Addio a Bernardo Bertolucci, apostolo retorico ed autarchico della Nouvelle Vague

Non è mai esistito un regista capace di riprodurre la profondità della vita e ripristinare la verità della Storia perché il cinema è l’arte suprema dell’inganno e della finzione, ma certo Bernardo Bertolucci è stato tra i pochissimi che ci sono andati vicini, rappresentando sul grande schermo veri e propri apologhi reazionari intrisi di retorica e provocazione. E’ l’ora di rassegnarsi a una scomparsa che offusca lo sguardo, interrompe il flusso doloroso e insieme esaltante di un’autobiografia generazionale e rende più fragile la resistenza all’egemonia delle perniciose concezioni redentoristiche dell’arte, ma soprattutto è l’ora d’intraprendere una nuova, lunga e aspra battaglia contro chiunque sfodererà gli artigli per tramandare un identikit di comodo, il flash sbiadito di un artista impegnato come se ne vendono a bizzeffe al mercatino dell’usato ideologico.

Non possiamo né vogliamo tirarci indietro: “Ultimo tango a Parigi”, uno dei film-faro della storia del cinema mondiale, uno shock che ha stravolto la percezione dell’eros “fondativo” della natura umana più in profondità dei saggi di Marcuse e rovesciato la coazione a ripetere dei sessantottini fuggiaschi dall’involuzione liberticida degli ideali della sinistra, se fosse uscito in questi mesi sarebbe mandato al rogo dalle vestali del #MeToo piuttosto che da magistrati allora ritenuti per definizione fascisti. Intendiamoci, all’epoca l’attacco a un film così intriso di romanticismo decadente, orgasmico, irriscattabile, fu bipartisan: «I pornofilm piacciono ai nevrotici e agli immaturi», argomentava su “Gente” Cesare Musatti, “Epoca” scriveva di «ragazze involgarite dalla libertà sessuale», Goffredo Fofi gli preferiva la parodia di Franchi e Ingrassia “Ultimo tango a Zagarolo”, mentre “il Borghese” usava espressioni da trivio per ascrivere al libertinismo comunista la sconcezza della scena di sodomia intorno alla quale ancora oggi ruotano polemiche, innescate dalla stessa Maria Schneider, su cui ha ricamato anche il regista, alcune ipocrite, altre giustificate in virtù del fatto che non si può sopprimere il senso morale, il tatto, che mancò a Bertolucci e a Brando, in nome dell’Arte e del rispetto della regola della verosimiglianza della scena.

Inoltre seppure consideriamo il primo atto di “Novecento” un ingranaggio stridente ma indispensabile per comprendere l’acme della lotta disperata del giovane Bernardo contro i propri nodi edipici e le relative contraddizioni di classe, è impossibile non ribellarsi all’indulgenza riservata alla catastrofica seconda parte, in cui il dissidio tra gli imperativi del “realismo socialista” imposti dall’auto-coercizione psicanalitica e la fascinazione prepotente di matrice hollywoodiana inabissa la messinscena in un delirio melò più retorico e populista che brechtiano o maoista.

Del resto non si era mai vista e sarà difficile vedere nuovamente all’opera una personalità altrettanto esposta alle mareggiate della libertà dell’ispirazione: nutrito dalla raffinata poesia paterna, devoto al moloch verdiano, apostolo autarchico della Nouvelle Vague, intellettuale poliglotta non privo di tratti dandystici, l’autore più carismatico della generazione di cineasti affermatasi all’alba dei Sessanta tramanda una filmografia ridotta –meno di venti lungometraggi in quasi cinquant’anni di carriera- eppure svariante e complessa come non lo sono state neppure quelle dei padri nobili del dopoguerra.

Il diligente calco pasoliniano di “La commare secca” fu seguito, infatti, da un film tanto tormentato quanto indifeso come “Prima della rivoluzione” che, proprio a causa dell’overdose dei dilemmi politici che fanno corona alla rievocazione del ritorno in famiglia di un giovane borghese parmense, subì lapidazioni sommarie nei cineclub frequentati dal movimento studentesco. Del resto l’estrema sensibilità, accompagnata dall’inconfondibile tonalità di voce melodiosa e arrotata, produce a sorpresa in Bertolucci una fortificazione a suo modo provocatoria: il sofisticato intreccio dostoevskiano di “Partner” (1968), per esempio, non si sposa certo con gli umori dominanti nella classe intellettuale dell’anno di uscita. Tanto è vero che l’ingresso nella decade che frantumerà progressivamente quegli slanci palingenetici –peraltro in seguito recuperati in forma di culto pagano della giovinezza nel penultimo titolo “The Dreamers”– è segnato dal successo non più di nicchia di “Il conformista”, uno dei suoi capolavori che traduce il romanzo di Moravia in un elegante, corrusco e spietato trattato sulle pulsioni erotiche represse destinate a insediarsi nel tessuto molle della “normalità” borghese sottomessa al fascismo.

