Il divieto di ridere: modi e significati di una risata

Ridere, una delle reazioni nervose più comuni e più frequenti della nostra vita che indica una sensazione di intensa allegria, felicità, gioia, piacere ma anche tristezza e rabbia e non sempre costituisce un’esperienza piacevole, anzi a volte  è associata a diversi fenomeni negativi. L’eccessivo ridere infatti può portare a cataplessia e ad imbarazzanti attacchi di risa, oltre che a colpi ricorrenti di sghignazzate, sintomi di una preoccupante condizione neurologica.

La letteratura ha prestato molta attenzione e studio alla risata, sin dall’antica Grecia con Erodoto, per il quale la risata ha una funziona svelatrice della personalità e carattere di una persona, per poi proseguire con Hobbes, secondo il quale la passione della risata non è altro che la gloria improvvisa derivante dal concepimento di una qualche eminenza in noi stessi, in confronto con l’infermità di altri, o con la nostra precedente. Per Nietzsche la risata puà avere uno scopo sia positivo che negativo, il primo si esplica quando “l’uomo utilizza il comico come terapia contro la veste restrittiva della moralità logica e della ragione”, il secondo quando è utilizzata per esprimere un conflitto sociale. Va più a fondo Bergson con il suo trattato Il riso. Saggio sul significato del comico, con il quale spiega come la risata emerga dall’ incontro tra intuizione e ragione.

Insomma quello della risata è un vero è proprio universo a sé da esplorare con i suoi tanti modi e significati. Già, i significati, cosa si nasconde dietro una risata? Cosa vogliamo comunicare? Cosa percepiscono gli altri di noi? Per il vicepremier islamico Bulent Arinc, braccio destro del premier Erdogan è un atto seducente e quindi peccaminoso in pubblico. Ma ciò vale solo per le donne a quanto pare, alle quali è stato ed è vietato di ridere pubblicamente poiché, citando le parole di Arinc in piena campagna elettorale,“La donna saprà quello che è peccaminoso e quello che non lo è. Non riderà in pubblico. Non sarà seducente nel suo comportamento e proteggerà la sua castità”. La reazione delle donne turche non si è fatta attendere e hanno pubblicato sui social foto  che le vede sorridenti.  Il riso rivoluzionario. Su Twitter con l’hashtag #kahkaha (scoppiare a ridere) sono moltissime le foto di donne che ridono sguaiatamente; risate che sanno di sfida e di derisione nei confronti del vice ministro.

Ridere quindi è immorale in Turchia, come in altri paesi come L‘Arabia Saudita così come baciarsi, mostrarsi incinte, baciarsi in pubblico, usare Internet. Alle donne è proibito perché darebbero di sé un’immagine non casta e sfrontata. Agli uomini no. In realtà se dovessimo rivolgere la nostra attenzione alla risata in sé e questa appare come uno sghignazzamento fastidioso allora dovrebbe essere accuratamente evitata o quantomeno controllata sia da uomini che da donne, e chiederemmo al vice premier cosa ci troverebbe di sensuale e di seducente in una simile risata. Ma naturalmente il nodo della questione è un altro, e considerare una donna che ride in pubblico come una poco di buono, una spietata tentatrice è semplicemente ridicolo. Probabilmente Arinc si accende con poco è valuta una sana e gioiosa risata come un modo per attrarre a sé gli uomini e in verità non gli si può fare una colpa se preferisce  o vorrebbe che le donne fossero più riservate, arrossissero mentre le si guarda o le si parla, e in fondo anche questo a volte è un modo di sedurre, di affascinare, forse anche più di una fisicità, aggressività, sensualità esibita; ma è inaccettabile che si voglia avere il controllo sulle donne usando in maniera distorta la religione alla quale l’uomo- padrone si aggrappa per giustificare certi  suoi comportamenti. Ed ecco il reale nodo della questione: dietro una risata femminile c’è la paura del maschio di perdere il suo ruolo di dominatore e padrone; la donna che ride in questi Paesi fa paura perché è segno di emancipazione e di libertà, anche sessuale. E la religione è un valido strumento per esercitare il potere e incutere paura nella gente.

