I migliori editori della storia dell’editoria italiana e il grande agente letterario Linder

Editori protagonisti. Così li definisce Gian Carlo Ferretti che al mondo dell’editoria ha dedicato tanti libri: editori protagonisti. Sono di cultura ed estrazione diversissima, ma tutti capaci «di imprimere un’identità editorial-letteraria alla propria impresa al fine di costruire un proprio pubblico. Si tratta degli editori che hanno fondato le loro grandi imprese proprio a cavallo della seconda guerra mondiale. Ad ogni casa editrice, Ferretti affianca una etichetta caratterizzante: la Mondadori è un’istituzione, la Rizzoli un impero, Bompiani un club, l’ Einaudi un laboratorio. La loro presenza nel panorama culturale italiano nasce dal  «rapporto consapevole tra l’editore, il suo progetto, i suoi funzionari e consulenti, i suoi redattori, la sua macchina, e si realizza nella politica d’autore, di collana e di prodotto».
Gli editori protagonisti erano titani dalla forte personalità (e dalle grandi contraddizioni), caratterizzati spesso da gusto per il libro ben fatto, senso pratico e grande fiuto; i quali costruivano veri e propri rapporti continuativi, tra armonie e conflitti reciproci fecondi, con gli scrittori. Ne abbiamo individuati cinque, che vediamo qui negli anni fondativi, seguiti da una figura eccentrica, il “padre” degli agenti letterari italiani.

Arnoldo Mondadori
La casa editrice viene fondata a Ostiglia nel 1907 dalla collaborazione di Arnoldo Mondadori (nato nel 1889) con Tomaso Monicelli (il padre del futuro regista Mario). Arnoldo non ha neppure finito le scuole elementari, ha lavorato giovanissimo come garzone, come venditore e poi come tipografo ed è soprannominato “incantabiss”, “incantaserpenti” per la sua voce seducente. La novella casa editrice pubblica i primi testi (la collana “La lampada” per l’infanzia) nel 1912; poi si trasferisce a Milano specializzandosi in riviste popolari (“Il Milione”, “Il secolo illustrato”). Nel 1933 vara la prestigiosissima collana di colore verde “La Medusa”, dedicata alla letteratura straniera; il primo volume fu Il grande amico di Alain-Fournier tradotto da Enrico Piceni. Limitata dalla censura fascista tra il ’38 e il ’42, contribuì subito dopo a diffondere la cultura americana.
Per evitare i bombardamenti nel 1942 la sede e le redazioni si trasferiscono sul lago Maggiore, dove dopo l’8 settembre 1943 vengono però requisite dal governo della Repubblica Sociale Italiana. La gestione viene commissariata e la famiglia Mondadori si rifugia in Svizzera.
Dopo la guerra Arnoldo Mondadori riprende possesso dell’azienda e ne avvia la ricostruzione con il recupero delle macchine di stampa trafugate dai nazisti e con l’acquisto, grazie anche ai contributi del Piano Marshall, delle nuove rotative americane necessarie per lo sviluppo dell’attività nei periodici.

Fiducioso nel suo intuito, Arnoldo si rivolge al pubblico femminile con Bolero Film e Confidenze, lancia nuove collane di alto livello letterario, tra cui i Classici contemporanei italiani (1946) e i Classici contemporanei stranieri (1947), rilancia i generi bloccati dal fascismo riprendendo nel 1946 i Libri gialli che raggiungono in breve le centomila copie al mese, e Topolino (che era stato introdotto in Italia dall’editore fiorentino Nerbini nel 1932).
La filosofia editoriale di Arnaldo poggiava sullo scambio epistolare tra autore ed editore: ne sono testimonianza i carteggi conservati presso la fondazione Mondadori accessibili on line.
Arnoldo fu affiancato per un primo periodo dal figlio maggiore Alberto, corrispondente di guerra, fondatore di riviste importanti come il Tempo ed Epoca, che poi si separerà dal padre per contrasti fondando la casa editrice il Saggiatore.

