Chi sono i morti dell’Europa? Il vuoto di Renzi, Salvini e della sardina Sartori

Pavel Ivanovič Čičikov attraversa la Russia per acquistare anime morte, i servi della gleba deceduti ma non ancora registrati come tali, così da costruirsi un capitale di spettri, una ricchezza fantasmatica da tramutare, poi, in viatico d’ascesa sociale. Questa figura mediocremente cordiale, “un uomo molto ammodo, comunque lo si rigirasse”, cui Gogol’ attribuisce i tratti della più totale banalità – né bello né brutto, né grasso né magro, né vecchio né giovane – è la metafora letteraria perfetta per il vuoto di rappresentanza che infesta l’Europa, reso ormai palese dal recente trionfo dei conservatori di Boris Johnson in Gran Bretagna.

Matteo Renzi, non unico fra gli affranti commentatori liberal, si affretta a dar la colpa a Jeremy Corbyn: la colpa di essere troppo a sinistra, nello specifico. Una lettura, però, semplicistica e strumentale, che non tiene conto dell’analisi del voto. Con buona pace della nostra sinistra-ma-non-troppo, le mappe e i numeri dipingono un quadro diverso: il Labour perde consensi soprattutto nelle aree storicamente rosse, il cosiddetto red wall. Nel nord dell’Inghilterra, quindi, nelle vecchie roccaforti operaie, le stesse zone che si erano schierate più decisamente per il leave in materia di Brexit.

La sterzata socialista promessa da Corbyn può aver spaventato gli europeisti di Londra, il grande capitale, la gauche caviar, certo, ma la vera catastrofe si registra proprio fra i votanti che Renzi definirebbe “di sinistra dura e pura”.

Il fenomeno è, sul fondo, identico a quello che stiamo osservando da più di un decennio in Italia: un travaso del voto popolare, a basso reddito, dalla sinistra alla destra. Eccole qui le anime morte, intere fasce della popolazione emarginate dai processi democratici, elettori che votano ma, chiunque votino, non verranno rappresentati. Salvini è il nostro Čičikov: viaggia di piazza in piazza, di sagra in sagra, discute con il medesimo piglio popolaresco di Nutella e della Madonna, e così raccatta questo popolo dimenticato, offrendo nient’altro che la propria presenza.

Salvini, quando parla di assetto economico nazionale, è curiosamente vicino ad Emma Bonino: la stessa venerazione per l’impresa privata, la stessa insofferenza per regolamentazioni, interventi dello Stato, tassazione progressiva, solidarietà sociale, per tutto ciò che non è mercato.
Però Salvini non ne parla spesso. I suoi argomenti sono altri, e meno rischiosi: l’immigrazione e la sovranità.

Così come la campagna elettorale di Johnson è stata del tutto incentrata sulla Brexit, tanto da trasformare le elezioni politiche, alla prova dei fatti, proprio in quel secondo referendum vagheggiato da Corbyn. Un gioco di prestigio, questo, che nasconde un tragico cortocircuito: la sinistra non potrà mai realizzare politiche sociali risolutive, e quindi recuperare consenso laddove l’ha perso, finché non saranno spezzate le catene europee; e la destra, che vuole spezzare le catene europee, non è interessata alla politica sociale. Il Jeremy Corbyn ambiguo, pavido, incapace di interpretare la Brexit, è l’incarnazione più recente di questo paradosso.

Nel frattempo, l’attività principale degli opinionisti di sinistra sembra essere la ricerca di giustificazioni fantasiose per i propri fallimenti. A sabotarci, ci raccontano, sono i vecchi, gli ignoranti, chi non è progressista, multiculturale, dinamico, moderno e almeno un po’ gender fluid: un odioso vaniloquio hipster che offusca la realtà, altrimenti cristallina.

Gli europei che odiano l’Unione Europea sono quelli che ne hanno pagato il prezzo: non i giovani, che non ricordano com’era prima, e non i ricchi, che delle devastazioni causate dall’austerità possono infischiarsene. Al posto del necessario mea culpa, però, la sinistra italiana preferisce mandare in piazza un ulteriore Čičikov, un nuovo pifferaio del nulla: la sardina Mattia Santori con i suoi seguaci.

