituendo poeticamente la realtà che prima aveva rinchiuso in se stessa affinché ne fosse liberato l’universale; Croce quindi ci offre, attraverso episodi, la visione lirica di un mondo spiegato. Per questo, tenendo presente che la sua filosofia risolva il mondo nelle attività formali dello spirito, si è tratti a ricercare qualche carattere comune in tutti quegli episodi che si soffermano su casi tipici, facendo emergere opinioni consuete. Ed ecco che si impone alla nostra attenzione “il sentimento della vita morale” per il quale l’opera si tramuta in dovere da riconoscere e il mondo diventa espressione di una legge alla quale non si può resistere. A tal proposito, negli scritti di Croce, si avverte una sorta di malinconia cosmica, scaturita dalle illusioni, dagli amori e dalle speranze che il grande filosofo e mentore politico cela con un motto scherzoso. Rinunciando ad una facile socievolezza, Croce non ricorre ad orazioni e a parole dure, ma si avvale di un parlare agevole, evocativo, caldo, organico, diventando spesso appassionato, senza fare troppa “accademia”, fino a rivelare uno slancio di simpatia personale.

Il filosofo napoletano considera l’opera d’arte senza parametri morali, né edonistici, né didattici, ma solo in termini di intuizione, che va al di là del bene e del male; non è un caso infatti che Croce amasse Ludovico Ariosto e non avesse grande considerazione per Pascoli, D’Annunzio, Pirandello, e per i poeti maledetti. Elaborando la teoria del concetto puro, che vive nel giudizio, Croce “rimprovera” ad Hegel di aver visto la realtà solo come prodotti di opposti che si sintetizzano, mentre egli precisa che esistono anche i distinti, e crea una sua nuova dialettica che prevede la sintesi di opposti  e il nesso di distinti.

Al filosofo si viene rivelando una visione della realtà che si ordina e circolarmente trapassa in forme diverse e ritornanti, in una maniera che può apparire totalmente pacifica, la quale sottolinea il momento della lotta e del contrasto tra gli elementi che danno struttura alla realtà, mostrando invece che il momento negativo in una forma distinta non è altro che la positività di un altro distinto che al primo si rimpiazza: In tal modo si compie una teoria della storiografia.

I distinti nella filosofia crociana sono quattro, e sono generati dalle due attività fondamentali dello Spirito (conoscitiva e pratica) a seconda che si dirigano verso il particolare o l’universale; detti distinti sono la fantasia, l’intelletto, l’attività economica e l’attività morale, e non si sintetizzano, mentre si sintetizzano, al loro interno, rispettivamente il bello ed il brutto (estetica), il vero ed il falso (logica), l’utile ed il dannoso (economia), il bene ed il male (morale).

La storia è sempre contemporanea, nel senso che essa è legata al presente, nella persona e nell’ambiente dello storico, mentre la storiografia non è cronaca di avvenimenti, ma ricostruzione e giudizio dei fatti, sintesi di intuizione e concetto ed è  sempre “etico-politica”, ovvero storia della vita morale e civile dell’uomo.

Tra le numerose ed illuminanti opere di Benedetto Croce, ricordiamo: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902); la Logica come scienza del concetto puro (1909); la Filosofia della pratica, economica ed etica (1909); la Teoria e storia della storiografia (1917); il Breviario di estetica (1912); il volume La poesia (1936); La storia come pensiero e come azione, 1938; Il carattere della filosofia moderna, 1941; Filosofia e storiografia, 1949, Saggio su Hegel, 1912, e gli studi su Materialismo storico ed economia marxista (1900).

Ma come si può leggere oggi Croce? È un intellettuale ormai dimenticato? In realtà più che dal pensiero marxista, come alcuni pensano, il filosofo partenopeo è stato travolto dalla cultura europea e americana che per molto tempo è stata tenuta lontana dal nostro discorso filosofico e che poi ha pervaso con traduzioni, studi critici e tesi di laurea.

Certamente poi l’aspetto della dimenticanza vale per ogni pensatore, proprio perché appartiene al suo tempo, e il suo tempo è stato il Novecento, secolo durante il quale l’uomo ha sperimentato sull’uomo e operando una grande differenza tra liberismo e liberalismo. Tuttavia l’idea di Croce secondo cui la libertà è un qualcosa di non acquisito definitivamente, ma che deve essere di volta in volta riscoperto nel contesto storico, è un’idea quanto mai attuale. La nostra epoca non è l’unica e definitiva, e Croce ci insegna che bisogna lavorare nella discontinuità della storia, per costruire il futuro.

