“Disraeli Gears”: il blues psichedelico e onirico dei Cream

Psychedelic blues, un connubio interessante, insolito, tra la ferrea logica del blues e le divagazioni oniriche dei trip acidi. Un esperimento riuscito a pochissimi nella storia del rock; Jimi Hendrix, ad esempio, che in brani come Hey Joe o Little Wing, riesce a prendere il suono tradizionale della “musica dell’anima” ed a convertirlo in qualcosa di mai udito, ne prima ne dopo, ancorandolo nel contempo alla realtà storica in cui vive. Altri campioni a cui è riuscito un simile esperimento sono stati i Cream, power trio formatosi nel 1966 e  composto da tre assi della musica: Eric Clapton alla chitarra, Jack Bruce la basso e Ginger Baker alla batteria.

Tre musicisti molto diversi tra loro, tre personalità gigantesche, tre insuperabili performer che grazie alle loro peculiari caratteristiche (l’estrazione tipicamente blues di Clapton, la formazione classico/jazzistica di Bruce e la fascinazione per le percussioni africane di Baker) riescono a dar vita ad una miscela sonora praticamente unica ed inimitabile. Traghettano il blues del Delta negli anni ’60 grazie a memorabili cover (vedere il trattamento riservato alla celeberrima Crossroads di Robert Johnson o a Spoonful di Wille Dixon) facendolo apprezzare alle nuove generazioni ma, soprattutto, riescono trasformarlo in qualcosa di assolutamente nuovo contaminandolo con suoni modernissimi e di grande impatto.

«L’unica buona musica è quando dei buoni musicisti suonano l’uno per l’altro. Credo che questo sia ciò che ha reso i Cream così differenti dagli altri gruppi rock.». (Jack Bruce)

La testimonianza più compiuta di quanto appena detto si ha con il secondo album dei Cream, Disraeli Gears, forse il lavoro più famoso e riuscito in cui convivono tranquillamente brani come l’infuocata ed immortale Sunshine Of Your Love e la narcotica We’re Going Wrong. D’altro canto già la copertina “pepperiana” del disco, eccessiva ed ipercromatica, lascia intuire l’intenzione della band di proporsi come alternativa valida al suono di San Francisco, all’epoca dominante, ma con l’aggiunta di quell’inconfondibile sentore british. La chitarra acida e distorta di Clapton, il basso poderoso di Bruce e le percussioni torrenziali di Baker si fondono a meraviglia in capolavori quali Strange Brew, World Of Pain, nel blues “fatto” di Blue Condition, Outside Woman Blues e Take It Back, nel rock infuocato di SWLABR ed ancora nelle dilatate Dance The Night Away, We’re Going Wrong e Tales Of Brave Ulysses. Il risultato è talmente strabiliante che il disco supera il milione di copie vendute, diventa una pietra miliare conferendo alla band lo status di “supergruppo” ed accrescendo a dismisura la fama e la leggenda di singoli componenti. In accordo con l’atmosfera da “acid trip” che si sprigiona dai microsolchi, i concerti dei Cream diventano delle performance uniche che possono raggiungere una durata considerevole in cui viene lasciato grande spazio all’improvvisazione e allo sballo generale.

Le voci di Bruce e Clapton che si amalgamano a meraviglia o si alternano nel cantato, la batteria a doppia cassa di Baker che tuona come una tempesta, il basso pulsante e gli assoli stratosferici di chitarra che dal vivo assumono dimensioni ancora più mastodontiche, influenzano schiere di musicisti a venire quali Black Sabbath, Van Halen, White Stripes e Queen. La magia è, tuttavia, destinata a durare poco. Nel 1968, ad appena due anni dalla formazione, la band dei Cream si scioglie consensualmente con un live memorabile alla Royal Albert Hall ed un disco intitolato significativamente Goodbye. Le personalità molto forti dei tre componenti rendevano quasi impossibile una convivenza pacifica ed una comunità d’intenti, ma nonostante la parabola molto breve i Cream sono stati in grado di lasciare un’impronta indelebile nel mondo della musica con quattro album permeati di grande fascino e perizia tecnica in cui lo zoccolo duro del blues viene contaminato con il blues, il rock, la psichedelia ed anche il brit pop illuminando una miriade di possibilità ed aprendo un varco nel futuro.

