Il realismo narrativo di Beppe Fenoglio, cantore della guerra civile

Lo scrittore piemontese Beppe Fenoglio ha narrato le rappresaglie, gli uomini e le brutture della sanguinosa guerra fratricida: una contrapposizione destinata a perpetuarsi eternamente cambiando per sempre il volto dell’Italia.

Beppe Fenoglio fu il cantore per eccellenza della resistenza, lo scrittore che più viene identificato con la guerra partigiana, l’autore che più di tutti scelse quel periodo della storia d’Italia come terreno unico delle sue opere, che alla fine diventò per lui quasi una fissazione ed una condanna. Se la Resistenza è il vero mito laico su cui si fondò la Repubblica italiana del Dopoguerra, religione secolare sulla quale incentrare miti, riti e liturgie dell’Italia postfascista, allora Fenoglio ne fu profeta. Tuttavia, basta leggere poche pagine e ci si rende conto che i suoi toni non hanno nulla a che vedere con la retorica resistenziale dell’ANPI, con i toni magniloquenti di certi cultori della resistenza o con quelli di chi vuole trasformare la guerra partigiana in una mitologia senza ombre.
Si legge Fenoglio e ci si imbatte in un resoconto spietato, crudo, della guerra in tutte le sue brutture, malignità e contraddizioni. Basta leggere alcuni dei racconti che poi furono pubblicati dall’Einaudi di Vittorini sotto il titolo “I ventitré giorni della città di Alba” e ci si imbatte in tutte le contraddizioni esiziali della resistenza: il rapporto altalenante tra membri delle varie bande, le divergenze politiche tra i vari partigiani, la conflittualità sotterranea ma sempre pronta a divampare tra badogliani, di cui Fenoglio fece parte, e rossi delle brigate Garibaldi, più cinici e spregiudicati, se è vero che, come scrisse sempre Fenoglio in “Una questione privata”, 

in mano loro un prigioniero non fa in tempo ad esser tale.

Nei racconti della raccolta succitata Fenoglio restituisce una guerra partigiana vera, autentica, fatta di momenti di grande slancio umano ma anche di rapporti obliqui e di scelte opache. La guerra non è raccontata in modo manicheo, assoluto; e per quanto il punto di vista di Fenoglio resti quello partigiano, i repubblichini, che pure erano nemici irriducibili, stavano in qualche modo nella categoria schmittiana del justus hostis, erano nemici ma l’ostilità nei loro confronti era solo politica, non si esacerbava in un razzismo quasi antropologico, come avvenne in alcuni frangenti della storia repubblicana successiva. È significativo anche che il titolo proposto da Fenoglio per la raccolta fosse “Racconti della guerra civile”, titolo che fu poi bocciato dall’Einaudi perché all’epoca parlare di guerra civile era ancora vietato. Lo scrittore esplora, con un realismo straordinario, tutti i momenti della guerra civile, che si traducono in storie dopo essere sedimentate nella sua memoria ed essere scorse molte e molte volte davanti ai suoi occhi. Nei suoi racconti si sente tutta l’immediatezza di chi quei volti, quelle sensazioni e quei momenti li ha vissuti in prima persona, li ha colti in presa diretta.

Fenoglio descrive in modo magistrale un episodio controverso che non doveva essere infrequente nella guerra. Un vecchio partigiano, in preda all’ubriacatura, aveva derubato in una casa di civili, peraltro simpatizzanti dei partigiani. Una volta scoperto il furto, i suoi compagni di brigata lo mettono a muro, lo uccidono come se fosse un repubblichino. Il racconto è condotto in modo invidiabile: il vecchio, ubriaco e pestato, si illude che quella dei suoi compagni sia tutta una pantomima per fargli prendere uno spavento, ed alla fine continua a ridere ed ad esortare gli altri affinché la smettessero con quel “teatro”, fino a quando non sente in lontananza che il partigiano più giovane gli sta scavando una tomba. Il tono da comico diventa grottesco, per poi chiudersi nel tragico.

