Beppe Salvia, poeta malinconico degli ossimori e delle contraddizioni

Nato a Potenza il 10 ottobre 1954, Beppe Salvia è stato fra i più autorevoli poeti della nuova scuola romana. Un rinnovamento dell’arte poetica fatta di contrasti, ossimori, malinconia e nichilismo, senza mai perdere l’eleganza.

Alla fine degli anni ’70  pubblica le prime poesie sulla rivista Nuovi Argomenti; successivamente, pubblica le sue opere su Prato Pagano, rivista diretta da Gabriella Sica e, qualche tempo più tardi, su Braci fondata dallo stesso Beppe Salvia con Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti e Marco Lodoli.

Beppe Salvia

 

Beppe Salvia appartiene alla poesia contemporanea e a quelle personalità letterarie dalle sfumature sfaccettate come opali: Salvia decide di togliersi la vita a soli trentun anni, il 6 aprile 1985. Marco Lodoli nell’articolo Morte di un giovane poeta pubblicato su Paese Sera, il 18 aprile 1985, afferma:

«Beppe Salvia è morto a Roma, a trent’anni, gettandosi dalla finestra di casa sua sabato 6 aprile, a via del Fontanile Arenato. Ho sempre avuto l’impressione che abitasse in quella via perché il nome gli piaceva. Un nome liricamente simbolico.»

Via del Fontanile Arenato è infatti uno zampillo di idee opalescenti, quelle di Beppe Salvia, arenate dalla troppa sensibilità, madre di una poesia lirica e tragica al contempo.

La poesia di Beppe Salvia, il realismo poetico fatto di opposti e fragilità

Un’affermazione che lega una negazione e produce una contraddizione. Questo  è lo schema poetico di Beppe Salvia, dove la negazione non è un atto di repellenza alla vita, bensì un’affermazione sulla crudeltà della vita stessa, incapace e illusoria. Salvia sottolinea la perfidia e la disumanità di un’esistenza che si alimenta di opposti e di contraddizioni: l’amore e l’odio, la presenza ingombrante del pensiero della donna amata che gli insegna ad amare con la sua assenza.

La visione della vita di Salvia è scabra, priva di orpelli, concreta. Lo stesso poeta è infatti esposto a un’esistenza a tutto tondo e in tutta la sua fragilità; ed è proprio questo esporsi al realismo della vita, questa empatia con la ruvidezza dell’esistere e questa delicatezza che fortifica tutto il resto. Il poeta è nudo di fronte a tutto ciò che la vita intende presentagli: non rifugge i dispiaceri, non aggira gli ostacoli, li affronta con le sue malinconie  e debolezze umane.

Così, la sua poesia, è sacra, ruvida, concreta, malinconica e oggettiva allo stesso tempo: Salvia non si arrende alla cruda verità della vita, pur avendola ormai assimilata e interiorizzata, ma cerca di coglierne le contraddizioni e le sfumature, con chiarezza espressiva ed erudizione. C’è un componimento che, probabilmente, è il manifesto dell’anima di Beppe Salvia, nonché, della sua poetica e del suo stile. I versi di seguito sono tratti da Cuore (cieli celesti), Rotundo, 1988:

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

Sono anni tumultuosi quelli in cui vive Salvia, anni in cui l’intuizione poetica si appresta a fungere da strumento per la ricerca della verità; eppure, appare evidente come i versi di Salvia, fossero anche un ricongiungimento totale alle idee pure, semplici, ai valori di un tempo. Un ritorno all’armonia letteraria,  alla contemplazione della normalità della vita.

Analisi della poesia

Questo è, senza dubbio, un componimento in cui confluiscono numerose sensazioni contrastanti: uno scrittura quasi febbrile, nonostante citi circostanze consuete come il dolore, gli amici, le lacrime, situazioni tipicamente umane. Successivamente, un verso che quasi rompe l’iniziale malinconia per dar spazio a un’emozione aggressiva, negativa: Salvia scrive di non aver più pazienza, ma menziona anche il verbo odiare: imparare a odiare, forse, per sopravvivere?

Eppure, i due versi finali sono rivelatori: ‘’Anche a odiare ho dovuto imparare / e dagli amici e da te e dalla vita intera”. Persino una personalità così sensibile e fragile come quella di Salvia, ha introiettato automaticamente dagli eventi della vita, un’emozione così spiacevole come l’odio.

Traspare quasi un risentimento poetico e intimo in Salvia: un’impazienza scaturita da una poesia che si slega dalla sua purezza antica , per piegarsi a ideologie di potere che, quasi, la sporcano nel suo candore.

Le aspirazioni di Salvia confluiscono tutte in un auspicio che brama un’armonia universale ma che, tuttavia, non riscontrano mai un’ effettiva serenità.  Poeti dilaniati da tensioni culturali, tormenti e inquietudini, così come la loro poesia; ma anche da sofferenze personali e dolorose, come nel caso dello stesso poeta lucano che morì suicida.

La poesia di Salvia è una lirica tragica e struggente perché rivela una grande verità, valida per tutti gli uomini: l’uomo è tutto quello che è grazie agli altri, e tuttavia, diventa ciò che è senza l’altro.

 

Una poetica volta alla tensione tragica

 

‘’Ho offeso con la mia stupidità

la legge della vita, l’infinita innocenza

della sua crudeltà. Adesso ho un cuore

nobile ma la mia carne è pietra. ‘’

 La poetica di Salvia è contaminata da un’inebriante tensione tragica che procede per conferme e smentite: l’euforia iniziale delle sue poesie lascia sempre il posto a un principio di realtà che afferma tutto il contrario di ciò che, in precedenza, esplica.

La stupidità di cui parla il poeta è, probabilmente, l’ingenuità di ergersi al di sopra delle leggi della vita, quasi di riuscire a controllarle; amara illusione smentita dal verso successivo in cui Salvia non è arrabbiato con le procedure vitali, ed ecco l’ossimoro: la vita ha un’innocenza sconfinata nella sue estrema crudeltà, tanto da averlo trasformato in un animo puro per aver appreso questo tacito segreto, ma in un corpo marmoreo per parare e sconfiggere le sofferenze che il vivere gli presenta. Per Beppe Salvia non si può fuggire dalle cose del mondo:

M’innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch’io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.

Una poesia che sembra quasi la fotografia dell’anima del poeta: Salvia ha finalmente trovato il suo posto nel mondo, un margine claudicante, un confine a cui, ogni uomo, deve sottostare.

Ma questa idilliaca stabilità è spaccata dalla nostalgia pungente delle cose impossibili: Salvia è un nubìvago che preferisce le sue chimere a una realtà imposta. Uno scandire ritmico che procede, nel suo lirismo, realismo e tragicità, quasi a ritroso: nella poesia come, nella vita.

 

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