L’imperfezione dell’amore per trovarne la bellezza. Il best seller L’affaire Casati Stampa di Davide Amante al Bookcity Milano

Di fronte a un pubblico affascinato, nel pieno centro di Milano, dove una volta sorgeva la rinomata clinica privata ‘Città di Milano’ che appunto viene raccontata nelle pagine del suo romanzo, Davide Amante ha introdotto la folle, anticonformista e drammatica storia d’amore fra Anna Fallarino e il Marchese Camillo Casati Stampa.
Molti fra il pubblico avevano la colorata copertina de L’Affaire Casati Stampa, che raffigura un’immagine della bellissima amante del marchese, il cui ritratto richiama vagamente la pop art di Andy Warhol.
Votato da molti come migliore romanzo 2021, campione di vendite in Italia con numeri a cinque zeri a poco più di 8 mesi dalla sua uscita, L’Affaire Casati Stampa è un libro che non lascia indifferenti.
Il romanzo di Amante infatti indaga una storia d’amore che aveva fatto scandalo alla fine degli anni ’60 e si era conclusa tragicamente, tanto da essere definita dai principali rotocalchi dell’epoca come il più grande scandalo italiano. Il marchese Casati Stampa, una delle famiglie più note e ricche della Milano bene (una delle sue ville fu poi venduta a Berlusconi, villa San Martino ad Arcore) si innamora di una bellissima Anna Fallarino, più giovane di lui di 13 anni.
I due intrecceranno un rapporto voyeristico e passionale che si concluderà con un omicidio-suicidio per gelosia. Davide Amante ricostruisce, attraverso le indagini di un magistrato e un commissario, tutti i passi e le vicende di questa coppia eccezionale, in un romanzo dallo stile impeccabile.

Come ha dichiarato l’autore: ‘Vado in cerca dell’animo umano ed è nella disperazione, nella follia, nelle storie più anticonformiste che si sfiora il grande respiro della vita’.

Un romanzo protagonista a Book City Milano 2021, la manifestazione dedicata al libro e alla lettura che quest’anno festeggia i suoi primi dieci anni. In programma circa 1.400 appuntamenti in presenza in oltre 260 sedi accanto a interventi online.
Davide Amante è nato a Milano nel 1970. Oltre a L’Affaire Casati Stampa (2021) ha pubblicato Il Guardiano delle Stelle – il viaggio di Anais insieme al vento (2019) tradotto in sei paesi, Il Dossier Wallenberg (2016) di cui l’edizione americana sta per diventare un film, Altair (2014) il romanzo di mare e di viaggio più venduto in Italia.
I suoi libri sono tradotti in più di sei paesi.
L’Affaire Casati Stampa
pagine 140
ISBN 9788894315646
Link per acquistare: https://www.amazon.it/dp/8894315649
Sito ufficiale dell’autore: https://www.davideamante.com
Contatti Stampa: info@dmabooks.eu

‘Yoga’: il male di vivere secondo Emmanuel Carrère in un romanzo che non parla, per fortuna, di yoga

Avrebbe dovuto intitolarlo Tai chi, ma si sa, lo yoga attira molto di più, è più famoso. L’idea di Carrère, in effetti, era proprio quella di scrivere un libro sullo yoga, anzi, “un libro arguto e accattivante sullo yoga”, che si sarebbe dovuto intitolare “L’espirazione”. Perché questa scelta?

Perché Carrère pratica da trent’anni, tra alti e bassi, nonostante lui stesso si definisca un “meditante della domenica”, e perché lo yoga vende e tira di brutto.

Infatti questo libro sta vendendo molto bene, tutti ne parlano, Carrère può esserne contento, lui e il suo ego enorme (se lo dice da solo, da sempre, ne è consapevole) anche se soffre per non essere famoso e acclamato come Michel Houellebecq, che infatti dice spudoratamente d’invidiare.

Yoga: sinossi

La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi.

Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II».

Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga e di come lo si pratica, e di un seminario di meditazione Vipassana che non era consentito abbandonare, e che lui abbandona senza esitazioni dopo aver appreso la morte di un amico nell’attentato a «Charlie Hebdo».

Ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore.

Solo una questione di marketing?

Yoga di Carrère si chiama così solo per una questione di marketing, e su questo ci sono pochi dubbi; è un libro che avrebbe dovuto parlare di yoga ma che non lo fa, e che quando sembra farlo, lo fa per i fanatici dello yoga, in modo superficiale.

Carrère, dice di meditare, fare yoga e tai chi da trent’anni, ma certamente conosce poco di questa pratica, cosa che non per forza deve andare a suo sfavore e infatti  liquida la mindfulness con quattro parole non rendendosi neanche conto di coltivare proprio la mindfulness, e non di meditare o praticare yoga in modo “ortodosso”.

Carrère non ne sa molto, e quando accenna due parole sulla mindfulness fa pure errori, scrivendo che il suo fondatore è uno psichiatra, cosa che non è, perché Jon Kabat-Zinn è un biologo. Poi insulta pure un certo Ram Dass“apostolo dell’LSD, che in età avanzata è diventato un vecchio guru della mindfulness”, definendolo uno yogi-barbuto-vegetariano-indossatore di sandali-babbeo-imbecille-pericoloso, che scrive libri brutti, stupidi e inutili, quei libri di autoaiuto che vendono tanto.