Nei racconti della raccolta succitata Fenoglio restituisce una guerra partigiana vera, autentica, fatta di momenti di grande slancio umano ma anche di rapporti obliqui e di scelte opache. La guerra non è raccontata in modo manicheo, assoluto; e per quanto il punto di vista di Fenoglio resti quello partigiano, i repubblichini, che pure erano nemici irriducibili, stavano in qualche modo nella categoria schmittiana del justus hostis, erano nemici ma l’ostilità nei loro confronti era solo politica, non si esacerbava in un razzismo quasi antropologico, come avvenne in alcuni frangenti della storia repubblicana successiva. È significativo anche che il titolo proposto da Fenoglio per la raccolta fosse “Racconti della guerra civile”, titolo che fu poi bocciato dall’Einaudi perché all’epoca parlare di guerra civile era ancora vietato. Lo scrittore esplora, con un realismo straordinario, tutti i momenti della guerra civile, che si traducono in storie dopo essere sedimentate nella sua memoria ed essere scorse molte e molte volte davanti ai suoi occhi. Nei suoi racconti si sente tutta l’immediatezza di chi quei volti, quelle sensazioni e quei momenti li ha vissuti in prima persona, li ha colti in presa diretta.
Fenoglio descrive in modo magistrale un episodio controverso che non doveva essere infrequente nella guerra. Un vecchio partigiano, in preda all’ubriacatura, aveva derubato in una casa di civili, peraltro simpatizzanti dei partigiani. Una volta scoperto il furto, i suoi compagni di brigata lo mettono a muro, lo uccidono come se fosse un repubblichino. Il racconto è condotto in modo invidiabile: il vecchio, ubriaco e pestato, si illude che quella dei suoi compagni sia tutta una pantomima per fargli prendere uno spavento, ed alla fine continua a ridere ed ad esortare gli altri affinché la smettessero con quel “teatro”, fino a quando non sente in lontananza che il partigiano più giovane gli sta scavando una tomba. Il tono da comico diventa grottesco, per poi chiudersi nel tragico.

Ancora, in un altro racconto Fenoglio narra di un giovane appena ventenne arruolatosi con i partigiani per una sorta di irriflessa spavalderia giovanile. Una volta catturato dai fascisti ed in attesa d’esecuzione il giovane riflette con il suo compagno di cella, un garibaldino ormai rassegnato all’idea di morire, sul carattere superficiale della sua presa di coscienza; sulla vanità di quelle prese di posizione, in fondo congiunturali e passeggere, rispetto alla vita umana e sull’assurdità di morire per una causa che non sentiva sua, un ideale di libertà che ora gli appare più che mai effimero ed evanescente.
Non contiamoci balle, Lancia, che è peccato mortale contarcene al punto che siamo. Sei convinto che noi siamo stati fatti fessi e che non possiamo più farci furbi perché ci pigliano la pelle? Tu te la senti di morire per l’idea? Io no. E poi che idea? Se ti cerchi dentro, la trovi l’idea? Io no. E nemmeno tu.
E d’altra parte, anche “Una questione Privata”, uno dei capolavori di Fenoglio, non racconta di un ragazzo partigiano che perde di vista la lotta ai fascisti per indagare la verità su di una ragazza che amava e temeva l’avesse tradita con il suo migliore amico? Alla fine verrà ucciso dai fascisti, quasi senza avvedersene, proprio ricercando ingenuamente quella verità, privata ed intima, romantica e per molti versi infantile. Il sottotesto sembra essere: di fronte ad un amore, gli ideali astratti e spesso distanti per cui si combattono le guerre restano sullo sfondo, passano in secondo piano. Alla fine Fenoglio ci ricorda un po’ il soldato di Hemingway che in “Addio alle Armi” decide di fare una “pace separata”, per inseguire la sua infermiera, con buona pace del mondo, della storia, delle sue necessità e delle sue richieste di martirio.

Ora, non è che Fenoglio voglia sminuire i partigiani né la resistenza: i suoi racconti sono anche pieni di efferatezze fasciste e di gesti nobili tra partigiani, e certamente la causa partigiana era quella che Fenoglio sposò e a cui tenne fede tutta la vita. Però non ci sembra assurdo sostenere che, della guerra civile, Fenoglio più che profeta volle essere lucido ed implacabile testimone: non lo interessò tessere il mito della resistenza, infarcire i suoi racconti di retorica e di falso idealismo; ma volle tratteggiare i protagonisti di una lotta che aveva vissuto nella loro incipiente umanità, in modo fedele e veritiero, per dare un ricordo vivido di quella guerra, per rendere giustizia ai suoi caduti.