Anche lui, come Salvini, predica il vuoto spinto: basta odio, integrazione universale, affidiamoci ai competenti. Anche lui, come Salvini, è una toppa appiccicata male sul vestito a brandelli della democrazia. Un “romanzo ideologico d’appendice”, per dirla con Gramsci, fatto di buonismi e cattivismi ugualmente fumosi, in cui naufraga la questione fondamentale della rappresentanza: nessuno parla davvero in nome della maggioranza degli italiani.

 

Claudio Chianese

La vittoria Di Boris Johnson: ‘Let’s get Brexit done!’

“Abbiamo il nostro sogno e il nostro proprio compito. Noi siamo con l’Europa, ma non dell’Europa. Siamo collegati, ma non mescolati. Siamo interessati e associati ma non assorbiti”. Sembrano riecheggiare così le parole pronunciate da Winston Churchill nel lontano 1930 mentre Boris Johnson, uno dei suoi più grandi estimatori, ottiene con 364 seggi la tanto agognata maggioranza assoluta.

Il red wall laburista è stato abbattuto, Jeremy Corbyn ha perso ben 42 seggi rispetto alla legislazione precedente. Una vera e propria débâcle per il leader laburista, il cui partito ha ottenuto il peggior risultato dal 1935. Sono venute meno alcune roccaforti del Nord come Workington e Darlington, seggi tradizionalmente laburisti, in cui Corbyn ha perso rispettivamente 11,9 e 10,1 punti percentuale rispetto alle elezioni precedenti. Anche la Blyth Valley, indipendente o laburista dal 1950, non è più rossa.

Labour Party ha perso, qui, ben 15 punti: cinque sono andati al Partito Conservatore, che ha fatto suo il seggio, e ben otto al Brexit Party di Farage. La vittoria di Johnson era stata vaticinata nei giorni passati, ma non si credeva che avrebbe ottenuto un tale successo. Come ha titolato il The Sun per il labour è stato un vero e proprio Nightmare before Christmas che sarà difficile dimenticare.

La campagna elettorale di Corbyn impostata su un programma radicale di nazionalizzazione dei servizi pubblici e di ampi investimenti statali non ha convinto, come avrebbe dovuto, gli elettori. Mentre il mantra di BoJo “Let’s get Brexit done” è uscito vincitore dalle urne. Bisogna tener presente che queste elezioni sono state considerate, da gran parte dell’elettorato inglese, come un secondo Referendum.

E che soltanto Johnson ha espresso in maniera chiara la sua posizione sulla Brexit, ovvero rispetto della volontà popolare e uscita in breve tempo dall’Unione Europea. Corbyn, invece, ha mantenuto sempre un atteggiamento ambiguo. La proposta laburista di ottenere un nuovo accordo per poi inserirlo in un secondo Referendum insieme all’opzione di rimanere nell’UE non è stata premiata dall’elettorato. Così come non è stata premiata Bo Swinson, paladina antibrexit che, dopo aver perso il proprio seggio nel Dunbartonshire orientale, si è dimessa da leader del partito Liber Democratico.

L’unico partito contrario alla Brexit che riesce ad avanzare è quello Indipendentista scozzese, che ottiene ben 48 seggi su 59 disponibili. La leader Nicola Sturgeon ha dichiarato che Boris Johnson non ha altra scelta che concedere alla Scozia un secondo Referendum sull’Indipendenza. Una proposta che BoJo difficilmente accetterà dato che durante tutta la campagna elettorale ha promesso di evitare una uscita della Scozia dal Regno Unito.

Per il momento Johnson può godersi la sua vittoria: il Regno Unito saluterà l’Unione Europea entro il 31 Gennaio 2020, data in cui il Primo Ministro avvierà le trattative per definire i rapporti futuri con l’Unione. Il percorso non si è ancora concluso e il destino che attende la terra di Sua Maestà è ancora incerto. Come sosteneva Dean Acheson, segretario di Stato americano nel 1962: “La Gran Bretagna ha perso un impero e non ha ancora trovato un ruolo”. Mai come ora queste parole risuonano vere.