Insomma l’impressione è che lo scrittore francese si faccia anche beffe delle maeditazione, vantandosi di non saperne fino in fondo. E allora? Forse deve aver capito che per curare certi male meditare non serve a nulla, e che l’amore, l’erotismo, le cure farmacologiche, possano essere più efficaci. Essere ignoranti in materia di yoga non è un crimine, come una certa dose di stravaganza. Come se Carrère fosse il primo ad esercitarla, sebbene essere più informati non guasta mai.

Un ‘autobiografia riuscita a metà

Il risultato è un’autobiografia mal riuscita. E tutto perché Carrère considera -giustamente- i suoi pensieri troppo importanti, intelligenti, fondamentali, non capendo che per l’Oriente i pensieri vanno abbandonati, sono soltanto illusione, non hanno nessun peso, nessuna importanza, allontanano dalla realtà ultima, confondono, sono ignoranza, così come il desiderio, l’attaccamento.

Per Carrère la meditazione è niente più che “l’ennesimo giochino narcisistico. E questo mi rattrista”. E se non avesse torto? E se alcuni occidentali hanno semplicemente un complesso di inferiorità nei confronti degli orientali da questo punto di vista?

Lo yoga non è qualcosa che serve per mantenersi in forma, una ginnastica, e Carrère sembra averlo capito, ma anche lui pratica comunque per tenersi in forma e soprattutto per provare a gestire la propria mente. E cosa ci sarebbe in fondo di male in questo:

“Trovo che sia già molto conquistarsi con la meditazione un po’ di stabilità psichica e di profondità strategica”. 

D’altronde non è tanto utile e produttivo entrare troppo in sè stessi: meditare è un atto egoistico. Mira a concentrarsi in un vuoto interiore, guardando sè stessi, sulla propria presunta forza interiore lasciando gli altri, l’amore (come ci dice lo scrittore francese) e il trascendente fuori dalla porta. Il modo migliore invece è proprio farlo entrare invece di perseguire come ossessi questa moda che sta spopolando.

 

Fonte Dejanira Bada

‘Casa di Foglie’, il best seller ergodico di Mark Z. Danielewski

Casa di foglie, House of Leaves titolo originale, è il bestseller scritto da Mark Z. Danielewski, scrittore statunitense, figlio di un regista d’avanguardia polacco e madre statunitense, esponente della cosiddetta letteratura ergodica, che mette a dura prova il lettore, trattandosi anche di un trattato sul postmoderno, costellato di note a pié di pagina che costituiscono una storia a sé.

Il romanzo d’esordio che più di tutti ha colpito e accattivato milioni di lettori, subisce la verve artistica paterna, riportata egregiamente tra i fogli. Il libro salito alla ribalta per la sua trama e per la sua composizione tipografica ,è uscito nel 2000 negli Stati Uniti, e ha registrato fin da subito un’accoglienza calorosa da parte della critica mondiale. Comparso prima in piccoli spezzoni e poi in un unico volume, man mano ha conquistato un seguito di appassionati, prima in patria e poi all’estero, che hanno consacrato l’opera tra le migliori del ventunesimo secolo. Edito in Italia nel 2005 con la Mondadori, alla sua uscita ha registrato subito un tutto esaurito. A lungo però è scomparso tra gli scaffali italiani.

Questa edizione è rimasta l’unica fino al 2019 quando la 66Thand2nd ne ha acquisito i diritti. Il motivo per il quale la sua ripubblicazione sia stata stoppata non si conosce e questo ha donato al libro un non so che di misterioso, rendendolo così anche molto richiesto. Il Mistero, la suspence e lo stupore legate alle vicende dello stesso libro nonché al suo contenuto caratterizzano , dunque , questo romanzo dove confluiscono diversi generi: prevale per lo più quello horror.

Lo stile ergodico è però la sua peculiarità: agli appassionati di intrecci, scritture criptiche e rompicapi trovano tra queste pagine “Pane per i loro denti”. Infatti fin da subito il lettore si troverà dinanzi a tre livelli di racconto, interrotti sempre in momenti di maggior tensione emotiva e di probabile svolta, preparandosi ad uno sforzo comprensivo e ad una attiva interazione. Si dovrà essere pronti a catapultarsi all’interno delle stesse vicende narrate per poterne trarre il senso. Fondamentale è concentrarsi sui passaggi e tener a mente eventi , situazioni. Ma non solo, proseguendo con le pagine, si dovrà cercare anche di stabilire connessione tra i vari spezzoni posizionati su ogni pagina. Frammenti e note sono onnipresenti e compongono ogni pagina in modo causale: la scelta tipografica è inusuale e caratteristica oggettiva e principale della Casa di Foglie.

Imbattersi dunque, in una sola frase o in una parola capovolta, al margine del foglio o al lato , è del tutto normale. La sensazione si ritrovarsi in un labirinto di parole o un puzzle, dove tutto sembra non avere senso accompagnerà il lettore fino alla fine. Bisogna armarsi di curiosità e pazienza per poter affrontare le 700 e più pagine così sconnesse tra loro, e non lasciarsi ingannare dalla scritta di inizio “Questo non è per te”.