In Fenoglio a prevalere non è la costruzione di mitologie, il vago idealismo o la vacua retorica; ma è l’individuo, l’uomo concreto, irriducibile nella sua diversità ed unicità, con le sue grandezze e le sue miserie, che vive la storia, le sue chiamate ed i suoi ideali ora con convinzione ora con recalcitrante diffidenza. In questo senso, oltre alla grande onestà con cui Fenoglio racconta la guerra civile, che è il suo grande merito storico, stupisce ed ammalia l’efficace realismo e la fulgida immediatezza delle pagine, suoi grandissimi meriti letterari. Fenoglio, infatti, s’inserisce perfettamente in quel fenomeno di “ritorno al reale” che coinvolse tutti gli scrittori, italiani e non solo, di un Dopoguerra debitore dei grandi maestri americani, da Hemingway a Fitzgerald. Guardare all’America in quegli anni per l’Italia significava superare, pur tenendolo presente, il grande periodo primo novecentesco, il quale aveva costruito una letteratura tutta fondata sull’introspezione psicologica, sul flusso di coscienza di un io lirico monologante, sulla confessione diaristica, pensierosa e cervellotica. Significava veramente “riscoprire la realtà”, l’epica, le evidenze concrete che precedevano ogni razionalizzazione esasperata e con cui l’individuo, per quanto “inetto”, indisposto, svagato e nevrotico doveva fare i conti, piaccia o non piaccia, in modo pragmatico.

In Fenoglio quasi non ci sono sequenze propriamente riflessive, né invadenze da parte del narratore, e neppure digressioni psicologiche o filosofiche; eppure i personaggi sono delineati in modo perfetto, plastico, sembra di vederli. I suoi dialoghi ci ricordano un po’ quelli di Hemingway, mentre la sua capacità di restituire la franchezza popolare in modo così genuino ed autentico ci fa venire in mente qualcosa di Guareschi. Mettiamo in fila questi nomi e vediamo che furono tutti protagonisti a loro modo di guerre e carcerazioni, vissero la pena della trincea o del lager, e ci viene da pensare che questo realismo così fedele sia dato solo a coloro che hanno toccato con mano la guerra, questa “ciclopica imposizione di realtà”, come la definì Giuseppe Rensi, che conferisce, al momento di scrivere, quell’essenzialità asciutta e antiretorica che stupisce e lascia ammirati, specie in un periodo come quello di oggi in cui gli scrittori, avendo spesso poco da raccontare, specie in termini di azione, si rifugiano volentieri in fumose considerazioni filosofiche o in stucchevoli preziosismi barocchi.

Guareschi, come Fenoglio, raccontò un periodo di incendiarie conflittualità politiche, di frontali opposizioni e di brutali confronti. In alcuni dei primi racconti del Mondo Piccolo, ambientati tra il ’46 ed il ’48, c’è ancora l’aria pesante della guerra civile, che sta dando i suoi ultimi colpi di coda. Eppure, la grande caratteristica di Guareschi era squarciare il velo, congiunturale e tutto sommato fallace, delle contrapposizioni storiche per mostrare il filo di solidarietà umana che affratellava tutti, rossi e neri, preti e sindaci comunisti. Ora, non vogliamo dire che in Fenoglio ci sia nulla del genere: il conflitto armato, le rappresaglie, le reciproche infamie compromisero senza dubbio il rapporto tra partigiani e repubblichini, che fu certo meno roseo di quello tra Peppone e Don Camillo. Eppure, anche Fenoglio regala squarci di umanità: se costretti nel clima e nelle situazioni infami della guerra civile, si potrebbero davvero gettare le basi per quella memoria condivisa che è così indispensabile per avere un paese veramente unito, e non invece spaccato in questa eterna contrapposizione.

 

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/beppe-fenoglio-cantore-della-guerra-civile/

‘Il partigiano Johnny’, di Beppe Fenoglio: l’antiretorica della Resistenza

Tra i più importanti romanzi del Novecento non possiamo non annoverare il capolavoro di Beppe Fenoglio: Il partigiano Johnny, romanzo antiretorico sulla Resistenza italiana sia per il contenuto che per la forma. È possibile scorgere in esso una proiezione stessa dell’autore in quanto quasi tutte le vicende sono vissute in prima persona. Va tuttavia sottolineato che il romanzo è stato pubblicato postumo, in una versione che mescolava due stesure diverse, acefale e lacunose; inoltre lo stesso titolo va attribuito ai curatori della prima edizione Einaudi (1968).