“Paranoid”: il cupo vortice dei Black Sabbath

Paranoid-Vertigo Records-1970

All’epoca del loro secondo album, nel settembre del 1970, i Black Sabbath avevano già scioccato il mondo (musicale e non) grazie al loro epocale debutto. Suoni cupi, atmosfere lugubri, una cover inquietante, una evidente fascinazione per tutto ciò che è occulto, magico e misterioso rappresentano gli ingredienti essenziali per dar vita ad una nuova corrente che da li a pochi anni farà milioni di proseliti: l’heavy metal.  Il sound del gruppo è una miscela di hard rock e psichedelia caratterizzato dai poderosi power chords di Tony Iommi, dalla rocciosa sezione ritmica di Geezer Butler (basso) e Bill Ward (batteria) e dal raglio agonico del cantante Ozzy Osbourne. Tecnicamente non si avvicinano nemmeno ai ben più celebrati “colleghi” quali Led ZeppelinDeep Purple, ma i Black Sabbath hanno il potere di scrivere testi altamente evocativi, che uniti a melodie ipnotiche ed ad uno spiccato gusto per la teatralità, gli conferisce uno stile unico ed inconfondibile. Alla fin fine sono solo un ex gruppo blues con tendenze hippie ma l’appeal sui giovani adolescenti delusi dalla rovinosa fine della “summer of love” è innegabile. I benpensanti del tempo, ovviamente, non sono dello stesso parere e la band diviene oggetto di critiche spietate. A questo punto Osbourne e soci cambiano direzione rivolgendo la loro attenzione alle debolezze, alle deviazioni, alle paure più recondite dell’animo umano.

“Sul loro secondo album estremamente heavy metal, Paranoid, ci sono lamenti sulla distruzione della guerra e l’ipocrisia dei politici, i pericoli della tecnologia, e i pericoli dell’abuso di droga” (Rolling Stone-1970)

La straniante tirata antimilitarista di War Pigs, la poderosa ed alienata Paranoid, la dilatata Planet Carvan, la fantascientifica Iron Man, l’inquietante Electric Funeral, la marcia tossica di Hand Of Doom, la torrenziale Rat Salad (unico brano strumentale del disco), la violenta Fairies Wear Boots, rappresentano tutte tessere di un mosaico atto a scandagliare la metà oscura che ogni uomo ha dentro di se. Il risultato è un album violento, pesante, pauroso ma anche estremamente affascinante, significativo, culturalmente e sociologicamente importante. La generazione dei figli dei fiori entra nell’autunno degli anni ’70 incerta sulle gambe, squassata da dubbi, rabbia, delusione, alienazione e angoscia. Questo cantano i Black Sabbath ed è proprio questo ad attrarre e respingere il pubblico.

Black Sabbath-1970

C’è chi li ama in quanto portavoci di un malessere generazionale, c’è chi li odia perché quello che dicono mette paura. Sicuramente non passano inosservati anche grazie ad un notevole feeling tra i vari musicisti. A dispetto della semplicità delle incisioni (unici effetti usati l’eco per la voce e l’immancabile overdrive per la chitarra) il gruppo restituisce una compattezza ed una potenza non comune nonostante la strumentazione ridotta e la non elevata cifra tecnica. Il fatto poi che questo lavoro è stato inciso in soli cinque giorni e con un budget limitatissimo denota una comunità d’intenti ed un’ispirazione veramente notevole. Il suo impatto e la sua influenza sono stati e restano enormi e le sue eco si propagano fino ai giorni nostri. Megadeth, Green Day, Pantera, Slayer sono solo alcuni degli artisti che hanno rivisitato i brani contenuti in Paranoid ed hanno ammesso la fondamentale influenza dei Black Sabbath, sia dal punto di vista lirico che musicale, nella loro produzione. Milioni di gruppi, famosi e non, ne hanno copiato il modo di stare in scena, il look maledetto, l’iconografia magico-satanista, gli spunti granguignoleschi e le tematiche tormentate consacrandoli personaggi simbolo, non solo di un modo di fare musica, ma di un vero e proprio stile di vita. A distanza di più di quarant’anni la forza inossidabile di Paranoid resiste costantemente allo scorrere del tempo, al mutare delle mode ed al progresso della tecnica, diventando una vera e propria pietra miliare del rock ed uno dei migliori album mai incisi in assoluto.

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