Frase ad effetto ,posizionata non a caso,  simile ad una dedica, che accende il desiderio di conoscenza, senza ancora non dire nulla ,di chiunque ci si soffermi. Il premio finale sarà più che soddisfacente , anche se la certezza assoluta di aver dato un senso al tutto non si avrà mai. Il tutto inizia con la vicenda accaduta a Johnny Truant tra il 96-97, il narratore onnisciente.

Questo, per puro caso, si imbatte , mosso dalla curiosità, tra gli oggetti personali di un vecchio cieco vicino di casa del suo amico Lude, Il signor Zampanò, morto improvvisamente. Prima che le cose di quest’ultimo vengano date via , Truant trova all’interno della casa del defunto un baule contente un manoscritto e decide di iniziarlo a leggere. Gli scritti rivelano dei commenti dello stesso Zampanò fatti al documentario The Navidson Record, girato da Will Navidson, famoso fotografo, da sua moglie Karen e da i suoi due figli.

La famiglia trasferitasi in periferia in una nuova casa, avrà a che fare con eventi strani e inusuali, che scuoteranno e, non poco, la quiete e l’equilibrio del nucleo. La comparsa di luoghi misteriosi all’interno dell’abitazione darà il via a scene piene di tensione, mistero che lasceranno con il fiato sospeso. Alle tre diverse narrazioni se ne aggiunge addirittura una quarta, costituita dalle Lettere di Whalestoe, nella quale la voce che racconta è la madre di Johnny Truant, che spiega come queste vicende abbiano avuto incidenza nella vita di chiunque le abbia conosciute.

La prima narrazione è legata alla vita stessa di Truant che legge le note di Zampanò, le interpreta e compie ricerche sulle fonti utilizzate, contemporaneamente racconta e analizza aspetti della sua vita personale, stupendosi delle conclusioni a cui arriva. La seconda narrazione è composta principalmente dal lavoro di Zampanò che cita e analizza il filmato, ricorrendo ad altre opere, annotazioni e testimonianze. Molte di queste ultime si rivelano inesistenti.

La terza narrazione è quella descritta all’interno del girato, dove i fatti paranormali sono descritti fin nei piccoli dettagli. Impeccabile come Danielewski sia riuscito ad inventare e mescolare forti reali con quelle del tutto inventate, particolari comuni con quelli bizzarri, riproponendo il tutto sul piano del verosimile. L’espediente descrittivo è meravigliosamente utilizzato ed unito alla scelta topografica. Scelta che riproduce per ogni livello narrativo un carattere diverso, utile per distinguere le vicende descritte e i loro protagonisti. Le stesse vicende alla quale viene data anche una valenza visiva: possibile trovare diversi passi in cui il mistero si infittisce, di conseguenza anche la posizione stessa delle frasi cambia.

Anche se ogni vicenda può risultare incompleta al lettore, il finale sarà tutto da scoprire e da ricollegare, lasciando libera interpretazione. Una lettura interattiva e curata nei minimi dettagli che apre nuovi orizzonti nella creazione propria di ogni libro. L’uso di artifici e espedienti visivi possono essere sfruttati, insieme alle parole, in modo variegato offrendo a chi legge una esperienza a 360 gradi.

 

A chi piace la letteratura ergodica? Leggete questo best seller! – YouTube

‘The Stonemason’, capolavoro di McCarthy non ancora tradotto: tra Bibbia, Faulkner e la tragedia greca di Eschilo

Cormac McCarthy è tra i grandi narratori viventi; nella sonorità linguistica che fa falò della fascina delle ossa, Meridiano di sangue sta tra i libri titanici di sempre. In ogni caso, da qualsiasi lato pigliate McCarthy, cascate bene. I suoi libri trascinano nell’al di là della narrativa, nel luogo degli interrogativi micidiali. Non si leggono: obbligano a una scelta – persino a una responsabilità che riguarda il nostro stare al mondo.

 

L’anno scorso, in un vasto articolo che battezza l’irritante sbadataggine – diciamo così – della grande editoria italiana – prona a ciò che potrebbe piacere al lettore, preso per cretino, alimentando le classiste classifiche, più che alla grandezza in sé – Alessandro Gnocchi ha ribadito che di Cormac McCarthy, che crea nel vortice della rovina, c’è tutto. Tranne un testo. Il testo s’intitola The Stonemason, è stato pubblicato nel 1994, gli esperti lo dicono “un notevole fallimento”.

The Stonemason è centrato sulla figura di Ben Telfair, nero, poco più che trentenne, al contempo narratore e attore del dramma. Siamo negli anni Settanta, a Louisville, Kentucky; Ben abbandona gli studi universitari in psicologia per perpetuare la tradizione di famiglia. Di mestiere, i suoi sono scalpellini, tagliatori di pietre. Il totem della famiglia Telfair è nonno Papaw, che incarna i valori dell’onestà, della rettitudine, della fede. Ben è lì che vorrebbe radicarsi, ma il mondo lo morde e lacera la famiglia. La sorella più grande di Ben, Carlotta, vive un matrimonio devastato: il figlio di lei, quindicenne, è un perduto, richiamato dalla dissipazione, dalla droga. La moglie di Ben, Maven, sogna il riscatto sociale, è bella, vuole diventare avvocato. Il padre di Ben, travolto da un tracollo finanziario, si uccide.

