Aldo Moro e la rappresentazione della storia, dai film che rimandano ad una iconografia stereotipata al romanzo di Vasta che racconta la storia come materia

Aldo Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto-

La rappresentazione della storia da parte del cinema è spesso fondata su un immaginario autoreferenziale, i film si citano a vicenda, o rimandano a fonti audiovisive di tipo documentario, a fotografie, a dipinti, elementi visibili. Questo succede per ogni periodo storico ma nessun decennio come gli anni Settanta risente di un’iconografia standardizzata che spesso diventa stereotipo, luogo comune, banalità.
C’è un evento però, negli anni Settanta, il cui percorso iconografico è stato completamente diverso: questo evento è il caso Moro. E il racconto cinematografico dei 55 giorni, più che alle fonti visive, deve il suo canone narrativo alla letteratura, una letteratura che fino alla pubblicazione del romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale, non ha mai osato discostarsi dal solco tracciato da due giganti tanti anni fa. Dal 1978, per essere precisi.

Le cose stanno così: 16 marzo 1978. Aldo Moro, presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, viene “prelevato” – uccisi i cinque uomini che lo scortavano – da una banda che si presume delle Brigate rosse. Un’ora dopo, le confederazioni sindacali proclamano lo sciopero generale. Prima di sera, il governo presieduto dall’onorevole Andreotti, su cui fino al giorno prima si manifestavano perplessità e riserve da parte delle sinistre e di alcuni gruppi della Democrazia Cristiana, viene approvato, da una maggioranza che comprende anche i comunisti, alla Camera dei deputati e al Senato. In via Licinio Calvo, a un centinaio di metri da via Fani dove il “prelevamento” è avvenuto, la polizia trova un delle automobili di cui si sono serviti i terroristi.
Le parole all’origine di tutto: «Uno dei racconti più straordinari che Borges abbia scritto è quello che, nelle Ficciones, s’intitola Pierre Menard, autore del Chisciotte. Come tutte le cose che sembrano assolutamente fantastiche, di pura astrazione e misteriose, questo racconto parte da un dato reale, da un fatto, da un preciso avvenimento che quello che si usa denominare il mondo occidentale ha, se non conosciuto, respirato. Quest’avvenimento è la pubblicazione, nel 1905, della Vida de Don Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno… Da quel momento non è stato più possibile leggere il Don Chisciotte come Cervantes l’aveva scritto: l’interpretazione unamuniana che sembrava trasparente come un cristallo rispetto all’opera di Cervantes, era in effetti uno specchio: di Unamuno, del tempo di Unamuno, del sentimento di Unamuno».

Così inizia L’affaire Moro, di Leonardo Sciascia. Sono passati pochi mesi dal 17 marzo del 1978 e il ragionamento dello scrittore di Racalmuto è trasparente come un cristallo se messo in relazione all’oscuro dispiegarsi degli eventi che ha portato Aldo Moro alla morte. Sciascia disegna, da quel momento, un canone, e ogni lettura dell’evento e il Moro che per anni abbiamo visto raccontare è il Moro di Sciascia, del tempo di Sciascia, del sentimento di Sciascia.
Ma neppure quella di Sciascia è un’interpretazione originale. La sua lettura di Moro si rifà, in modo esplicito, a quella di Pier Paolo Pasolini che, il 1 febbario 1975, aveva scritto su Il Corriere della Sera: «Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. (…) Nella fase di transizione – ossia durante la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere».

È Pasolini che crea l’icona, inventa il personaggio che poi le Brigate Rosse rendono protagonista della loro mise en scene e che Sciascia racconta. Il Moro che rapiscono le BR, infatti, non è uno dei tanti politici della Democrazia Cristiana, ma proprio quello descritto su Il Corriere della Sera: il «meno implicato di tutti nelle cose orribili» che, da Piazza Fontana portano a Piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta; il «più responsabile di tutti» perché, malgrado l’orrore, è rimasto lì dove è a conservare il potere inteso non come pratica ma come sistema. Moro, fin dall’articolo di Pasolini è un’idea, e avendo orecchiato Hegel i brigatisti sanno che l’unico modo per superare l’idea è renderla concreta, mangiarla, come aveva cantato Giorgio Gaber nel 1973. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. Moro idea, Moro icona, Moro astratta ma concretissima incarnazione del SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali.

Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto.
Sciascia è il primo a svelare il corto circuito ermeneutico che ha trasformato un uomo in un simbolo, in una vittima sacrificale, e così facendo ci invita a mettere in discussione la lettura di Pasolini senza mai dirlo esplicitamente. Dirà Sciascia altrove «Sono sempre d’accordo con Pasolini anche quando sbaglia». Ecco L’affaire Moro, pur partendo dalla riflessione di Pasolini, portandone all’estremo il ragionamento, quello sulla simbologia del potere incarnata da Moro e la sua lingua, ne svela il meccanismo retorico e invita a guardare all’uomo, in carne e ossa, così fragile, vulnerabile, minuto, da finire acciambellato in un portabagagli, come ha scritto Mario Luzi:

Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui

Dopo L’Affaire Moro, quindi a partire dal 1978, ogni racconto per immagini della figura del politico democristiano ha oscillato fra Pasolini e Sciascia. Lo ha fatto Il caso Moro del 1986 nel quale il problema della lingua è stato messo a nudo in frammenti come quello dell’interrogatorio. Lo ha fatto Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, il più didascalico, fra tutti i film, che con l’interpretazione di Gifuni ha reso omaggio, senza alcuna originalità, al Moro icona, prima che uomo. Lo ha fatto, anche Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, l’unico che ha cercato di andare l’oltre l’evento, proiettando sull’affaire lo sguardo di una generazione, la sua, che dall’uccisione di Moro si è sentita, per prima, e in prima persona plurale, tradita.

Se il cinema è stato debitore in modo così esplicito della lettura di Sciascia tanto più lo è stata la letteratura, il cui immaginario, come ha scritto Raffaele Donnarumma ha «patito in modo particolare la storia», questa storia. Rari, però, i casi nei quali, riuscendo ad alzare lo sguardo, il narratore ha riletto secondo il suo tempo il caso Moro: Bellocchio, appunto, e poi Giorgio Vasta che con Il tempo materiale ha dato un nuovo senso pubblico alla storia di Aldo Moro. Quello che uno storico dovrebbe aspettarsi dall’uso pubblico della “sua” disciplina non è tanto la riproposizione dei fatti, dei punti di vista, della tradizione, storiografica o letteraria che sia, ma una chiave di lettura che traduca un evento del passato in qualcosa che risuoni nelle coscienze dei contemporanei.

A prescindere dall’esattezza, dalla filologia, dalla logica interna dei fatti, che non competete alla finzione. Come ha fatto in modo esemplare Jonathan Safran Foer con Ogni cosa è illuminata rispetto al racconto della Shoah che ha completamente reinventato.
Vasta, a distanza di 30 anni, ha messo in luce il sintomo, la lingua, per parlare della patologia, la storia. Scrive Vasta: «In questo momento l’Italia è percorsa dal contagio. Vuole essere percorsa dal contagio. Prova piacere ma non può ammetterlo. Perché non si può provare piacere davanti alla violenza e alla crisi. Non è decente. (…) L’Italia finge di desiderare il calore mentre non può rinunciare al tiepido. È dal 16 marzo che pretende di vivere con quaranta di febbre, solo che con quaranta di febbre non si vive. L’incandescenza è un gioco. L’eccitazione civile, lo scuotimento etico, sono funzioni. L’indignazione si è subito istituzionalizzata; si è istituzionalizzata la paura».

L’ha fatto attraverso le vite di tre ragazzini, l’ha fatto in una Palermo onirica ma allo stesso tempo realissima, dove i nomi delle vie, viale delle Magnolie, via Sciuti, villa Sperlinga, la connotazione borghese degli ambienti sono elementi vividi come se illuminati da una lampada al neon, o dal riflettore di una ripresa cinematografica.
L’ha fatto ribadendo, a suo modo, la questione del linguaggio, la stessa indicata da Pasolini, ripresa da Sciascia, che Vasta rielabora e non declina ai tempi di oggi.

«Mi torna in mente la maestra che quasi un anno fa, durante gli esami, ironica e realistica mi avevo detto che sono mitopoietico, quanto ero stato contento di scoprire che cosa voleva dire, quale piacere può dare muoversi dentro le parole, passare il tempo nel linguaggio. Andarsene via costruendo frasi, isolarsi. Perché la conseguenza del nostro modo di esprimerci- il tono sommesso, il volume basso, ogni parola piatta, ritagliata, calma eppure sediziosa – è che i nostri compagni di classe non ci riconoscono».

Marco Belpoliti ha scritto, in relazione all’uso della Polaroid nel rapimento Moro «I terroristi italiani vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di “realismo traumatico”, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico. Vogliono sottomettere il reale».
Vasta non scatta una polaroid sul 1978. Non vuole sottomettere il reale, ma rivelarne l’assoluta attualità, rendendo utile il racconto, militante, quanto lo è ogni racconto della storia nel quale il punto di vista è dichiarato, e non nascosto. Scrive Walter Siti: «C’è evidentemente un’esigenza metastorica in chi si dedica al folle compito di dare senso al mondo con le parole: l’esigenza è quella di giocare col fuoco, o se si vuole a nascondino con la realtà – stuzzicandola per trarne scintille che la realtà non sa nemmeno di avere, copiandola per negarla, cercando di sfuggire alla sua insensatezza ma nella convinzione che non ci sia senso senza mondo, come la colomba si illude se pensa di volare più veloce senza la resistenza dell’aria».
Vasta ha giocato col fuoco indicando una chiave di racconto possibile, riportando al cuore della narrativa la storia, non come sequenza di fatti e di date, ma materia (possibile) di cui son fatti i racconti. Riportandoci un luogo della memoria della storia del 900. Raccontando l’Aldo Moro di Vasta, del tempo di Vasta, del sentimento di Vasta.