Angelo Rizzoli
Nato – come Mondadori – nel 1889, cresciuto nel Collegio dei Martinitt a Milano, figlio di un ciabattino analfabeta che morì prima che lui nascesse, Angelo Rizzoli conobbe la più cruda povertà e imparò il mestiere di tipografo proprio in orfanotrofio. A vent’anni iniziò la sua carriera di imprenditore nel campo dell’editoria in una piccola sede tipografica a piazza Carlo Erba e, subito dopo la guerra, vicino al parco Lambro, in un moderno stabilimento.
Nel 1927 acquistò dalla Mondadori il bisettimanale Novella sul quale, al tempo, venivano pubblicati racconti di D’Annunzio e Luigi Pirandello; nel 1930 Novella divenne un periodico femminile, raggiungendo la tiratura di 130.000 copie.
A Novella seguirono Annabella, Bertoldo, Candido, Omnibus, Oggi e L’Europeo.

Dopo i periodici, Rizzoli iniziò nel 1949 a pubblicare anche libri scegliendo con lungimiranza una politica editoriale “economica” con i libri della collana BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), 4 libri classici a prezzi popolari: i famosi volumetti “grigi”, formato 10,5 per 15,7 centimetri, prezzo 50 lire, che dal 1949 hanno offerto alle classi meno abbienti l’opportunità di avvicinarsi alla lettura. Erano stati i consulenti Paolo Lecaldano e Luigi Rusca a convincere l’editore a dare vita a una collana di classici a prezzo molto contenuto destinata al grande pubblico, ispirata al sistema modulare dell’editore tedesco Reclam. Primo titolo pubblicato i Promessi Sposi, quindi Teresa Raquin di Zola e Il fantasma di Canterville di Wilde. La tiratura iniziale era 10.000 copie, ma il successo fu talmente grande, parallelo alla voglia di cultura di un’Italia uscita dalla guerra, che pochi mesi dopo lo standard salì a 20.000 copie, poi a 30.000, quando la tiratura media in Italia allora si attestava attorno alle 3000 copie. Un successo considerato di tale portata che l’Unesco nel 1952 attribuisce alla Bur il titolo di “iniziativa di importanza e interesse mondiale”.

Giulio Einaudi
La casa editrice Einaudi viene fondata nel 1933 da un gruppo di amici, allievi del liceo classico D’Azeglio di Torino e, seppure in anni e in classi diverse, tutti allievi del professore Augusto Monti, che li aveva educati ai valori della cultura, della libertà e dell’impegno civile. Intorno al più giovane di loro, Giulio Einaudi (nato nel 1912, da Luigi, che sarà il primo presidente della Repubblica Italiana dal 1948 al 1955), si erano raccolti Leone Ginzburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Cesare Pavese, affiancati successivamente da altre figure come Natalia Ginzburg (moglie di Leone) e Giaime Pintor. Il progetto editoriale che ne nasce intende intervenire nel campo della storia, della critica letteraria e della scienza «con l’apporto di tutte le scuole valide, non appiattite dal prevalere della politica sulla cultura». La conduzione è collegiale e i collaboratori sono amici e sodali.
Una cura particolare è dedicata alla fattura dei libri: la carta, la legatura, le copertine (le prime furono dipinte da Guttuso, Ajmone, Peverelli, Menzio) e anche la grafica, per la quale l’Einaudi sarà all’avanguardia grazie alla collaborazione di maestri come Albe Steiner e Max Huber e poi Bruno Munari.