Possiamo definire Il partigiano Johnny come il continuo del romanzo pubblicato da Garzanti nel 1959 Primavera in bellezza ( la prima stesura infatti inizia dal capitolo “decimosesto”) il cui protagonista è appunto Johnny, un giovane studente così soprannominato dagli amici per la sua passione per la letteratura inglese. Consigliato dai suoi stessi editori, tra cui Pietro Citati, Fenoglio conclude il romanzo con il ritorno nelle Langhe da parte del protagonista. Ne Il partigiano Johnny, dunque, la storia riprende dal momento in cui il giovane sottufficiale ritorna a casa prima di affrontare la Resistenza.

Dopo aver vissuto la monotona vita dell’imboscato, Johnny decide di lasciare la famiglia ed unirsi al primo gruppo di partigiani che incontra nelle langhe. Dopo le prime guerriglie, i partigiani commettono l’errore di fare prigioniero un ufficiale tedesco; la reazione è violenta e immediata con il conseguente sbandamento della formazione partigiana. Nella primavera del ’44 Johnny trova una formazione più consona ai suoi ideali, ma anche qui non mancano errori e ingenuità. Nell’ottobre dello stesso anno i fascisti della Legione Muti e delle brigate nere abbandonano Alba che prontamente è occupata dalle formazioni partigiane; ma il ragazzo sapeva bene che non sarebbero riusciti a tenere la città durante l’inverno rischiando di esporre la cittadinanza alle rappresaglie dei nazifascisti (cosa che poi accade). Johnny e i suoi compagni devono fuggire ancora una volta (le pagine che raccontano di questa fuga, con la descrizione delle colline, fino alle alpi liguri, sono forse le più intense del romanzo). Rifugiatosi insieme ai due amici Pierre ed Ettore in una casa di contadini, decidono di sbandarsi durante l’inverno per poter poi resistere al colpo finale in primavera. Il 31 gennaio 1945 Johnny partecipa al “reimbandamento” dei partigiani, ma ancora una volta sono costretti alla fuga, quest’ultima interrotta dall’arrivo del padre del nord, un combattente che li sprona ad agganciare la retroguardia. Inizia un conflitto a fuoco con i fascisti che avrebbe visto di lì a poco la morte dello stesso padre del nord. Nella seconda stesura del romanzo Fenoglio lascia intendere che Johnny trovi anch’egli la morte nel conflitto.

Johnny non viene visto come un eroe dal suo autore,non vi è niente di epico nelle sue gesta, egli è soltanto un uomo alla ricerca di una ragione, una verità. Fenoglio riesce a scavare molto più in profondità della superficie storica, arrivando ad analizzare tutta la condizione umana, ma con estrema semplicità e forse in questo risiede la grandezza del romanzo. Coinvolgente è il lessico dell’autore che compone ogni frase con ricercatezza; i periodi sono musicali, dal ritmo incalzante con frequente ricorso all’inglese oltre che a neologismi, laddove in italiano i versi sarebbero stati più aspri. Elementi che fanno de Il partigiano Jhonny un romanzo fuori dagli schemi, Fenoglio non celebra i partigiani comunisti ma percorre la strada dell’umanità, mettendo in risalto come il suo protagonista abbia bisogno di sentirsi umano non di gloria, di eroismo e di grandezza, per questa ragione il romanzo diventa un’esperienza umana universale: sono le nostre debolezze, le nostre sconfitte,i nostri dubbi, le nostre battaglie degne di essere raccontate, poiché ci conducono verso la libertà assumendo, una dimensione etica non ideologica.

Il romanzo è stato portato sul grande schermo nel 2000 dal regista Guido Chiesa.