Ma, con le dovute proporzioni, non c’è nemmeno bisogno di guardare alla Turchia, che la donna ridente sia vista in malo modo lo dimostrano un paio di detti nostrani, femmina cha rridi non ci avere fidi, ovvero non ti fidare delle donne che ridono troppo, e donna ridanciana mesa putana , rispettivamente detto siciliano e padano. L’ipocrisia, il pregiudizio, l’ignoranza, la superficialità, i vecchi retaggi culturali, sentenziare in base all’apparenza, al modo di vestire e di parlare: sono questi, prima di tutti, i nemici da abbattere. Ma attenzione che da un estremo all’altro il passo è breve e pericoloso, come dimostra ampiamente la società che viviamo ogni giorno.

Al vicepremier turco consigliamo di leggere Il nome della rosa di Eco e Ridere è una cosa seria di Donata Francescato, e di fare sua la massima di Marziale, Se sei saggio, ridi.

 

<<Il riso è il salto del possibile nell’impossibile>>.
Georges Bataille, Mia madre, 1966.

Giuseppe Ungaretti: rinnovatore ermetico

Nato ad Alessandria d’Egitto, nel quartiere periferico di Moharrem Bey, da genitori lucchesi l’8 febbraio 1888, il poeta dell’ “essenziale”, Giuseppe Ungaretti, trascorre lì l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza.

Il porto sepolto

Il padre Antonio, emigrato in Egitto come sterratore al canale di Suez, muore per una malattia contratta nel suo massacrante lavoro quando il figlio Giuseppe aveva solo due anni. Allattato da una nutrice sudanese, alla quale poi il poeta farà cenno in una delle sue poesie, “Le suppliche” (poi “Nebbia”), soffrirà in seguito di una grave forma di tracoma agli occhi costringendolo al buio per mesi.

Importante fu il ruolo svolto dalla madre Maria Lunardini nella formazione di Ungaretti che, nonostante le preoccupazioni legate alla necessità di crescere da sola i figli, riuscì a mandare avanti la gestione di un forno di proprietà con il quale garantì gli studi al figlio, che si potè così iscrivere in una delle più prestigiose scuole di Alessandria, la Svizzera École Suisse Jacot.

Gli anni egiziani sono segnati dall’amicizia fraterna con Moammed Sceab (che morirà suicida a Parigi e a cui saranno dedicati nel 1916 i versi d’apertura del “Porto Sepolto”). Con l’amico condivide la lettura del “Mercure de France”, prestigioso organo di diffusione della letteratura simbolista e decadente.

Sono questi gli anni in cui il giovane Giuseppe Ungaretti si avvicina alla letteratura francese e, grazie all’abbonamento a “La Voce”, alla letteratura italiana. Ha anche uno scambio di lettere con Giuseppe Prezzolini e successivamente inizia la frequentazione di Enrico Pea con il quale condivide l’esperienza della “Baracca Rossa”, un deposito di marmi e legname dipinto di rosso che diverrà sede di incontri per anarchici e socialisti.

Nel 1909 si trasferisce a Il Cairo dove s’impiega come curatore della corrispondenza francese negli uffici di un importatore di merci dall’Europa, ma dopo una serie di investimenti sbagliati, si sposta nuovamente e questa volta a Parigi, dove poi svolse gli studi universitari.

Venuto a contatto con un ambiente artistico internazionale, stringe amicizia con G. Apollinaire, ma anche con Giovanni Papini, Ardengo Soffici e Aldo Palazzeschi, con i quali inizia la collaborazione a “Lacerba”. Ma solo dopo qualche pubblicazione, decide di partire volontario per la Grande Guerra.

Quando nel 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale, Ungaretti partecipa alla campagna interventista, per poi arruolarsi volontario nel 19° reggimento di fanteria;  combatte sul Carso dopo l’entrata in guerra dell’Italia ed in seguito a questa esperienza scrive le poesie che, raccolte dall’amico Ettore Serra (giovane ufficiale), verranno stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine nel 1916 col titolo di “Il Porto Sepolto”.