The Stonemason non è un play canonico. L’andamento è biblico, da libro dei re (e dei dannati). I monologhi di Ben – ad alta elettricità linguistica – interrompono spesso il dramma. Ben fa le funzioni del coro nella tragedia greca: qui sembra che Eschilo abbia i jeans, che sia passato dalla luce greca all’arcaica desolazione americana. Dietro Cormac McCarthy c’è l’esempio faulkneriano di Requiem for a Nun – straordinaria fusione di prosa e brandelli teatrali – e dei lati sinistri del teatro elisabettiano, John Webster.

 

Davide Brullo

‘Cambiare l’acqua ai fiori’ di Valerie Perrin, il caso letterario del momento: un libro costruito a regola d’arte

Vincitore nel 2018 del Prix Maison de la Presse, presieduto da Michel Bussi, con la seguente motivazione: “un romanzo sensibile, un libro che vi porta dalle lacrime alle risate con personaggi divertenti e commoventi”, Cambiare l’acqua ai fiori, della francese Valerie Perrin (edizioni e/o) è divenuto un fenomeno virale grazie al passaparola tra lettori, romanzo la cui forza dell’empatia che l’autrice ha conferito ai suoi personaggi, soprattutto alla sua protagonista di Cambiare l’acqua ai fiori, Violette Toussaint (in italiano significa Ognissanti) che ricorda la protagonista de L’eleganza del riccio, la quale ha avuto un’infanzia difficile, dapprima in orfanotrofio e poi, durante l’adolescenza, sballottata da una famiglia affidataria all’altra. Violette nasconde dietro un’apparenza sciatta una grande personalità e una vita piena di misteri.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, Violette cresce bene. “Mi tengo dritta, è una mia peculiarità. Non mi sono mai piegata, neanche nei periodi di maggior dolore. Spesso mi chiedono se abbia fatto danza classica. Rispondo di no, che è stata la quotidianità a darmi una disciplina, a farmi allenare ogni giorno alla sbarra e sulle punte”, dice. Conosce un ragazzo, Philippe Toussaint, un nullafacente, nel bar, dove saltuariamente fa la cameriera, e se ne innamora. O forse, vuole dare il nome di amore a qualcosa di diverso, perché l’amore lei non lo ha mai conosciuto, almeno fino a quando, da quello strano rapporto, nasce sua figlia, Leonine.

Ma il destino avrà in serbo per lei altre avversità, perché “la vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama”. E solo come custode in un piccolo cimitero di una cittadina della Borgogna, Violette troverà un po’ di quiete. Durante le visite ai loro cari, tante persone vengono a trovare nella sua casetta questa bella donna, solare, dal cuore grande, che ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre pronta a offrire un caffè caldo o un cordiale. Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto.

Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime, che parevano nere, si rivelano luminose. Attraverso incontri, racconti, flashback, diari e corrispondenze, la storia personale di Violette si intreccia con mille altre storie personali in un caleidoscopio di esistenze che vanno dal drammatico al comico, dall’ordinario all’eccentrico, dal grigio a tutti i colori dell’arcobaleno. La vita di Violette non è certo stata una passeggiata, è stata anzi un percorso irto di difficoltà e contrassegnato da tragedie, eppure nel suo modo di approcciare le cose quel che prevale sempre è l’ottimismo e la meraviglia che si prova guardando un fiore o una semplice goccia di rugiada su un filo d’erba.

Consolando gli altri, Violette capisce che “c’è qualcosa di più forte della morte, ed è la presenza degli assenti nella memoria dei vivi … perché la sepoltura più bella è la memoria degli uomini”.

Di questo libro, osannato anche dalla critica nostrana, si è usata un’espressione abbastanza banale, ovvero “entra nel cuore del lettore”che si adopera quando si ha poco da dire su un libro che piace ma che non ha sale e per scrivere un buon libro non basta una buona storia qual è quella di Come dare l’acqua ai fiori.

Una storia che prende certamente quella della Perrin in cui ognuno di noi può immedesimarsi, complice la scorrevolezza della lettura: la trama è un susseguirsi di tragedie, piccole letizie, ricadute, frasi scontate sul concetto di morte, frasi confezionate ad hoc per i social. La struttura del libro è fatta a regola d’arte, una alternanza tra la narrazione del presente e quella del passato, con l’inserimento di diari privati, trascrizioni di dialoghi, lettere e ricordi nostalgici, quasi tutto in prima persona, una mossa editoriale vincente. Come l’incipit:

“I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. (…) I miei vicini sono morti”. 

 

Come libro da ombrellone, il delicato Cambiare l’acqua ai fiori è l’ideale, alla fine però non resta granché. Nulla che possa davvero scuotere o indurre a rileggere i punti salienti. Se ne esce illesi, dopo essersi chiesti all’inizio del libro chi fossero i responsabili del dolore della protagonista e naturalmente come andrà a finire la vicenda.

Addio a Carlos Ruiz Zafón: le 10 più belle frasi del capolavoro ‘L’Ombra del vento’

Carlos Ruiz Zafón è stato un scrittore catalano. Nato a Barcellona nel 1964 si è spento ieri a Los Angeles all’età di 55anni.

Già sceneggiatore, autore di libri per ragazzi, copywriter e direttore creativo lo scrittore si rimette nuovamente in gioco nel 2001. Questa volta nel mondo della narrativa degli adulti, esordendo con il romanzo L’ombra del vento, intriso di gotico, mistero ed intrigo. Il libro scala i vertici delle classifiche letterarie, diventando ben presto un best seller.