‘Romanzo criminale’, di Giancarlo De Cataldo

<<Il potere non sazia, anzi è come una droga e richiede sempre dosi maggiori>>. Luciano De Crescenzo, Così parlò Bellavista, 1977

Luciano De Crescenzo: poche parole e un legame forse un po’ troppo poetico con un romanzo che porta alla luce una delle bande più spietate e intelligenti che comandarono Roma e su Roma, tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta. Il Libanese, il Freddo, il Dandi, il Secco. Uomini che non vogliono essere comandati, uomini che vogliono tutto e lo vogliono subito.

A scrivere è il giudice Giancarlo De Cataldo, magistrato, giornalista e scrittore italiano che, all’interno dell’omonimo film diretto da Michele Placido, interpreta il giudice che leggerà la sentenza che condanna i membri della banda. Il giudice De Cataldo nasce a Taranto, pubblica vari libri nel corso degli anni per poi raggiungere la notorietà con quest’opera che mostra un passato fatto di accordi tra criminalità organizzata e Stato. Quello che dovrebbe proteggerci, quello che avrebbe dovuto salvarci, quello che ancora oggi, spesso, ci lascia a noi stessi.

Siamo a Roma, inizi degli anni ’70. Il Libanese e il Dandi si conoscono si dall’infanzia. Hanno messo su una piccola banda che si occupa soprattutto di furti. Il Libanese, dopo l’ennesimo furto incontra il Freddo dopo che la sua auto è stata rubata da un drogato, il Sorcio, che decide di venderla al Freddo, appunto. Ed eccoli lì. Due uomini che dalla vita non hanno avuto nulla, due uomini pronti a “prenderse’ Roma.” Due uomini che non sono pronti a timbrare il cartellino tutta la vita, non lo saranno mai. E allora nasce quella prima piccola domanda. E noi? Noi che quel maledetto cartellino lo timbriamo tutti i giorni, ogni mattina e ogni istante della giornata, cosa siamo? Non abbiamo impugnato una pistola, non abbiamo ucciso, rapito, rapinato, non ci siamo venduti ad un soldo facile. Forse siamo stupidi perchè crediamo ancora in un mondo migliore. Forse vogliamo ancora credere che qualcosa di giusto esiste ancora.

Ma De Cataldo ce lo racconta. Quel che c’era di buono, se mai c’è stato, qui non esiste. Il progetto del Libanese e del Freddo prende corpo. Vogliono il potere, i soldi, il controllo di tutti i traffici esistenti a Roma. Dalla droga alla prostituzione creando un’associazione simile alla mafia siciliana.

Il primo colpo è il rapimento del barone Rossellini. Vi è una piccola particolarità su questo sequestro. All’interno della pellicola cinematografica, il cadavere del barone verrà ritrovato privo di vita. Nella vita reale, quel corpo, non vedrà mai più la luce del giorno.

Il barone, ancora in vita, viene affidato ad un’altra banda. Uno dei sequestratori mostrerà il proprio volto al barone. La scelta una. No, non c’è una scelta. Il barone dovrà morire. Ma il riscatto verrà ugualmente pagato. Così tutto ha inizio. Il Libanese e il Freddo sono pronti. Quel denaro servirà per una progetto più grande, per quel progetto che vedrà Roma in ginocchio con uno Stato pronto ad appoggiare quei criminali per mantenere vivi i propri interessi, il proprio potere.

Eccoli. La banda della Magliana. Stringeranno rapporti con la camorra di Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, per il traffico della droga. Saranno interpellati per il rapimento dell’onorevole Aldo Moro. In un primo momento sarà chiesto loro  un aiuto per riuscire a ritrovare l’onorevole ancora vivo. Ben presto sarà chiaro alla banda che a nessuno interessa ritrovare il politico democristiano. Aldo Moro sarà giustiziato dai brigatisti un mese e mezzo dopo il rapimento.

Il romanzo prosegue. Droga, alcool, morti ammazzati che sono parte di quel mondo. Il potere, il controllo su Roma, il controllo sul mondo. Un mondo che sembra non volere padroni. Un mondo che sembra non accettare ordini. Ma un padrone c’è. In quegli anni un padrone esiste ed è lì, più chiaro e vivo che mai. La banda della Magliana.