Giulio Einaudi e soprattutto i suoi più stretti collaboratori devono fare i conti con arresti, condanne al confino, ma l’attività editoriale si interrompe solo con l’8 settembre 1943. La lotta di resistenza disperde tutti. Leone Ginzburg e Giaime Pintor muoiono tragicamente. Giulio Einaudi si rifugia in Svizzera, poi rientra in Italia unendosi alle brigate garibaldine in Val d’Aosta, e nel 1944 a Roma incontra Palmiro Togliatti; è l’inizio di una serie di contatti dai quali scaturirà, fra il 1947 e il 1951, la pubblicazione di Lettere dal carcere e dei Quaderni di Antonio Gramsci.
Dopo la guerra il lavoro editoriale sarà affidato ad intellettuali e scrittori di spessore come Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Luciano Foà, Giulio Bollati, oltre a Cesare Pavese. Nel 1946 comincia a gravitare attorno alla casa editrice Einaudi Italo Calvino vendendo libri a rate. Passato dagli studi di Agraria a quelli di Lettere, si dedica alla stesura del suo primo romanzo che conclude negli ultimi giorni di dicembre, Il sentiero dei nidi di ragno, con il quale partecipa a un concorso promosso dalla Mondadori. Il romanzo non vinse, ma Cesare Pavese lo propose a Giulio Einaudi, che accettò di pubblicarlo, dando così inizio a un rapporto con Calvino che sarebbe proseguito per gran parte della sua vita, in veste di autore, di consulente, di redattore e direttore di collane.

Valentino Bompiani
Proveniente da una famiglia ricca e aristocratica, di tradizioni militari, si avvicinò all’editoria con un apprendistato di circa cinque anni presso la Mondadori, prima come segretario di Arnoldo e poi come segretario generale, e nel 1928 fece una breve esperienza presso la casa editrice Unitas (specializzata in testi scolastici e periodici), che a breve subirà il fallimento per aver pubblicato senza permesso una parodia dei Promessi Sposi di Guido da Verona. Valentino Bompiani fondò la sua casa editrice (non comprensiva di tipografia, come invece erano Mondadori e Rizzoli) nel 1929 a Milano.

Nel ’39 Bompiani conferì a Vittorini l’incarico di dirigere la collana “Corona” e di curare l’antologia di scrittori americani Americana che, a causa della censura fascista, venne pubblicata solamente nel 1942 e con tutte le note dell’autore soppresse (l’edizione integrale uscì nel 1968). Vittorini pubblicò per Bompiani il suo romanzo Uomini e no (1945) e lavorò per lui tra il 1938 e il 1943. La Capria ricorda l’elegante formato “gotico” in cui uscirono Cronin, Caldwell e Steinbeck, ma anche Alvaro, Moravia, Brancati, Vittorini: «la gente si accorgeva che esistevano anche romanzi italiani che potevano ben reggere il confronto con gli stranieri».

Tra il gennaio del 1943 e la Liberazione la censura blocca la stampa della Dickinson e di Conrad, ordina il sequestro di Il Volga nasce in Europa di Curzio Malaparte e tra le opere della collana “Corona” non concede il nulla osta a Gide, a Proust, a Cocteau.. La stampa di Salò non manca di attaccare l’attività della Bompiani. Si legga l’ironico commento su “Il Fascio” del 22 ottobre 1943:

«Quale magnifica prova di coerenza continuano a dare gli editori e i librai italiani, almeno quelli di Milano. Certo in prima fila sta l’editore Bompiani – l’editore di quell’incrocio di giudeo e di slavo Alberto Moravia (…) – l’editore Valentino Bompiani che subito accolse nella sua casa l’ebreo avvocato Falco allorché questi, per le leggi razziali, non poteva più esercitare la professione forense, e che scelse pure come proprio braccio destro quell’ ‘americanista’ Elio Vittorini di cui parlammo nel numero scorso»

Tra il 1945 e il 1950 con un lavoro immane (in casa editrice l’opera era soprannominata “L’arca di Noè”) fu completato il Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, in tredici volumi, a cura di Celestino Capasso, Paolo De Benedetti e la revisione filologica di Carlo Cordiè, ideato già dal ’38 con lo scopo di «mettere in salvo, con la memoria e lo studio di chi conosceva direttamente le opere, tutto ciò che l’uomo ha pensato e scritto nei millenni, dalle origini ad oggi».