Il successo  consacra Carlos Ruiz Zafón nel mondo dell’editoria e nel cuore di molti lettori. Autore spagnolo più letto dopo Cervantes, Zafón, attraverso artifici narrativi catapulta il lettore nel magico e ammaliante mondo dei libri e della letteratura. Ed è proprio questa la sua più grande eredità.

L’ombra del vento ha venduto oltre 15mila copie in tutto il mondo, più di un milione solo in Italia. Da qui nasce è nata una quadrilogia intitolata Il Cimitero dei libri dimenticati, che dopo L’ombra del vento è proseguita con Il gioco dell’angelo (2008), Il prigioniero del cielo (2012), concludendosi con Il labirinto degli spiriti (2016), tutti editi da Mondadori e tradotti da Bruno Arpaia.

Una mattina il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, nel cuore della città vecchia di Barcellona al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo in cui migliaia di libri di cui il tempo ha cancellato il ricordo, vengono sottratti all’oblio. Daniel viene attratto dalla copertina di un libro intitolato L’ombra del vento di Julian Carax, un autore sconosciuto. Da quel momento comincia ad appassionarsi sempre di più alla storia. Il ragazzo viene catturato dalla storia e vuole assolutamente avere maggiori notizie sull’autore. Comincia ad indagare dapprima in biblioteca e poi in maniera più profonda attraverso viaggi. Le frenetiche ricerche condurranno il protagonista in atmosfere misteriose ed intrigati labirinti. La vita di Daniel e quella del protagonista del suo libro si intrecciano irrimediabilmente portando a galla numerosi parallelismi. La narrazione si snoda in una Barcellona, ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e al contempo quella cupa del dopoguerra.

Attraverso l’espediente narrativo, la trama mescola fantasy, realismo ed elementi del giallo. Un romanzo storico, una tragedia d’amore che ricorda il feuilleton ottocentesco sapientemente modernizzare da Zafón.

Un caso editoriale che ha proclamato Carlos Ruiz Zafón una delle voci più significative della narrativa internazionale, destinato a stregare chiunque intercetti le sue pagine. Un romanzo in cui i bagliori di un passato angosciante si riflettono sul presente del giovane protagonista, in una Barcellona dalla duplice identità: quella ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e quella cupa del dopoguerra.

 

1 “Mi balenò in mente il pensiero che dietro ogni copertina si celasse un universo da esplorare e che, fuori di lì, la gente sprecasse il tempo ascoltando partite di calcio e sceneggiati alla radio, paga della propria mediocrità” 

2 “Quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell’oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno”

3 “Ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza”

4 “Ignoravo il piacere che può dare la parola scritta, il piacere di penetrare nei segreti dell’anima, di abbandonarsi all’immaginazione, alla bellezza e al mistero dell’invenzione letteraria” .

 5 “Quel libro mi ha insegnato che la lettura può farmi vivere con maggiore intensità, che può restituirmi la vista. Ecco perché un romanzo considerato insignificante dai più ha cambiato la mia vita” .

6 “La malvagità presuppone un certo spessore morale, forza di volontà e intelligenza. L’idiota invece non si sofferma a ragionare, obbedisce all’istinto, come un animale nella stalla, convinto di agire in nome del bene e di avere sempre ragione. Si sente orgoglioso in quanto può rompere le palle, con licenza parlando, a tutti coloro che considera diversi, per il colore della pelle, perché hanno altre opinioni, perché parlano un’altra lingua, perché non sono nati nel suo paese o, come nel caso di don Federico, perché non approva il loro modo di divertirsi. Nel mondo c’è bisogno di più gente cattiva e di meno rimbambiti”. 

7 “In genere il destino si apposta dietro l’angolo, come un borsaiolo, una prostituta o un venditore di biglietti della lotteria, le sue incarnazioni più frequenti. Ma non fa mai visita a domicilio. Bisogna andare a cercarlo” .

8 “Nulla succede per caso, non credi? Tutto, in fondo, è governato da un’intelligenza oscura. Il tutto fa parte di qualcosa che non riusciamo a intendere, ma che ci possiede” .

9 “Non volevo abbandonare la magia di quella storia né, per il momento, dire addio ai suoi protagonisti. Un giorno sentii dire a un cliente della libreria che poche cose impressionano un lettore quanto il primo libro capace di toccargli il cuore. L’eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale – non importa quanti altri libri leggeremo, quante cose apprenderemo o dimenticheremo – prima o poi faremo ritorno”.

9 “La vita è breve, soprattutto la parte migliore” . 

 

 

J.R.R. Tolkien: lucido conservatore e sincero cattolico per il quale i grandi racconti non hanno mai una fine

Acuto conservatore ostile a qualsiasi forma di estremismo, sincero cattolico profondamente influenzato da numerosi altri apparati mitico-religiosi, tenace difensore degli alberi contro la società delle macchine: Tolkien è stato questo, e molto di più. Ripercorriamo la vita di uno dei più influenti autori del Novecento, nella convinzione che: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare”. (Gandalf, Il Signore degli Anelli).