Grazie anche alla gestione di Night Club e di un giro di prostituzione gestito da Patrizia, ex prostituta di cui si innamora il Dandi che la mette a capo di un bordello di alto borgo gestito anche per ricattare personaggi illustri che lo frequentano, la banda diventa padrona di Roma.

E ancora altri accordi. Quelli stretti con la chiesa. Tant’è che il Dandi deciderà di farsi seppellire nella Basilica di Sant’ Apollinare, dopo aver contribuito al suo restauro. Ancora una machia, ingente, forte, in ciò che dovrebbe essere onesto, puro.

 Ma i rapporti ben presto si guastano tra il Freddo e il Libanese. Accordi con i servizi segreti stretti da Libano e che non sono approvati dal Freddo. Quella banda era nata per non avere padroni, quella banda era nata per essere padrone di stessa, del resto del mondo. E ora? Ora vedeva le sue forze sgretolarsi per obbedire alla giustiziaUna giustizia propria, corrotta, malata. Una giustizia che di onesto e saldo non ha più nulla. Forse, non l’ha mai avuto.

Il romanzo ripercorre così la storia della banda della Magliana. Dei suoi due decenni di controllo, comando, potere sulla città eterna. E ancora oggi questi criminali fanno parlare di se. La scomparsa di Emanuela Orlandi lascia ancora molti dubbi sul ruolo che avrebbe potuto avere la banda e sui suoi rapporti con il Vaticano in quel periodo.

Attraverso l’uso di un linguaggio forte ma discorsivo, De Cataldo ci porta nel mondo della banda che, come già detto, si fonda sulle orme della mafia siciliana, senza però copiarla. In un periodo in cui la mafia, le organizzazioni criminali venivano ritenute un problema di cui solo la Sicilia o Napoli, con la Nuova Camorra Organizzata, doveva preoccuparsi. La banda cresce grazie anche al periodo storico-politico in cui nasce. Un periodo in cui le forze dell’ordine, il così detto Stato, sembrava essere troppo impegnato ad occuparsi del terrorismo nero o rosso, per rendersi conto di ciò che accadeva al di fuori di esso. Una consapevolezza che giungerà troppo tardi. Una consapevolezza che sarà usata per i proprio fini. Una consapevolezza che sporcherà ancora una volta quel qualcosa di giusto che sembra aver cessato di esistere.

Ma un antagonista c’è. Ancora un uomo, il commissario Nicola Scialoja affiancato dal sostituto procuratore Fernando Borgia, che dopo il rapimento del barone Rossellini, attraverso alcune banconote segnate riesce a risalire alla banda, ma senza mai avere prove concrete.

Il romanzo mostra e descrive un parte importante della nostra storia. Momenti che restano nella memoria come la strage di Bologna, compiuta la mattina di sabato 2 agosto alla stazione ferroviaria di Bologna.

Dal libro è nato, oltre all’omonimo film, anche una  delle migliori serie televisive mai dirette e girate, a cura di Stefano Sollima. Varie saranno le differenze inserite nella visione cinematografica rispetto a ciò che De Cataldo descrive nel proprio romanzo. Un romanzo a cui la serie televisiva si accosterà molto. Immagini forti, reali, immagini indimenticabili per la loro brutalità. Per la descrizione di quella realtà che ancora ci appartiene. Ancora oggi. Ci apparterrà per sempre.

Romanzo criminale è un libro storico crudo, diretto, cinico, asciutto che va letto, una storia che non va dimenticata. Una storia che, ancora oggi, ad anni di distanza, non può essere cancellata, con la sua forza, la sua crudeltà, la sua realtà.La storia di una banda criminale che credeva di conquistare l’Italia intera e che invece è diventata, inconsapevolmente uno strumento del potere.

Impossibile non trovare un punto d’incontro, un legame, una certa empatia con gli uomini che hanno governato Roma in quegli anni. Forse la  rabbia comune è rivolta maggiormente allo stato, a chi avrebbe dovuto difenderci e non l’ha fatto. il Freddo stesso nelle seguenti e ultime parole, esprime ciò che quella banda voleva rappresentare. Ancora una volta vince una piccola visione romantica. Nulla cancella però, la realtà dei fatti. Erano criminali, lo saranno sempre, è così che saranno ricordati, questo è  ciò che hanno scelto di essere, schiavi e vittime della loro smisurata ambizione e bramosia di soldi e di potere.

” …Chi lo sa, forse quella morte doveva esse ‘n segnale per farce capi’ che dovevamo sta’ boni, dovevamo sta’ al posto nostro pe’ non fa a stessa fine… E invece noi abbiamo pensato che era proprio mejo fa quella fine piuttosto che timbra’ un cartellino pe’ tutta a’ vita.” 

 

 

Exit mobile version