 

 
 
 

 

 

 

 

Beppe Fenoglio, lo scrittore-partigiano

Beppe Fenoglio è sicuramente da annoverare tra gli scrittori italiani più monumentali e innovatori del Novecento. Scrittore-partigiano (come si è definito lui stesso), nonché traduttore e drammaturgo, Fenoglio nasce ad Alba nelle Langhe il 1°marzo 1922. Primogenito di tre figli, cresciuto in una famiglia di lavoratori (il padre è macellaio e la madre donna forte caratterialmente che ambisce per i figli una vita migliore della propria) impara l’italiano sui libri, perché la lingua madre è il piemontese di Alba, dialetto capace di raccontare la guerra, la Resistenza, la giovinezza, il territorio, l’amicizia e l’amore come nessuno. Con dignità, poesia, genio, smarrimento e civiltà. Nonostante le ristrettezze economiche, su consiglio del maestro elementare, Fenoglio frequenta il Liceo, diventando un alunno modello e appassionato soprattutto di inglese iniziando anche delle traduzioni (le prime di una lunga serie).

Nel 1940 si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino che frequenta fino al 1943 quando è richiamato alle armi prima a Cuneo e poi a Roma al corso di addestramento per allievi ufficiali.
Alla fine della guerra, Fenoglio riprende per un breve tempo gli studi universitari prima di decidere, con grande rammarico dei genitori, di dedicarsi interamente all’attività letteraria. Nel maggio del 1947, grazie alla sua ottima conoscenza della lingua inglese, viene assunto come corrispondente estero di una casa vinicola di Alba. Il lavoro, poco impegnativo, gli permette di contribuire alle spese della famiglia e di dedicarsi alla scrittura.

Nel 1949 compare il suo primo racconto intitolato “Il trucco”, firmato con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti. Nello stesso anno presenta a Einaudi i “Racconti della guerra civile” e “La paga del sabato” (quest’ultimo romanzo abbandonato per dedicarsi alla stesura di dodici racconti, alcuni già inclusi in “Racconti della guerra civile”. Nel 1952 esce nella collana Gettoni l’opera “I ventitrè giorni della città di Alba”; libro “asciutto ed esatto”, come lo definisce Italo Calvino; un resoconto lucido sia di vicende partigiane, sia di sentimenti, amori, tradimenti e famiglie sullo sfondo di una cultura contadina tanto cara a Fenoglio. Nel 1954 pubblica il romanzo breve “La malora” (una vita sancita dalla fatica del lavorare la terra, ma anche dal contegno e dalla dignità).
Nel 1960 si sposa con Luciana Bombardi e l’anno successivo ha anche una figlia, Margherita. In occasione del lieto evento Fenoglio scrive due brevi racconti: “La favola del nonno” e “Il bambino che rubò lo scudo”. Nel 1962 si trasferisce a Bossolasco, in seguito ad una grave forma di asma bronchiale ed emottisi, trascorrendo così il suo tempo tra lettura e amici. Aggravatesi le sue condizioni, la morte lo coglie il 18 febbraio 1963 dopo due giorni di coma.

Senza dubbio l’opera più conosciuta di Fenoglio rimane l’antieroico Il partigiano Johnny” ma dell’autore si parla sempre poco nonostante la sua straordinaria attualità.Perché? Probabilmente perché si pensa, erroneamente, di aver detto e scritto tutto su Fenoglio, come se fosse facilmente leggibile, imbrigliato nelle ideologie; la Resistenza di cui ha parlato tanto Fenoglio non è solo storica ma anche eterna come ha notato Zanzotto, una sorta di moralità della scrittura, una resistenza della scrittura. E in effetti Fenoglio scriveva con fatica: invenzioni linguistiche, le dinamiche sociale, l’amore per la propria terra,le dilatazioni di spazio e di tempo per rendere le vicende universali,la resa profonda della dimensione esistenziale, sono queste le principali caratteristiche delle opere dello scrittore piemontese, sbrigativamente etichettato come “neorealista”, per l’uso di espressioni dialettali e gergali e per la trattazione dell’ambiente contadino. Questa resistenza la si può chiaramente notare ne “La malora” dove il protagonista, a differenza del partigiano Johnny che alla fine crollerà, sembra avere davanti a sè uno spiraglio di luce, un barlume di speranza, poiché ha resistito.

Beppe Fenoglio scrivendo non agisce su un luogo ma in altri spazi che lo portano lontano dal luogo reale, portandoci a scoprire la vera essenza di esso e questo fa di lui uno scrittore certamente non di provincia, altro motivo per cui lo scrittore-partigiano andrebbe riletto senza implicazioni, o meglio,forzature ideologiche.

 

 

 

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