Aldo Garzanti
Forlivese, figlio di un maestro elementare ex-garibaldino e quindi allevato agli ideali risorgimentali, allievo all’università di Bologna di Giovanni Pascoli, Aldo Garzanti fu all’inizio insegnante e poi imprenditore chimico, finché nel ’39 non rilevò la prestigiosa Fratelli Treves, la casa editrice di D’Annunzio, Verga, de Amicis e Pirandello – costretta a chiudere per le leggi razziali – continuandone la linea editoriale. La nuova sede di Forlì riesce a conquistare un buon numero di lettori con Il mulino del Po, romanzo di Riccardo Bacchelli, uscito nel 1940, che nel giro di tre anni raggiunge le 100.000 copie vendute.
In una lettera del 24 marzo 1942 Aldo Garzanti rispondeva alla lettura di un breve testo (Essi pensano ad altro) arrivato da Reggio Emilia a firma Silvio D’Arzo. Garzanti ammetteva di trovarsi preso in una «martellante e ossessionante allucinazione» dove il lettore, necessariamente coinvolto nel gioco, doveva «[…] per molte e molte pagine aspettare, attendere, sperare». Ma infine Garzanti ne rifiutò la pubblicazione, così come già Bompiani, nella persona di Emilio Cecchi ed Einaudi, attraverso Pavese e la Ginzburg, avevano rifiutato Casa d’altri (che uscì poi per Vallecchi).
Dopo i pesanti danni subiti nel 1943 per i bombardamenti, che distrussero anche gli archivi, Aldo Garzanti avvia un piano di ricostruzione: nel ’44 affida a Gio Ponti la costruzione del palazzo Garzanti in via della Spiga a Milano (la sede che poi negli anni ottanta sarà affrescata da Tullio Pericoli); si dedica poi alla Fondazione Garzanti a Forlì, affidando la casa editrice milanese al figlio Livio che l’ha diretta dal ’52. E’ lui, Livio Garzanti, che per personalità può entrare nella “cinquina” degli “editori protagonisti”.

La figura dell’agente letterario

Quella dell’agente letterario è una professione ormai stabile dell’editoria: l’industrializzazione del mercato del libro, il conseguente aumento delle dimensioni di alcune case editrici, la diversificazione delle attività al loro interno lo richiedono. Inizialmente, in Italia l’agente letterario si occupava soltanto dei diritti dei titoli stranieri che venivano “importati”. È con Erich Linder che l’agente letterario acquisisce nuove funzioni editoriali; egli viene definito “il padre di tutti gli agenti letterari italiani”.

Nato in Galizia nel 1925 da madre polacca e padre rumeno, fu tra le più autorevoli e influenti figure dell’editoria mondiale, rappresentando 10.000 autori tra i quali Pound, Mann, Joyce, Kafka, Roth, Brecht, Salinger, e i più importanti in Italia.
Immigrato in Italia prima della seconda guerra mondiale, colpito con la sua famiglia dalle discriminazioni razziali, frequentò la scuola ebraica romana. Durante la guerra riuscì con avventure rocambolesche a sfuggire ai tedeschi, per poi raggiungere l’esercito alleato con cui rimase sino alla fine della guerra. Conosceva perfettamente cinque lingue. Augusto e Luciano Foà lo coinvolsero a collaborare all’impresa delle nuove Edizioni Ivrea di Adriano Olivetti e in seguito, per la sua competenza di traduttore, con la casa editrice Bompiani. Nel 1951 assunse la guida della Agenzia Letteraria Internazionale, ALI, fondata nel 1898 da Augusto Foà e lasciata da Luciano che era stato chiamato da Einaudi a sostituire Cesare Pavese dopo il suicidio. L’ALI sotto la guida di Linder divenne tra le più importanti agenzie letterarie al mondo, e forse la più importante in Europa.
Alla domanda «Chi è un agente letterario?» Linder stesso rispondeva:
«Un agente letterario è un amministratore di autori. Non c’è nessuna ragione perché si debbano avere dei commercialisti, degli avvocati e perché invece gli autori non debbano far gestire i loro affari da qualcuno che conosca il mestiere: gli autori dovrebbero scrivere libri»
In un convegno internazionale a lui dedicato, Inge Feltrinelli ricorda:

«Era un uomo molto rispettato e anche un po’ temuto. Incuteva una certa soggezione: perdere la sua simpatia poteva significare perdere anche la possibilità di pubblicare autori cui si teneva molto. Abituati a fare da soli, sia nella fase di scouting sia in quella, più delicata, delle trattative contrattuali, gli editori italiani nel dopoguerra dovettero fare i conti con Linder e accettarlo come interlocutore. (…) Linder aveva una grande idea del proprio ruolo, consapevole che con i suoi sì o i suoi no finiva con il dar forma ai programmi letterari del mondo librario italiano.»