Stabilitosi a Parigi alla fine del conflitto, Giuseppe Ungaretti riceve da Mussolini l’incarico di corrispondente dalla Francia per il quotidiano “Il Popolo d’Italia”. Alla fine del 1919 appare “Allegria di Naufragi”, nel quale confluiscono le poesie del “Porto Sepolto”, il volumetto “La guerra” e altre liriche pubblicate su varie riviste italiane e francesi.

Gli anni ’20 segnano un cambiamento nella vita privata e culturale del poeta; si trasferisce a Marino (Roma), sposa Jeanne Dupoix, dalla quale ha due figli, e successivamente aderisce al fascismo firmando nel 1925 “Il Manifesto degli intellettuali fascisti”.

Nel 1936, durante un viaggio in Argentina, gli viene  offerta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo del Brasile, che Ungaretti accetta; trasferitosi con tutta la famiglia, vi rimarrà fino al 1942.

In quello stesso anno ritorna in Italia dove venne nominato “Accademico d’Italia” e per chiara fama, professore di letteratura moderna e contemporanea presso l’Università di Roma.

In Italia raggiunge una certa notorietà e il 4 giugno 1970 si svolge il suo funerale a Roma, ma non vi partecipa alcuna rappresentanza ufficiale del governo italiano.

Allegria dei naufragi

“L’Allegria “segna un momento chiave della storia della letteratura italiana:  Giuseppe Ungaretti rielabora in modo molto originale il messaggio formale dei simbolisti (in particolare i versi spezzati e senza punteggiatura dei “Calligrammes” di Apollinaire, oltre all’uso delle cosiddette “mots-outils”, parole utensili che, collocate in posizione isolata aumentano la frantumazione metrica intensificando così i silenzi, in attesa di rivelazioni) coniugandolo con l’esperienza atroce del male e della morte nella guerra.

Al desiderio di fraternità nel dolore si associerà la volontà di cercare una nuova armonia con il cosmo, culminando nella poesia “Mattina” (1917):

“M’illumino d’immenso”.

 

o in “Soldati”:

“Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”

 

Ungaretti durante il servizio militare

Questo spirito mistico-religioso, si evolverà nella conversione di “Sentimento del Tempo”raccolta caratterizzata da una complessità retorica , ritorno al classicismo, nonchè al Barocco come sentimento di decadenza di eterno, di caducità; e nelle opere successive, dove l’attenzione stilistica al valore della parola, indica nei versi poetici l’unica possibilità dell’uomo, o una delle poche possibili, per salvarsi dall’ “universale naufragio”.

Sicuramente il momento più drammatico del cammino di Giuseppe Ungaretti, è raccontato ne “Il Dolore”: la morte in Brasile, la cui natura è percepita come ostile e matrigna dal poeta, sulla scia di Leopardi, del figlioletto segnerà definitivamente il pianto dentro del poeta anche nelle raccolte successive ;struggente e drammatica a tal proposito la lirica “Gridasti: soffoco”:

 

“Non potevi dormire, non dormivi…

Gridasti: Soffoco…

Nel viso tuo scomparso già nel teschio,

Gli occhi, che erano ancora luminosi

Solo un attimo fa,

Gli occhi si dilatarono… Si persero…

Sempre era stato timido,

Ribelle, torbido; ma puro, libero,

Felice rinascevo nel tuo sguardo…

Poi la bocca, la bocca

Che una volta pareva, lungo i giorni,

Lampo di grazia e gioia,

La bocca si contorse in lotta muta…

Un bimbo è morto…

 

 

Nove anni, chiuso cerchio,

Nove anni cui nè giorni, nè minuti

Mai più s’aggregeranno:

In essi s’alimenta

L’unico fuoco della mia speranza.

Posso cercarti, posso ritrovarti,

Posso andare, continuamente vado

A rivederti crescere

Da un punto all’altro

Dei tuoi nove anni.

Io di continuo posso,

Distintamente posso

Sentirti le mani nelle mie mani:

Le mani tue di pargolo

Che afferrano le mie senza conoscerle;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che si fanno sensibili,

Sempre più consapevoli

Abbandonandosi nelle mie mani;

Le tue mani che diventano secche

E, sole – pallidissime –

Sole nell’ombra sostano…

La settimana scorsa eri fiorente…

 

 

Ti vado a prendere il vestito a casa,

Poi nella cassa ti verranno a chiudere

Per sempre. No, per sempre

Sei animo della mia anima, e la liberi.