«[…] Non hanno dunque una fine i grandi racconti?». «No, non terminano mai i racconti», disse Frodo. «Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi…o fra breve»

John Ronald Reuel nasce a Bloemfontein il 3 gennaio 1892. Suo padre, Arthur Tolkien, aveva ottenuto un posto nella Bank of Africa ed era stato nominato responsabile dell’importante filiale in Sudafrica. Venne poi raggiunto dalla sua amata, Mabel Suffield, i due infatti, si erano sposati il 16 aprile del 1891. Il 17 febbraio 1894 Mabel dà alla luce il secondo figlio, Hilary Arthur Reuel, ma le condizioni – perlopiù climatiche – non ottimali a Bloemfontein la spingono a tornare in Inghilterra con i due pargoli. Arthur avrebbe dovuto raggiungerli successivamente, ma così non avviene: a seguito delle febbri reumatiche e della conseguente emorragia muore il 15 febbraio 1896. Pochi mesi dopo, Mabel abbandona la casa dei suoi genitori e si trasferisce con John e Hilary in un’abitazione a buon mercato nel piccolo villaggio di Sarehole, a circa un chilometro di distanza da Birmingham. J. R. R. porterà sempre nel cuore questi anni. In una lettera del 12 dicembre 1955, rispondendo a chi aveva paragonato la Contea – dei suoi cari Hobbit – ad Oxford nord, scrive:

In realtà è molto più simile a un villaggio del Warwickshire nel periodo intorno al Giubileo di Diamante; che è distante quanto la Terza Era dal deprimente e perfettamente banale agglomerato di case a nord della vecchia Oxford, privo anche di un indirizzo postale”.

A Sarehole il giovane Tolkien inizia ad usare parole dialettali, tipo gamgee “bambagia”, termine che deriva da un certo dottor Gamgee, inventore di un particolare tipo di tessuto fatto di cotone idrofilo. Inoltre, sviluppa due grandi passioni che risulteranno altrettanto significative da lì a poco: quella per gli alberi – con cui amava stare – e quella per i draghi, attraverso le fiabe di Andrew Lang. Pochi anni dopo, Mabel decide di convertirsi al cattolicesimo, incorrendo nella scomunica da parte della famiglia, in particolare del padre John, un unitario convinto, non in grado di sopportare una figlia papista. Questa decisione porta a vivere lei e i suoi figli in una situazione di grande ristrettezza economica. I tre cambiano casa più volte in questi anni, spostandosi in differenti zone di Birmingham (Moseley, King’s Heath, Oliver Road), ma la tenacia della madre è ammirevole, come John Ronald ribadirà continuamente nella sua vita, definendola anche martire, a partire da una lettera del marzo 1941 al suo primogenito Michael:

“Anche se di nome sono un Tolkien, per gusti, talenti ed educazione sono un Suffield, e ogni angolo di quella contea [Worcestershire] (non importa se bello o squallido) è per me in un modo indefinibile “casa”, come nessun’altra parte del mondo. Tua nonna, alla quale devi così tanto, poiché era una signora dotata di grande bellezza e spirito, molto provata da Dio con dolori e sofferenze, che morì giovane (a 34 anni) di una malattia aggravata dalla persecuzione della sua fede, morì nella casa del postino di Rednal, ed è sepolta a Bromsgrove”.

La precoce morte di Mabel – affetta da diabete – nel 1904 porta i due bambini a vivere dalla zia Beatrice, che diede loro “una casa, pasti caldi e poco più” nel centro di Birmingham. A giocare un ruolo determinate è invece il loro tutore padre Francis Morgan. In questi anni, J. R. R. inizia a scoprire la sua passione per la filologia. Entrò in contatto con un’introduzione elementare alla lingua gotica:

“non si accontentò di imparare il linguaggio, ma, per riempire i vuoti dello scarno vocabolario sopravvissuto, cercò di inventare altre parole, e proseguì nell’intento fino a costruire un linguaggio germanico plausibile”.

Nel corso della sua vita, di lingue Tolkien ne studierà e inventerà molte, interrogandosi profondamente riguardo le sue creazioni. In una lettera di risposta all’Observer del 1938 scrive:

“E poi, perché scrivo dwarves per i nani? La grammatica vorrebbe dwarfs; la filologia suggerisce che la forma storica sarebbe dwarrows. La vera risposta è che non ho saputo fare di meglio. Ma dwarves sta bene con elves; e in ogni caso elfo, gnomo, orco, nano sono solo traduzioni approssimate dei nomi in elfico antico per esseri che non hanno proprio le stesse caratteristiche e funzioni”.

Nel febbraio 1958, facendo i complimenti al figlio Christopher per una relazione ad Oxford, afferma di aver “improvvisamente capito di essere un filologo puro”, realmente emozionato dall’impatto estetico delle parole. Una consapevolezza raggiunta in piena maturità, ma presente fin da sempre. Del resto, in una certa misura, le storie tolkieniane non sono altro che il modo migliore per concretizzare le creazioni a lui più care.