Benedetto Croce va riscoperto, va ristudiato;  è imprescindibile.

Giacomo Debenedetti e il non-metodo

La critica di Giacomo Debenedetti (Biella, 25 giugno 1901 – Roma, 20 gennaio 1967), occupa un posto particolare nel panorama culturale italiano, il cui metodo può essere definito un non-metodo dato il suo approccio interdisciplinare. Tale critica, pur trovando il suo posto sotto il genere di critica psicologica, esige l’aggiunta di un’altra parola: integrale.

Giacomo Debenedetti nasce a Biella il 25 giugno 1901; i primi tredici anni li trascorre con i genitori Tobia ed Elisa Norzi e il fratello Corrado. Nel 1913 si trasferisce, insieme alla sua famiglia, a Torino, dove frequenta il liceo classico; nel 1917 perde il padre e l’anno successivo anche la madre; i due fratelli vanno a stare dallo zio Alessandro Debenedetti, nella cui casa avverrà il primo incontro di Giacomo con Umberto Saba. Si iscrive al Politecnico, frequenta il teatro Regio e più tardi, su consiglio di suo zio, si iscrive anche alla facoltà di legge, dove si laurea a pieni voti nel 1921 con una tesi sulla filosofia di G. D. Romagnosi. Conosce, tra gli altri Piero Gobetti, Natalino Sapegno, Mario Fubini, Sergio Solmi.
Tramite Saba conosce un personaggio di rilievo della cultura triestina, Roberto Bazlen, che sarà suo amico, tramite Giacomo, anche Montale. Nel 1923 Debenedetti inizia la collaborazione con alcune riviste come <<Il convegno>> il quale pubblica Amedeo, <<il Baretti>> dove compaiono saggi sulla letteratura francese, in particolare su Proust e Radiguet, <<Il Quindicinale>>. Nel 1926 inizia a lavorare per <<La Gazzetta del Popolo>> per la quale adotta lo pseudonimo di <<Swann>>. Sulla Rivista <<Solaria>> pubblica scritti su Saba, De Sancits, Svevo; nel 1927 si laurea anche in Lettere con tesi su Gabriele D’Annunzio; nel 1929 pubblica la raccolta di Saggi critici per le edizioni di <<Solaria>>; nel 1930 sposa Anna Maria Renata Orengo, figlia di una coltissima aristocratica russa che, senza dubbio, ha giocato un ruolo importante per la formazione culturale dello studente Debenedetti (fu lei, infatti, a suggerire al giovane Debenedetti la lettura, nel 1921, di Tre croci di Federigo Tozzi). Nel 1936, insieme ad alcuni amici, fonda <<Il Meridiano di Roma>>, dove tiene una rubrica sulla letteratura contemporanea. Comincia il periodo della persecuzione razziale e Debenedetti, nel 1944, si unisce ai partigiani e lascia il paese perché ricercato.

A questo momento storico corrisponde la traduzione da Proust di Un amore di Swann, nel 1945 pubblica i Saggi critici. Nuova serie. Nel 1955-56 ha l’incarico di Lingua e Letteratura francese nella stessa Facoltà, a Messina, dove svolge un corso sugli Essais di Montaigne e ne prepara uno su Proust. Nel febbraio 1951 tiene, sempre all’Università di Messina, una conferenza su Marcel Proust a patti con il diavolo. A lui, infatti, si deve la prima lucida analisi dell’ opera proustiana in Italia attraverso molti saggi.

Nel 1957 Giacomo Debenedetti commemora Saba al Circolo della cultura e delle arti di Trieste con Ultime cose su Saba, l’anno successivo ottiene la cattedra di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Roma; qui terrà, sino alla sua morte, corsi sulla poesia italiana del Novecento, su Tommaseo, e sul romanzo del Novecento.
Nel 1962 commemora a Siena Federigo Tozzi a ottant’anni dalla sua nascita; nello stesso anno è anche a New York in occasione del congresso dell’Accademia italiana di medicina forense, dove pronuncia il discorso Il personaggio uomo nell’arte moderna, tema che riprenderà, nel 1965, alla Mostra del cinema di Venezia. Nel 1966 provoca un accesa discussione in tutta Italia, in seguito alla sue dimissioni da tutte le giurie dei vari premi letterari di cui fa parte. Muore a Roma nel 1967, a causa di un attacco cardiaco, ma è traslato al cimitero ebraico di Torino.