E Leonardo Sciascia: «Stando con lui, al fatto economico, alla sicurezza di ricevere diritti e compensi, si accompagnava la possibilità di comunicare con gli editori, e specialmente con gli editori stranieri, il farsi sentire, l’avere – per così dire – voce in capitolo»

 

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Ottiero Ottieri, l’intellettuale e il mondo dell’industria

Nato a Roma nel 1924 da famiglia pisana, Ottiero Ottieri studia presso il Collegio Massimo dei Gesuiti trascorrendo lì gran parte della sua adolescenza. La vena letteraria appare fin da subito viva in Ottieri, infatti  giovanissimo all’età di quattordici anni, compone una serie di versi sulla terrazza di un alberghetto a Villabassa, descrivendo le Dolomiti. Nel 1945 Ottieri si laurea in lettere presentando una tesi scientifica sulle operette amatorie di Leon Battista Alberti. Dopo la laurea segue un corso di perfezionamento di letteratura inglese traducendo una serie di drammi significativi.

Nel 1946 Ottiei si trasferisce a Milano dove comincia la propria carriera giornalistica. Qui lo scrittore trova subito lavoro presso l’ufficio stampa della Mondadori: inizialmente comincia a collaborare alla <<Fiera Letteraria>> e in seguito ad altre riviste e quotidiani. Nel 1947 vince il Premio Mercurio per un racconto dal titolo L’isola sulla rivista omonima. Grazie al suo amore per la conoscenza in tutti i campi segue con grande entusiasmo anche studi sociali e psicologici, durante i quali Ottieri conosce Cesare Musatti. Nel 1950, a Lerici, sposa Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani.

Ottieri e l’incontro con la realtà industriale

Nel 1952 Ottieri viene assunto alla Olivetti rimanendovi fino al 1965. Ed è proprio grazie a questo nuovo lavoro che conosce  un mondo diverso: quello dell’industria del primo dopoguerra. Argomento chiave delle sue opere infatti sono i rapporti difficili fra l’operaio e la macchina inerenti al lavoro alienante della fabbrica. Nei <<Gettoni>>, diretto da Elio Vittorini, Ottieri esordisce con il romanzo Memorie dell’incoscienza (1954), che documenta la condizione morale di quella generazione che entrava in crisi con il crollo del fascismo. La storia si svolge nel 1943 in Toscana, durante il periodo dell’armistizio “badogliano”. La trasposizione autobiografica di quella esperienza giovanile è molto evidente nel romanzo che vede un Ottieri mostrare di aver vissuto quell’esperienza con grande sincerità; la sua incoscienza, ovvero lo stato di sospensione morale della sua generazione, tra un mito crollato e la perplessità di accogliere altre fedi con le quali riempire il vuoto interiore, è resa con una verità psicologica che depone sulle qualità di Ottieri di attento osservatore dell’ambiente sociale in cui viveva.

Nel 1957 Ottieri pubblica il suo secondo libro Tempi stretti considerato il manifesto della civiltà industriale che vuole mettere in evidenza, nonché significativo esempio appartenente alla cosiddetta letteratura industriale, filone di cui facevano parte autori come Primo Levi, Bianciardi, Volponi, Parise, Pagliarani. Si tratta di un documento di una nuova esperienza: lo scrittore infatti rappresenta il cambiamento del paesaggio urbano e le conseguenze che si verificano sulla vita degli individui con i problemi relativi al lavoro e agli scioperi con una visione dolorosa, serrata entro una legge ferrea e squallida che prevede il calcolo e lo sfruttamento di una minima frazione di tempo. Il romanzo si muove su due piani: su quello della vita associata alla fabbrica e su quello privato, su un rapporto sentimentale. La novità essenziale di Tempi stretti sta nella crescita morale del protagonista Giovanni, di fronte ai problemi connessi a quelli della sua responsabilità sociale. Ottieri inoltre fornisce al lettore un’esatta fisionomia della città operaia di Milano.