 

Ora meglio la liberi

Che non sapesse il tuo sorriso vivo:

Provala ancora, accrescile la forza,

Se vuoi – sino a te, caro! – che m’innalzi

Dove il vivere è calma, è senza morte.

 

 

Sconto, sopravvivendoti, l’orrore

Degli anni che t’usurpo,

E che ai tuoi anni aggiungo,

Demente di rimorso,

Come se, ancora tra di noi mortale,

Tu continuassi a crescere;

Ma cresce solo, vuota,

La mia vecchiaia odiosa…”

 

 

Come ora, era di notte,

E mi davi la mano, fine mano…

Spaventato tra me e me m’ascoltavo:

E’ troppo azzurro questo cielo australe,

Troppi astri lo gremiscono,

Troppi e, per noi, non uno familiare…

 

 

(Cielo sordo, che scende senza un soffio,

Sordo che udrò continuamente opprimere

Mani tese a scansarlo…)

A riconoscere in Giuseppe Ungaretti il poeta che per primo era riuscito a rinnovare formalmente e profondamente il verso della tradizione italiana, furono soprattutto i poeti dell’ermetismo che, all’indomani della pubblicazione del “Sentimento del tempo”, salutarono  il sensibile autore quale  maestro e precursore della propria scuola poetica, iniziatore della poesia “pura”, della  sacralità, del miracolo, del mistero, della parola, da recuperare insieme ad  un mondo primitivo, segreto ed innocente, attraverso la memoria (secondo le teorie di Bergson e Platone). Da allora la poesia ungarettiana ha conosciuto una fortuna ininterrotta. A lui, assieme a Umberto Saba e Eugenio Montale, hanno guardato come un imprescindibile punto di partenza molti poeti del secondo Novecento.

Il portale-rivista ‘900 letterario

Perché dedicare un sito di letteratura proprio al secolo del Novecento? Si potrebbe pensare alla vicinanza temporale, quindi,  ad un maggiore riconoscimento e conoscenza di questo periodo in quanto pone l’accento  sulla crisi esistenziale dell’uomo, ma sarebbe riduttivo. Specialmente il romanzo del Novecento rappresenta un genere totalmente nuovo, dove la parola d’ordine è sperimentazione atta a rappresentare al meglio la scissione, i tormenti, la sensibilità e le inquietudini dell’uomo moderno attraverso i vari personaggi-uomo dei romanzi che si definiscono in base alla loro mutevolezza, ai loro pensieri e sensazioni. E qui entra in gioco anche un altro importantissimo elemento, il tempo: i fatti non sono più raccontati secondo il loro ordine cronologico ma secondo il cosiddetto “flusso di coscienza” come direbbe James Joyce, ovvero quando si alternano continuamente presente e passato, ricordi, pensieri (secondo il francese Butor“il romanzo è una risposta ad una certa situazione della coscienza”). Nasce “Il tempo interiore”, “il monologo interiore”  tanto ambiguo e misterioso che coinvolge non solo i personaggi del romanzo ma la Storia stessa che si interseca con quella personale; è il tempo teorizzato dal filosofo Henry Bergson, dove gli istanti si dilatano o restringono a seconda della volontà del soggetto. Lo spazio non è più autonomo, la ragione del suo esistere è in funzione del personaggio che lo guarda, quindi anche dell’io-narrante che adotta la restrizione di campo: il lettore conosce i fatti solo attraverso le percezioni dei protagonisti.

Non si può prescindere naturalmente da un’analisi storico-culturale che da sempre ha influito sulla produzione letteraria, nel Novecento si raggiunge una maggiore consapevolezza dei limiti della scienza, e si fa molto affidamento alla psicologia, all’esplorazione della propria identità e la loro crisi, non a caso la maggior parte dei romanzi sono scritti in forma autobiografica, si pensi a Svevo, Pirandello, Mann, Kafka, Proust.

