In un’intervista, Carolina Invernizio dichiarò di scrivere un romanzo di 200-250 pagine entro una settimana, di non controllare mai i suoi scritti e di prendere ispirazione per le sue opere dagli articoli di giornale. Gramsci la definì “l’onesta gallina della letteratura popolare”, per Emilio Zanzi è stata “la dama che ha anticipato di mezzo secolo la letteratura gialla e supergialla”, i critici la chiamavano “Carolina di Servizio” oppure, inventando un appellativo ormai divenuto proverbiale, “la casalinga di Voghera” (la scrittrice, nell’introduzione ai Romanzi del peccato, risponde loro: “Dei critici ho una allegra vendetta. Ché le mie appassionate lettrici e amiche sono appunto le loro mogli, le loro sorelle”).
Invernizio scrive male, anzi malissimo, tra stereotipi, spiegoni, narici frementi e pianti dirotti, buoni dall’animo candido e cattivi senza possibilità di redenzione; ma questa pessima scrittura che caratterizza tutti i suoi romanzi che sono simili tra loro, ma tradotti anche negli Stati Uniti e in America Latina, sprigiona un’energia esplosiva, alimentata da un’immaginazione iperbolica, da un certo gusto per il macabro e il perverso e da un senso del ritmo impeccabile.
Non è raro il caso che una persona venga seppellita come morta, mentre di morta non ha che l’apparenza. Ci sono molti e molti esempi da citare, ma ne basti solo uno solo a dimostrare che non bisogna aver troppa furia nel seppellire i cadaveri, specialmente quando la loro morte è avvenuta improvvisamente, non bastando talvolta la constatazione del medico. Quanti medici, ed anche celebri, si sono ingannati ed hanno fatto seppellire dei morti ancora vivi! Se tutte le tombe potessero dischiudersi,… se potessero parlare! Ma le tombe sono mute, e la terra ricopre i più orribili misteri.
Le varie sollecitazioni nei confronti del pubblico sono giocate, più in particolare, sulle frustrazioni alimentate dalla morale repressiva della famiglia, che è all’origine dei temi macabri e angosciosi della narrativa inverniziana. Si pensi all’ossessione della morte, quale si trova ampiamente sfruttata nel motivo della “sepolta viva”, i luoghi bui e appartati dei labirintici bassifondi, dove si compiono i più efferati delitti e si occultano i cadaveri, valgono come altrettanti simboli delle misteriose regioni dell’inconscio. Il fascino proibito e morboso di tali tematiche si rivela, a volte al limite di una situazione che sfiora la necrofilia sadiana. Possono così trovare sfogo, in altri termini, gli impulsi inconfessabili di una sessualità repressa e inibita, che percorre del resto buona parte della letteratura d’appendice, sotto le forme di un sadismo compensativo di una realtà sessuale sulla cui negazione si basa la morale ufficiale. Pertanto, laddove il sesso non può uscire dal chiuso cerchio della famiglia, divengono tanto più indicativi i teneri legami fra congiunti (il rapporto fra Clara e il fratello Alfonso, ancora nel Bacio di una morta) o fra creature femminili (laddove l’unico rapporto consentito con il maschio “estraneo” è quello della seduzione e della violenza), che sfiorano i tabù dell’omoerotismo e dell’incesto.
Inoltre nei romanzi della Invernizio l’alternarsi degli ambienti eleganti dell’aristocrazia e della ricca borghesia ai tuguri degli squallidi quartieri dove allignano il vizio e la miseria, l’ignoranza e la prostituzione, è funzionale a un interclassismo filisteo che consiste nel rendere romanzescamente possibili gli improbabili matrimoni tra le “figlie del popolo” e gli eredi di agiate e nobili famiglie. Si introduce così un ulteriore livello di ambiguità, se è vero che contro la ragazza povera e onesta (la ragazza che non ha ancora subito il furto dell'”onore”) è in agguato l’eterna congiura dell’aristocratico e diabolico seduttore.
Il bacio d’una morta, dai più considerato il capolavoro dell’autrice, racconta la storia di due fratelli, Alfonso e Clara, che ricorrono a inganni e sotterfugi à la Montecristo per strappare la figlia di lei, Lilia, dalle grinfie dello scellerato marito, il conte Guido Rambaldi, e soprattutto della di lui amante, la maliarda ballerina giavanese Nara. La trama si dipana tra tentati omicidi, finte morti, inseguimenti, svenimenti in abbondanza e vendette, con una tensione febbrile la cui efficacia, a differenza dello stile, si mantiene inalterata nel tempo. Perché è nel suo spirito isterico e febbrile che Invernizio trova la sua forza, e anche a uno sguardo ben più smaliziato di quello delle lettrici del suo tempo, Il bacio d’una morta appare ricco di atmosfere perturbanti, se non addirittura ambigue dal punto di vista morale.
A trainare il romanzo della Invernizio sono le donne, che non solo muovono la trama, ma incarnano anche i motori più potenti e oscuri dal punto di vista emotivo, mentre gli uomini si limitano a farsi trascinare da desideri e macchinazioni: se la perfida Nara sfoga la sua smania perfida e distruttiva su chiunque le capiti a tiro, protesa com’è a soddisfare il capriccio del momento e a devastare tutto il resto, la candida protagonista Clara è altrettanto determinata a conservare quello che ha, lotta strenuamente per riavere sua figlia, arrivando anche a mentire in tribunale, senza esitazioni e senza sensi di colpa.
Era splendidamente bella ed abbigliata con elegante semplicità. Nulla di più voluttuoso dei suoi occhi grandi, stupendi, dalle pupille luminose: il suo colorito bruno era alquanto animato: le labbra sensuali, di un rosso vivissimo, spiccavano sullo smalto dei denti bianchi, umidi, come quelli di un fanciullo: la bruna lanugine, che gettava una specie d’ombra agli angoli della bocca, dimostrava il carattere focoso, appassionato di quella donna: le sue narici rosee si dilatavano frementi: nello sguardo aveva qualcosa d’indefinito, d’imperioso.
Il bacio d’una morta è un’opera talmente ingenua e sovraccarica che la si può non prendere sul serio, così come si può ridere del rapporto tra Alfonso e Clara, che farebbe la gioia di legioni di psichiatri, o di Nara, in confronto alla quale Charles Manson era un chierichetto, o di Guido, descritto come il marito crudele per antonomasia e che in realtà è solo di un’imbecillità disarmante; tuttavia rimane una lettura divertente, a suo modo ricca, appagante, disimpegnata e leggera, capace di soddisfare con pienezza le voglie più semplici del lettore, quelle voglie che sempre esigeranno di essere soddisfatte.
Molti dei romanzi di Carolina Invernizio hanno avuto una trasposizione cinematografica a partire dai tempi del muto: Il bacio di una morta per l’appunto, La sepolta viva, L’orfana del ghetto, Il treno della morte.
Fonte: http://www.crapula.it/carolina-invernizio-o-il-brutto-che-piace/