Ottieri continua il proprio progetto con Donnarumma all’assalto (1959), un romanzo-diario che registra le condizioni degli operai dal punto di vista di uno psicologo che si occupa di scegliere i dipendenti. Egli giungerà ad una conclusione amara: l’intellettuale a causa della sua diversa collocazione non può rappresentare in maniera autentica la classe operaia. Lo scrittore racconta il conflitto tra un organismo di fabbrica modernissmo ma calato come un aerolito in un ambiente dove non esiste alcuna possibilità di maestranze qualificate ma solo fornite di una qualità elementare: il bisogno di lavorare, l’istinto di sfamarsi. Ma alla fine , il conflitto non è più tra legge della fabbrica e l’onda di umanità  che le si scaglia contro; è tra la necessità e la libertà, la necessità dell’ordine e della tecnica  e la libertà dell’uomo operaio. Questo conflitto metafisico, Ottieri, in veste di diarista-psicologo lo riassume in una paginetta alla fine del libro:

<<Un pezzo in un dato tempo va eseguito con un dato metodo, cioè con movimenti prestabiliti. Ad ogni operaio piacerebbe, d’istinto, arrangiarsi da solo, inventare la sua maniera di correre, ma il cronometrista gli assegna il tempo, e gli insegna, gli impone come raggiungerli; come manovrare l’attrezzo, muovere la mani e i piedi, regolarsi nella successione dei gesti. L’operaio crede che questa costrizione lo rallenti e che, sbrogliandosela da solo, improvvisando, andrebbe più svelto; cerca insomma la sua libertà. Ma il tempo ha la propria ragione…>>.

Per Ottieri dunque l’operaio ritroverà la sua libertà solo quando la ragione sarà tornata ad essere istinto, creatività ed iniziativa spontanea. Un operaio-artista, insomma ben lontano dalla triste immagine cui siamo abituati a concepire quando pensiamo al duro lavoro in fabbrica e ci viene in mente la figura dell’alienato Lulu (interpretato da uno stepitoso Volonté), protagonista del capolavoro di Elio Petri, La classe operaia va in paradiso che racconta l’esperienza asfissiante e atroce della condizione dell’operaio negli anni settanta che è quella narrata da Ottieri in Tempi stretti.

 

L’avvicinamento alla psicoanalisi

Abbandonato il filone “industriale”, Ottieri si dedica alla tematica cronachistica e memoriale esordendo con La linea gotica, con l’obiettivo di indagare in profondità l’”io” nelle sue mille sfumature. Grazie a questa nello stesso anno vince il Premio Bagutta. A partire dalla metà degli anni Sessanta, egli convoglia il proprio amore per la psicologia con l’autobiografismo dando luce ad opere come L’irrealtà quotidiana (1966), saggio romanzesco sulla “malattia morale”, che gli vale il Premio Viareggio. Sulla scia dell’introspezione psicologica scrive anche (Il pensiero perverso, 1971) e Il campo di concentrazione (1972), diario di un lungo ricovero per una grave depressione. In seguito lo scrittore nato a Roma continua la sua indagine esplorando temi satirici e caricaturali come ne Il divertimento (1984), e in Improvvisa la vita (1987). Ottieri raggiunge il traguardo della sua scrittura nel 1996 con Il poema osceno opera costituta da un misto di prosa e versi. Nel 1997 sorprende i suoi lettori con l’opera De morte, un libro provocatorio in cui definisce come suo obiettivo: “La mia unica parola nuova è nominare la morte in un ambiente che la tace per convenienza”. Ottiero Ottieri muore a 78 anni, a causa di un attacco cardiaco, nella sua casa di Milano, il 25 luglio 2002.

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