Marcel Proust

Debenedetti ha rivolto la sua attenzione non solo alla storia e alla società, realtà invocate da tutti i critici accademici, ma anche alla psicologia, alla sociologia, all’arte, alla scienza, alla musica, al cinema dando vita ad una sorta di <<fenomenologia congetturale>>, se vogliamo adottare un’espressione di Enzo Golino , che illumina di nuovi significati l’opera letteraria. Debenedetti è <<un rabdomante della letteratura e del gusto>> come lo ha acutamente definito Alberto Bevilacqua ; intuitivo, percettivo, interdisciplinare, rigoroso, si lascia dapprima ispirare dal suono, per poi scavare nell’anima popolare della cultura, e quindi nella vita stessa, senza pregiudizi. Debenedetti non ha adottato un metodo semplicemente perché li ha adottati tutti, gettando la basi dell’antropologia letteraria, puntando alla sua straordinaria intelligenza e soprattutto sulla sua libertà intellettuale. Lo stesso Debenedetti riguardo al “compito” del critico afferma che il critico deve capire, far capire, spiegare l’opera che legge, ma spiegare consiste nel rilevare che una cosa è come un’altra cosa, come tante altre cose meglio note, che le somigliano e insieme ne segnalano la speciale, insostituibile identità.

Secondo Debenedetti, quindi, il critico deve confrontarsi con l’opera d’arte, interrogandola perché la critica oggi ci interessa solo quando riesce a stabilire i nessi tra gli artisti e tra l’arte e tutto l’insieme della nostra visione umanistica e scientifica del mondo. A proposito di scienza, sono illuminanti le analogie che Debenedetti nota tra la scienza e la letteratura, tra la narrativa dell’antipersonaggio e la fisica delle particelle, la frantumazione dell’uomo, la perdita della sua identità: il suo abruttimento corrisponde con la frantumazione dell’atomo.

Federigo Tozzi

Non si può non tener conto della lezione di Benedetto Croce; il giovane Debenedetti infatti inaugura la sua stagione da critico come crociano. Certamente il critico piemontese percorre una strada inconsueta, prendendo in considerazione anche Francesco De Sanctis. Le ragioni di questo percorso possono essere ricercate nell’ambiente dove si era formato Debenedetti, la Torino gobettiana (dove aveva recepito una coscienza dell’impegno civile che aveva in De Sanctis un esempio ben consolidato nella storia italiana); nel desiderio di “rivedere” la sua passione per i contemporanei. Debenedetti vede in De Sanctis, teorico dell’uomo ideale italiano, una figura più moderna rispetto a Croce, che offre l’occasione al giovane e orgoglioso critico di teorizzare il proprio lavoro.

Il critico piemontese si indirizza verso il decadentismo europeo che a Croce era indifferente. Anche per quanto concerne lo ‘storicimo’ Debenedetti si differenzia da Croce. Per quest’ultimo lo ‘storicismo’ è fondamentale, tanto da denominare il suo pensiero “storicismo assoluto” cui si è affidata in gran parte la cultura italiana. La filosofia di Croce è una storia pensata, Per il filosofo e critico abruzzese l’opera d’arte o letteraria che sia è pura intuizione e non scaturisce da criteri di verità. Per Debenedetti lo ‘storicismo’ è invece una sorta di forma psicologico-esistenziale.

In Debenedetti quindi, come si è già accennato, è la psicologia che vince la partita insieme alla sociologia, avvalendosi spesso delle teorie di Mills sul disagio dell’uomo contemporaneo. Anche la musica è un elemento di grande rilevanza nel percorso critico di Giacomo Debenedetti e in particolare la musica di Richard Wagner, alla quale il critico si affida per conferire alle parole maggior melodia, senza però escludere la musica italiana, o meglio il melodramma che è il corrispettivo del romanzo.

Benedetto Croce

C’è spazio anche per il cinema tra gli interessi di Giacomo Debenedetti il quale, dopo essersi trasferito a Roma, lavora all’Enciclopedia del Cinema e alla rivista “Cinema”, viene chiamato dalla Cines come riduttore di film stranieri, nel momento del passaggio dal muto al sonoro, per la Lux Film si occupa di Piccole Donne. Debenedetti, come ha notato il critico cinematografico Guido Aristarco, riconosce che “una tradizione critica e intelligente intorno al cinematografo, un gusto vero e proprio sull’arte cinematografica si vengono costituendo”. In effetti i saggi sul cinema del critico piemontese hanno aperto la strada a nuovi criteri di estetica, per non parlar poi del ruolo fondamentale del cinema in riferimento al personaggio-uomo, o meglio, all’antipersonaggio, basti pensare ai film di Bergman e di Antonioni.