 

Clara Rosati

La vittoria della Brexit e i denigratori del voto democratico

Da poco più di dieci giorni la Gran Bretagna è fuori l’Unione Europea. In una giornata che rimarrà per sempre nella storia, il referendum sulla Brexit ha decretato la vittoria del «leave» che si è attestato al 51,9% a scapito dei  sostenitori del «remain» che hanno ottenuto il 48,1%. Cameron si è dimesso, Farage continua ad esultare, il leader laburista Jeremy Corbyn ribadisce di non avere alcuna intenzione di dimettersi per rispetto di chi lo ha eletto e l’élite seguita a storcere il naso. In molti hanno gridato al voto populista che danneggia il popolo, sottointendendo che chi ha votato per il leave è un ignorante che si è lasciato sedurre dall’appassionante campagna pro-Brexit e prendere dalla paura, soprattutto in relazione alla questione dei selvaggi flussi migratori. Si è trattato di un voto emotivo dunque, secondo l’establishment, secondo diversi espertoni di economia, secondo l’élite, la quale è per natura nemica della democrazia. Quell’élite che, se l’esito di un voto piace e fa comodo, esulta ringraziando il popolo intelligente, in caso contrario denigra il voto democratico, insinuando che sia xenofobo, razzista, populista, pericoloso!

Brexit: un voto che non piace all’élite

La vittoria del Brexit è stata salutata dall’élite come frutto della paura di cittadini ignoranti in materia di economia e finanza, cercando tuttavia di ripararsi dalle accuse di faziosità e antidemocraticità con giri tipicamente cerchiobottisti. In effetti l’élite dispone di diversi metodi per castrare la volontà dei cittadini, dando la possibilità di scegliere solo tra partiti identici o ipotizzando addirittura di rifare le elezioni dopo un verdetto popolare che non va a genio, basti pensare alle recentissime dichiarazioni dell’ex premier “tecnico” Mario Monti, allevato nelle congreghe come la Bilderberg e la Trilateral a proposito del Referendum in Gran Bretagna: “David Cameron ha abusato della democrazia”, e ancora “Sono contento che la nostra Costituzione, quella vigente e quella che forse verrà, non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei trattati internazionali”. Dunque secondo Mario Monti è meglio delegare a rappresentanti telecomandati dalle lobby finanziarie che li hanno sostenuti per diventare deputati, il potere di decidere cosa sia meglio per il popolo bue. Andassero a spiegare i vantaggi di rimanere nell’UE agli strati sociali che soffrono, alle periferie, dato che la Gran Bretagna versava all’Europa 14,7 miliardi di euro all’anno e attraverso i fondi ne riceveva indietro solo 6,6. Perché i cittadini inglesi avrebbero dovuto rimanere in questa Europa? Cosa avrebbero dovuto fare per arrestare il degrado? Gli operai di East Lindsay avrebbero dovuto continuare a vivere nelle loro case fatiscenti e accettare passivamente il loro destino di braccia da lavoro? Inoltre il problema non è solo la working class: questa Europa non è in grado di garantire nulla di utile ai paesi che aderiscono, a tutti i cittadini. Bruxelles non conta nulla se non a livello notarile.

I turisti della democrazia, con la loro sfera di cristallo che gli permette di fare previsioni catastrofiste hanno tolto la maschera, il popolo è disinformato, ragiona con la pancia! Il Brexit porterà solo svantaggi al popolo! Brexit: un terrorista su due la consiglia, Brexit: ci sarà l’invasione delle cavallette. Che questo danneggi il popolo è tutto da vedere, ci sono economisti che dicono il contrario e la Gran Bretagna ha radici in Canada, Australia, Sud Africa, Nuova Zelanda, moneta propria, Londra e il circondario sono  già adesso una cittadella finanziaria, non ha bisogno dell’Europa, distante anni luce dai reali bisogni di tutti i suoi cittadini, per vivere, semmai è l’Europa che ha bisogno di lei. Il problema attuale è la disgregazione: Scozia e Irlanda del Nord scricchiolano e l’effetto domino è reale. Il voto britannico non è stato un test per avere una risposta giusta ed una sbagliata; il voto è stata una scelta. E i cittadini inglesi non sono così disinformati come si è voluto far credere, hanno votato secondo coscienza, dando un segnale forte a tutti, ribellandosi al tecnofascismo europeo. Del resto la situazione degli operai non sarebbe cambiata di una virgola se la la Gran Bretagna fosse rimasta in Europa. Altro che popolo bue.

 

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