È sempre in questo periodo che John Ronald conosce Edith Bratt, un’orfana di tre anni più grande di lui. I due si innamorano presto, ma padre Morgan si dimostra fin da subito contrario a questa relazione clandestina e proibisce al giovane di vedere la ragazza fino a quando non avrà compiuto ventuno anni. È il 1910, Tolkien ha diciannove anni. Per il ragazzo si prospettano due scelte: ubbidire a quello che per lui è stato un padre o ribellarsi e unirsi alla sua amata. Sceglie la prima. Lo fa straziato nell’animo, con la speranza di potersi ricongiungere ad Edith tre anni dopo. Nell’immediato, si dedica agli studi, che fino a quel momento aveva piuttosto tralasciato, vincendo una borsa di studio all’Exeter College di Oxford. Qui nel 1911, assieme a dei suoi compagni, fonda il Tea Club, Barrovian Society, per prendere il tè in compagnia di miti, poesie e musica. Scopre il Kalevala, la raccolta di poemi della mitologia finnica pubblicata solamente nel XIX secolo, che tanto influenzerà la sua produzione – direttamente ne La storia di Kullervo, recentemente pubblicata –. In una celebre lettera del 1951 all’editore Milton Waldman (alla quale promettiamo di dedicare un articolo a sé stante), Tolkien ritorna sul legame con le differenti mitologie:

“Inoltre, e qui spero di non sembrare assurdo, fin dalla più tenera età sono stato addolorato per la povertà del mio amato paese, che non aveva storie proprie (legate alla sua lingua e alla sua terra), non della qualità che cercavo, e trovavo (come ingrediente) nelle leggende di altre terre. Ce n’erano greche, celtiche, romanze, germaniche, scandinave e finlandesi (che hanno avuto molto effetto su di me); ma nulla di inglese, tranne materiale impoverito per libretti popolari. Naturalmente c’era e c’è tutto il mondo arturiano, ma malgrado la sua forza è naturalizzato imperfettamente, associato con la terra di Bretagna ma non con l’Inghilterra; e non sostituisce quello che a me mancava”.

Durante le vacanze estive del 1911, compie un viaggio in Svizzera ed acquista delle cartoline. Molto tempo dopo, accanto ad una di queste, una riproduzione del dipinto dell’artista tedesco Joseph Madlener intitolato Der Berggeist, scriverà: “origine di Gandalf”.

Da studente ad Oxford John Ronald è un tipo particolarmente socievole, tanto da partecipare a delle baldorie serali organizzate in giro per la città:

“Mettemmo a ‘ferro e fuoco’ la città, la polizia e i prefetti, tutti insieme per circa un’ora”.

Con bravate che tuttavia, non portano ad alcun tipo di conseguenze disciplinari, così potè continuare tranquillamente i suoi studi. Lentamente si arriva al 1913, J. R. R. ha ventuno anni e può ricongiungersi all’amata Edith, la quale lo ha aspettato. I due si fidanzano ufficialmente l’anno successivo, dopo che lei viene accolta nella Chiesa cattolica. Per il giovane Tolkien è un periodo decisamente movimentato, come ricorda in una lettera al figlio Michael riguardo al Santissimo Sacramento:

“Senza laurea, senza soldi, fidanzato. Sopportai la vergogna e le allusioni dei parenti sempre più esplicite, tirai dritto e nel 1915 ottenni il massimo dei voti agli esami finali. Scattai ad arruolarmi: luglio 1915. La situazione era intollerabile e mi sposai il 22 marzo 1916. A maggio attraversai la Manica (ho ancora i versi scritti per l’occasione!) verso la carneficina della Somme”.

L’amore, la guerra e la fede. Non è un caso che, proprio nel 1917, inizi a dare corpo al suo universo mitico con The Book of Lost Tales, il futuro Silmarillion. Secondo lo studioso Carpenter, questo percorso creativo si deve a tre fenomeni interdipendenti, precedentemente accennati: la passione per le lingue, l’innato sentimento poetico e la volontà di ideare una mitologia per l’Inghilterra. Tutti questi elementi si relazionano tra loro su un sostrato profondamente cattolico:

“Qualcuno ha riflettuto sulla relazione che intercorre tra le storie di Tolkien e la sua fede cristiana, e ha trovato difficile comprendere come un cattolico osservante possa scrivere di un mondo dove Dio non è adorato. Ma un simile mistero non esiste: Il Silmarillion è l’opera di un uomo profondamente religioso, che non contraddice il proprio sentimento cristiano, ma lo completa. Nelle leggende non c’è alcuna adorazione di Dio, eppure Dio è sicuramente lì, più esplicitamente nel Silmarillion che nell’altro suo lavoro, Il Signore degli Anelli, le cui radici affondano nel primo”.

Tra il 1918 e il 1929 i coniugi Tolkien hanno quattro figli – John, Michael, Christopher e Priscilla – e John Ronald compie una poderosa ascesa nel mondo accademico diventando prima lettore di Lingua inglese all’Università di Leeds, poi professore di lingua inglese, sempre presso quell’ateneo e infine, nel 1925, titolare della cattedra Rawlinson and Bosworth di Studi anglosassoni a Oxford, dove si trasferisce presto tutta la famiglia. Gli studenti ammirano le sue lezioni e la sua dedizione all’insegnamento è encomiabile, con una quantità di ore settimanali e corsi annuali nettamente superiore alla media.