In questo senso, avendo parlato di sperimentazione, il Novecento è un secolo affascinante perché rischia di più, mette in discussione la tradizione e la parola per poi recuperarla, perché è sempre da li che si parte per innovare; per conferire alla letteratura una efficace valenza conoscitiva utilizzando il montaggio di un insieme di unità a scapito dell’azione che invece era fondamentale del romanzo dell’Ottocento.

I temi, già accennati, di questo secolo ci sono ben noti: l’inspiegabilità del male, il senso dell’assurdo e quello di colpa,lo smarrimento, acuiti dall’esperienza della guerra e che gli scrittori di questo periodo tentano di rendere universali come Italo Calvino. Le guerre e questi sentimenti ci sono sempre stati, spesso erroneamente, si crede che la letteratura muta perché mutano gli eventi  e le sensazioni ma in realtà cambia il modo di prendere coscienza di tali eventi e sentimenti, cambia il modo di rappresentarli, nel Novecento vi si imprime un afflato collettivo e un piglio sociale, impegnato, basta citare alcuni  intellettuali della prima metà del Novecento come Albert Camus, George Orwell, Ignazio Silone, Elio Vittorini. Negli anni Cinquanta si fa largo l’esigenza di evadere, di scappare dai vicoli del realismo verso una deformazione visionaria, ci riescono benissimo Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini. Negli anni Settanta prende forma la letteratura come strumento di indagine e di analisi critica, volta alla ricerca di un nuovo metodo; diventa poi una forma di spettacolo alla fine degli anni Settanta con George Perec ed Umberto Eco per una ridefinizione del racconto abbracciando la filosofia e la ricostruzione storica.

Si giunge al postmodernismo, di cui il maggior esponente è l’argentino Borges con le sue parodie e giochi tecnici per fare delle letteratura, ancora una volta, uno strumento conoscitivo; al modernismo di Pessoa e a scrittori internazionali che sono l’emblema del passaggio da una cultura all’altra come il praghese Kundera, francesizzato e il russo Nabokov, divenuto americano.

Di grande glamour risultano anche i romanzi gialli, molto popolari nelle loro diverse accezioni, dal thriller al noir, dal poliziesco al serial killer. Leonardo Sciascia che si è cimentato nel giallo, sull’esempio di Borges , disse che questo genere  non è altro che “l’avventura della ragione alla ricerca della verità”.

‘900 letterario non è solo una rivista, ma anche un portale che invita i propri visitatori alla scoperta e alla riscoperta dei romanzi più significativi ed importanti del Novecento, i cui protagonisti sono cosi intriganti perché sfuggono dalle mani dei loro autori, esteticamente sono anche poco piacenti (Federigo Tozzi infligge ai suoi personaggi la bruttezza fisica) come ha giustamente notato il grande critico Giacomo Debenedetti che non esita a definire il romanzo novecentesco con la suggestiva espressione rubata a Proust “una grande intermittenza di un succedersi di intermittenze” ovvero momenti privilegiati che rimandano a cose passate. Ma non solo; il portale oltre ad occuparsi delle recensioni dei romanzi più belli e significativi del Novecento, dedica delle sezioni a giovani scrittori emergenti e non, dando spazio anche agli autori più contemporanei di maggior successo nelle categorie “Autori emergenti”, ai “Best seller”,  agli “Eventi letterari” come il Salone del libro e ai vari Premi istituiti con i relativi vincitori oltre alla “Poesia”e alla “Classifica” dei libri più letti.” Vi è poi uno spazio riservato alla riflessione sulle sorti della critica letteraria e quindi anche della letteratura stessa: “Critica” e uno spazio dedicato agli approfondimenti, a tematiche e ad aspetti più specifici: “Focus”. Vi sono inoltre due rubriche dedicate al cinema, alla politica, all’attualità e alla musica.

Il romanzo del Novecento e solo questo genere di narrativa in prosa, ha disoccultato la realtà, ha portato alla luce il conflitto tra IO-ES e SUPER IO per dirla alla Freud, relazionandosi con le  grandi discipline del nostro tempo: sociologia, antropologia, psicoanalisi, arte che a loro volta offrono una valida chiave di lettura per la letteratura.

BUONA NAVIGAZIONE.

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