Francesco De Sanctis

Ciò che interessa a Giacomo Debenedetti, quindi, è saper leggere la letteratura alla luce delle vicende culturali, credendo fermamente che la letteratura moderna si affidi prima di tutto al genere romanzo, che in Italia ha sempre costituito un problema, data la nostra tradizione.

L’aspetto più importante che emerge dalla critica  metaforica e rigorosa di Debenedetti, è quello di considerare il romanzo moderno una forma imprescindibile di conoscenza dei meccanismi e delle dinamiche esistenziali moderne. Cià ha conferito alla critica debenedettiana un importante successo: quante volte nel giudicare un’opera letteraria oggi non ci avvaliama di riferimenti alla musica, al cinema, alla sociologia e soprattutto alla psicologia?

Giacomo Debenedetti avrebbe potuto intraprendere una brillante carriera accademia conquistando una cattedra universitaria ma ha scelto la precaria strada del free lancer culturale, data la sua straordinaria versatilità e l’ ostilità degli ambienti universitari. Una figura culturale unica e affascinante, lontana dai pregiudizi e dalla saccenza di cui spesso soffrono molti intellettuali.

Mario Praz, l’anglista raffinato

(Roma, 6 settembre 1896 – Roma, 23 marzo 1982)

 

La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica

Figura di spicco tra gli studiosi delle letteratura inglese, Mario Praz  è stato anche traduttore, giornalista e critico d’arte.Elegante e raffinato Mario Praz non è considerato una figura di rilievo nella compagine culturale italiana, mentre, come spesso accade, in Inghilterra e negli Stati Uniti è stato ampliamente apprezzato.

Complice la figura estetica, alquanto particolare e a tratti inquietante, e la trattazione da parte del critico degli aspetti demoniaci della letteratura, Mario Praz si è portato dietro per tutta la vita la triste fama di “jettatore”, molti addirittura lo indicavano con gli appellativi di “Maligno” e “L’ innominabile”. In verità l’anglista non faceva nulla per smentire questa fama, anzi sosteneva che era molto producente per i suoi studi.

Nato in una  famiglia di origine svizzera,  il padre di Mario era un impiegato di banca mentre la madre era una contessa  discendente dalla famiglia dei Conti di Marsciano. Trascorre i primi anni in Svizzera, nel 1900 si trasferisce a Firenze dove frequenta il ginnasio-liceo “Galileo Galilei” e  successivamente facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, per poi trasferirsi, nel 1915 a Roma dove si laurea nel 1918 .Ma la vera passione di Praz è la letteratura ed infatti si laurea anche  in Lettere presso l’Istituto di Studi Superiori dell’Università di Firenze con una tesi su “La lingua di Gabriele D’Annunzio”. Lo stesso anno, grazie al British Institute, entra in contatto con l’ambiente artistico degli aristocratici inglesi di Firenze, e comincia ad interessarsi al saggio critico.Traduce poesie inglesi ottocentesche per Giovanni Papini e collabora con la rivista <<Cultura>>. Nel 1923 si trasferisce a Londra ed entra in contatto grazie all’amica scrittrice Vernon Lee con l’ambiente culturale dell’epoca, diviene lettore di italiano presso l’Università di Liverpool, in questo periodo escono anche le opere ” I poeti inglesi dell’Ottocento”,  “Studi sul concettismo”, “Storia della letteratura inglese”,”Secentismo e Marinismo in Inghilterra” e soprattutto “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, saggio  di critica tematica che sarà molto apprezzato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ma, tanto per cambiare, non in Italia dove impera la cultura crociana.

la casa – museo romana di Praz

Ed infatti la critica negativa di Croce non si fa attendere; l’amore, la morte, il concetto di bellezza, la ricorrenza dei personaggi satanici, il gusto per l’esotismo, la figura della donna fatale, il sadismo non sono certamente aspetti di particolare rilevanza secondo il critico abruzzese. Sono tematiche troppo appariscenti e gotiche quelle analizzate da Praz che tralascia la globalità; troppo superficiale quindi per Croce il suo  studio critico.