“Ultimo tango” , in verità diretto da Marlon Brando che mal sopportava il giovane regista italiano, che non merita il consumistico marchio di film scandalo degli anni Settanta ma, al contrario, rappresenta l’alternativa alla tentazione delle brutalità “rivoluzionarie” contenutistiche, esalta il conflitto tra eros e thanatos come il cinema in fondo è sempre votato a fare rendendovi ancora oggi palese il corpo-a-corpo –nel senso stretto dell’espressione- tra le teorizzazioni di Freud e Bataille che incombono nell’autocoscienza del trentaduenne kamikaze della cinepresa e la selvaggia spinta dei sensi che dilaga nella plasticità degli amplessi tra Brando e la Schneider, le pastose luci di Storaro e i singulti devastanti della colonna sonora di Gato Barbieri. Disorientati da “Novecento”, “La luna” e “La tragedia di un uomo ridicolo”, a metà degli Ottanta anche gli adepti più malmostosi e pedanti stavano peraltro per inebriarsi al cospetto delle oscarizzate magnificenze di “L’ultimo imperatore” e “Il tè nel deserto”, antidoto definitivo alla volgare equazione dell’Arte inconciliabile col “commercio”. Eppure, se c’è una sequenza che oggi spezza il cuore per la l’assenza di Bertolucci è quella di Liv Tyler che canta a squarciagola “Rock Star” di Courtney Love nel piccolo, meraviglioso racconto di formazione “Io ballo da sola”.

 

Fonte:

In morte di Bertolucci

“Poltrone Rosse. Parma e il cinema”, di F. Barilli

“Parma potrebbe essere definita anche capitale del cinema”. Questa la fiduciosa affermazione che chiude il documentario “Poltrone Rosse. Parma e il Cinema” del regista Francesco Barilli (scrittore nel film drammatico di Giuseppe Patroni Griffi La gabbia), scritto in collaborazione con Michele Guerra, docente di Storia del Cinema dell’Università di Parma e presentato alla 71° edizione della Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia.

Questo documentario racconta di Parma e non solo descrivendone il suo rapporto con il cinema, così come suggerisce il sottotitolo, ma scavandone le profondità culturali. Come un puzzle che si compone pian piano che le storie vengono raccontante, il documentario si apre e si chiude seguendo la progressione cronologica. Si descrive la storia del cinema di Parma, dall’arrivo della prima pellicola fino ai giorni nostri, attraverso una narrazione che si sviluppa come fosse una lezione universitaria, ma arricchita da numerosi contributi importanti, tra i quali quelli di Bernardo Bertolucci, Franco Nero, Tonino Guerra, Stefania Sandrelli per citare i più conosciuti in ambito nazionale, che si integrano perfettamente con i racconti dei protagonisti  della realtà cinematografica cittadina. Protagonista, oltre che l’iconografia suggestiva del Ducato e dei suoi castelli, è la figura di Bernardo Bertolucci, che con commozione racconta, non solo la sua esperienza cinematografica, ma soprattutto le vicende che lo hanno portato ad amare la settima arte, conosciuta grazie alla passione trasmessa dal padre Attilio e il contributo che la città ha saputo dargli. Il tono non sfocia mai nell’autocelebrazione ma rispecchia l’entusiasmo di chi ha vissuto il periodo florido di Parma, in campo cinematografico, tra gli anni Sessanta e Settanta.

Un velo di malinconia forse, per un passato che difficilmente tornerà e che si rispecchia nelle immagini della demolizione delle storiche sale cinematografiche ormai trasformate in freddi uffici bancari, ma non di rassegnazione. I tempi cambiano, il pubblico ha altre richieste, la società ha forse altre priorità, ma i ricordi devono restare vividi. Il fatto che si parli di Parma potrebbe sembrare limitante, solo i parmigiani possono cogliere a pieno la bellezza del film, potrebbe pensar qualcuno. Tutt’altro. Il susseguirsi di scene tratte dai grandi film come Prima della Rivoluzione, Novecento, La ragazza con la valigia, raccontante e vissute dai protagonisti  invita lo spettatore alla conoscenza, a intraprendere un viaggio alla scoperta di quei luoghi che furono di ispirazione per tanti artisti. Lo stesso Barilli, che fu protagonista maschile in Prima della Rivoluzione, conduce il pubblico tra le stanze della casa ancora intatta di Fabrizio (personaggio protagonista del film) in un viaggio fisico che trasporta in epoche non così lontane, ma che sembrano ormai perdute. Ecco, perdita forse potrebbe essere il termine giusto per definire in un solo concetto il senso del film, ma in essa risuona anche la voglia di rinascere dalle ceneri. La città ducale e i suoi personaggi non vogliono essere un ricordo, ma una realtà esistente. Un documentario che è anche un omaggio ai Cinquant’anni dall’uscita di Prima della Rivoluzione, ma soprattutto un omaggio a chi va via da Parma, ma a Parma ritorna con la speranza che abbia ancora qualcosa da raccontare.

 

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