Nel marzo 1939, Tolkien tiene una conferenza alla St. Andrews University dal titolo Sulle Fiabe, che fa parte della raccolta Il medioevo e il fantastico, curata dal figlio Christopher ed edita nel 1983. Questa è l’occasione per definire meglio la sua visione del fantastico, concepito non solamente come mezzo di riscoperta, evasione e consolazione, ma anche e soprattutto in riferimento alla fantasia intrinsecamente legata alla realtà, rintracciabile nella connessione tra Mondo Primario e Mondo Secondario realizzata attraverso l’autentica Arte Sub-creativa:

“Che le immagini si riferiscano a cose che non appartengono al Mondo Primario (se davvero ciò è possibile) è una virtù, non un vizio. La Fantasia in questo senso è, credo, non una forma inferiore ma una forma più elevata di Arte, invero la forma più prossima alla purezza e dunque (quando viene raggiunta) quella più potente. Naturalmente la Fantasia ha dalla sua un vantaggio: quella stranezza che attrae. Ma questo vantaggio è stato volto contro di lei, e ha contribuito alla sua cattiva reputazione. […] Creare un Mondo Secondario all’interno del quale il sole verde possa essere credibile, imponendo la Credenza Secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e sicuramente avrà bisogno di una particolare abilità, una sorta di maestria elfica. Pochi tentano imprese così difficili. Ma quando queste imprese vengono tentate e quando sono in una certa misure riuscite, allora abbiamo una rara conquista artistica: della vera narrativa, l’elaborazione di una storia nella sua modalità primaria e più potente”.

Il 29 luglio 1954 esce La Compagnia dell’Anello, a novembre Le Due Torri e, nell’ottobre 1955, Il Ritorno del Re, con le tanto agognate Appendici. In una lettera del dicembre 1953 all’amico padre Robert Murray, che aveva letto parte del libro in bozze rimanendone entusiasta, riscontrando:

“Una positiva compatibilità con l’ordine della Grazia”

Tolkien aveva rivelato:

“Ovviamente Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica; all’inizio lo è stata inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. […] In realtà ho pianificato consapevolmente ben poco; e soprattutto dovrei essere grato di essere stato educato (da quando avevo otto anni) in una Fede che mi ha rafforzato e mi ha insegnato tutto quel poco che so; e questo lo devo a mia madre, che restò fedele alla sua conversione e morì giovane, in gran parte a causa delle privazioni causate dalla povertà che ne era derivata”.

Nel giro di pochi anni, l’opera viene tradotta in più lingue – la prima è l’olandese –, vince premi e fa di J. R. R. un autore di fama internazionale. Nel 1965 nasce negli Stati Uniti il primo Tolkien Club, che diverrà poi la Tolkien Society of America e nel 1968 è la volta della British Tolkien Society. Alla fine del 1966 a Yale:

“La trilogia sta vendendo più rapidamente di quanto non facesse Il signore delle mosche di William Golding nel suo momento migliore. A Harvard sta superando di gran lunga Il giovane Holden di J.D. Salinger”.

 

Lorenzo Pennacchi

 

‘Millennium-Quello che non uccide’, l’anteprima mondiale oggi al Festival di Roma

Millennium – Quello che non uccide, il nuovo attesissimo film della saga ‘Millennium’, sarà in anteprima mondiale oggi, 24 ottobre, alla Festa del Cinema di Roma e dal 31 ottobre al cinema. Mercoledì 24 ottobre alle 19.30 alla Festa del Cinema di Roma sarà presentato in anteprima mondiale Millennium – Quello che non uccide, il primo adattamento cinematografico del quarto romanzo della saga ‘Millennium’, scritto da David Lagercrantz (edito in Italia da Marsilio Editori), che ha raccolto il testimone di Stieg Larsson – autore dei primi tre libri. Alla première del film, che sarà dal 31 ottobre al cinema grazie a Warner Bros. Pictures, saranno presenti anche il regista Fede Álvarez, l’attrice protagonista Claire Foy, Sverrir Gudnason, Sylvia Hoeks insieme a Synnøve Macody Lund e Andreja Pejić per un saluto al pubblico.

È noto che Larsson, l’autore svedese della saga, aveva in origine pianificato una serie di dieci libri, ma la morte, avvenuta a soli 50 anni, l’ha strappato alla scrittura prima che potesse ultimare il quarto capitolo. La trilogia – formata da Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta – ha venduto circa 80 milioni di copie e ha reso Larsson il primo scrittore ad aver superato la soglia del milione di copie vendute per e-book su amazon.com.

Interpretate da Michael Nyqvist nei panni del giornalista investigativo Mikael Blomkvist e da Noomi Rapace nelle vesti della hacker informatica Lisbeth Salander, le precedenti trasposizioni cinematografiche svedesi sono state dirette Arden Oplev e Daniel Alfredson (per gli ultimi due film). Nel 2010, il canale televisivo svedese SVT li ha trasmessi in sei episodi sotto forma di serie TV, con il titolo di Millennium. Il regista statunitense David Fincher ha invece realizzato le versioni americane, tra il 2011 e il 2013), con protagonisti Daniel Craig e Rooney Mara.

Lisbeth Salander, figura di culto e personaggio principale dell’acclamata serie di libri ‘Millennium’ creata da Stieg Larsson, tornerà sul grande schermo in Millennium – Quello che non uccide, il primo adattamento del recente bestseller mondiale scritto da David Lagercrantz. La vincitrice del Golden Globe, Claire Foy protagonista della serie ‘The Crown’, interpreta l’iconica hacker sotto la direzione di Fede Alvarez, regista del thriller del 2016, Man in the dark; la sceneggiatura di questo nuovo capitolo è di Steven Knight, Fede Álvarez e Jay Basu.

 

Trailer del film

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