Ma l’analisi degli aspetti più perversi, bizzarri ed esagerati di un romanzo è da considerarsi davvero un approccio privo di metodo e non degna di rientrare nei validissimi studi letterari? In realtà Mario Praz ha dato un prezioso contributo per lo studio critico del decadentismo che nasce proprio dal romanticismo più esacerbato anche attraverso arguti parallelismi con l’arte ( come dimostra il saggio “Milton e Poussin”e “La filosofia dell’arredamento. I mutamenti del gusto dell’arte decorativa interna attraverso i secoli”).

Più in linea con il suo tempo risulta “La casa della vita”, storia della casa-museo dell’anglista, una vera e propria attrazione nella Roma moderna, nella quale si intrecciano artificio e verità, incanto e segreto.

Mario Praz

Curioso e sardonico, il comparatista e collezionista di antiquariato Mario Praz  ha creato la prima scuola di anglistica in Italia ed insegnato lingua e letteratura inglese presso La Sapienza di Roma; per chi volesse approfondire la conoscenza di questa figura letteraria anomala, consigliamo la lettura del volume che fa parte dei “Meridiani classici”, “Praz, bellezza e bizzarria”del 2002. Un critico del Novecento che ha rivolto la sua attenzione all’Ottocento romantico e alla letteratura degli emblemi, restituendo dignità al periodo neoclassico, condannato da molti critici, con il saggio “Gusto neoclassico” nel quale il critico romano evidenzia i pregi e le sfumature di quel periodo.

Mario Praz, uno studioso fuori dal coro che induce a chiederci: perché un critico del Novecento non si è occupato della crisi del personaggio-uomo, delle sue angoscie e turbe esistenziali prediligendo la letteratura dei secoli precedenti, in particolare quello romantico? La risposta è semplice: pura passione  anglosassone e desiderio intellettuale di presentare ed esaminare aspetti e tematiche particolari mai trattate o trattate superficialmente prima. Tuttavia il tema del “diavolo” è molto presente e caratterizza profondamente anche il Novecento come ha sostenuto  Thomas Mann.

Caratteristiche della critica contemporanea

La critica contemporanea si è orientata molto verso l’analisi filologica per comprendere il percorso storico-creativo dell’opera di cui i massimi rappresentanti sono: Salvatore Battaglia, Vittore Branca, Lanfranco Caretti, Dante Isella, Giorgio Petrocchi; e verso quella linguistica rinnovata da Saussure tramite il metodo e il concetto di lingua come sistema e da Jakobson tramite la funzione  poetica del linguaggio. Tuttavia non si può analizzare la critica contemporanea senza partire dagli elementi del pensiero di Benedetto Croce scaturiti nel Novecento per cui l’arte è autonoma ed è impossibile concepire la natura di un’opera al di fuori di essa, concetto che se da una parte ha eliminato i giudizi morali e modelli letterari fissi, avendo fortuna presso i post-crociani, dall’altra non ha costruito un metodo preciso.

Si avverte l’esigenza di una critica idealista per dare concretezza alle teorie crociane  che si incontrano con il marxismo per opera di Antonio Gramsci che rifiuta il concetto di autonomia dell’arte e  non distinguendo più tra teoria e prassi; e di Marx e Engels i quali concepiscono l’arte come una forma di ideologia.

Molta influenza ha poi la scuola del “formalismo russo” che vede tra i suoi massimi esponenti Vladimir Propp con la sua “Morfologia della fiaba”dove viene attuata per la prima volta la divisione tra fabula ed intreccio.

Durante il periodo staliniano nasce “il realismo socialista” di Zdanov che promuove i valori del comunismo ma contro i quali si scaglia il filosofo ungherese Luckàcs che rifacendosi allo storicismo romantico elabora il “realismo critico”

Alberto Asor Rosa invece sottolinea il carattere provinciale e piccolo-borghese della letteratura italiana tra Ottocento e Novecento: ma di certo nomi come Verga, Montale, Gadda non sfigurano affianco ai Kafka, Proust o Musil.

Particolare attenzione merita  la critica semiologica attuata da Eco, da Peirce e da Bachtin, da Segre contro lo strutturalismo formalistico per un’analisi delle varie forme dei codici letterari unita allo studio sociologico e antropologico.

Un discorso a parte merita il critico Giacomo Debenedetti che con il suo metodo/non metodo spaziando dalla psicoanalisi alla sociologia, dall’arte alla fisica, dall’antropologia alla musica e al cinema, rappresenta un caso molto particolare, da riscoprire nel panorama della critica letteraria.

 

 

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