Calvino e Pavese, due scrittori a confronto

Calvino e Pavese lavorarono per alcuni anni alla Einaudi. Fu lo stesso Pavese a scoprire il talento di Calvino. Questo ultimo però stroncò il romanzo “Tre donne sole” di Pavese, che poi rispose il  29 luglio 1949: “Ma tu – scoiattolo della penna –  calcifichi l’organismo componendolo in fiaba e in trance de vie. Vergogna”.

Pavese si suicidò nel 1950. La sua scomparsa fu dovuta alle delusioni sentimentali e alla sua depressione. Era uno scrittore riconosciuto. Aveva vinto anche il premio Strega, era una figura di riferimento per molti scrittori. L’Einaudi pubblicherà postume nel 1966 le sue Lettere 1945-1950, proprio a cura di Italo Calvino.

Divergenze critiche

I critici non si trovano minimamente d’accordo. C’è chi sostiene che Calvino considerò  Pavese un suo maestro per tutta la vita; chi scrive che la Ginzburg e Calvino erano molto invidiosi di Pavese; chi ricorda l’affinità ideologica tra i due grandi scrittori, ma sostiene che avessero modi di intendere la letteratura diversi; c’è chi sostiene che Calvino era grato a Pavese e chi sostiene che in fondo non gli dimostrò molta riconoscenza in vita, ma solo a posteriori.

Nel 1953 Calvino ebbe modo di scrivere:

“E posso dire che per me, […], l’insegnamento di Torino ha coinciso in larga parte con l’insegnamento di Pavese. La mia vita torinese porta tutta il suo segno; ogni pagina che scrivevo era lui il primo a leggerla; un mestiere fu lui a darmelo immettendomi in quell’attività editoriale per cui Torino è oggi ancora un centro culturale d’importanza più che nazionale; fu lui, infine, che m’insegnò a vedere la sua città, a gustarne le sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le colline”.

C’era rivalità allora tra i due? C’era antagonismo? Oppure solo qualche incomprensione come succede anche tra sodali, tra migliori amici? Stilisticamente Calvino non sembra aver subito l’influsso di Pavese. La scrittura del primo era determinata dall’ossessione descrittiva e dalla completezza della resa della molteplicità fenomenica; quella del secondo dall’adesione alla vita, al flusso ininterrotto degli eventi e degli incontri: Calvino voleva descrivere il mondo, Pavese la vita dei suoi personaggi.

Calvino e Pavese: le differenze

Lo scrittore ligure era molto puntiglioso nel descrivere ambienti e personaggi. Pavese invece utilizzava un linguaggio meno esatto o comunque meno forbito, ma era sempre rigoroso ad ogni modo nella scelta dei vocaboli. Si potrebbe pensare che Calvino aveva un rapporto conflittuale con il linguaggio e che la sua scrittura fosse piena di revisioni e stesure.

Pavese aveva un rapporto più conflittuale con l’esistenza stessa, non riuscendo a venirne  a capo. Pavese non riuscì a entrare nel pieno della vita, per tutto il suo tempo però fu un osservatore partecipe, come nei suoi romanzi. In Calvino tutto il suo intelletto era proteso verso il linguaggio, che doveva rappresentare in modo esatto le cose e le persone.

In Pavese il linguaggio meno esatto ma pur sempre molto accurato doveva trovare l’essenza stessa della vita: entrambi si ponevano quindi degli obiettivi molto impegnativi, forse irrealizzabili. Se si analizza un singolo periodo potrebbe sembrare di primo acchito che chiunque possa scrivere come Pavese, ma lui fu il primo a scrivere in quel modo e al contempo va detto che ci voleva il retroterra culturale di un grande intellettuale per imbastire i suoi romanzi.

Come ebbe modo di scrivere lo stesso Calvino c’era sempre qualcosa di sottinteso nei romanzi di Pavese; c’era sempre qualcosa di sottaciuto e  fu definito per questo “reticente”. Pavese quindi solo apparentemente poteva considerarsi uno scrittore semplice, anche se la lettura dei libri di Calvino per la loro ricchezza lessicale mette alla prova un lettore non letterato, richiede talvolta l’utilizzo del vocabolario. Il primo romanzo di Calvino,  “Il sentiero dei nidi di ragno” in un certo qual modo da un punto di vista tematico, contenutistico, stilistico poteva avere dei punti in comune con le opere di Pavese, ma successivamente Calvino si dimostrò realista-favolistico, mentre Pavese un neorealista con il mito delle Langhe.

Calvino creatore di miti e archetipi

Calvino fu creatore di miti e di archetipi, mentre Pavese li prese direttamente dalla sua realtà quotidiana per poi metterli sulla carta, dimostrando tutta la sua creatività, pescando a piene mani dalla fantasia; Pavese attinse dalla quotidianità. In lui ci sono le Langhe e  la Torino di quegli anni; talvolta sembra che invece dello sfondo siano dei veri protagonisti dei romanzi: comunque sono determinanti, hanno un ruolo non marginale nella sua narrativa.

Forse è proprio per questo che il mondo di Pavese oggi può apparire più distante e meno attuale, mentre Calvino che ha scritto opere più scientifiche come “Palomar” e “Le cosmicomiche” sembra più attuale e per niente datato. Va ricordato a tal proposito che Calvino morì nel 1986, mentre Pavese solo nel 1950: lo scrittore ligure perciò ebbe modo di intuire e intravedere alcuni aspetti della nostra realtà odierna, mentre Pavese è ormai relegato in un’altra epoca più lontana.

Probabilmente Pavese ha meno da dirci oggi rispetto a Calvino e noi stessi possiamo capirlo di meno rispetto a Calvino. Il successo attuale della narrativa di Calvino probabilmente è dovuto al fatto che insieme a Rodari venga considerato uno scrittore per bambini, a differenza di Pavese, che forse viene ritenuto più cupo e più drammatico, insomma meno adatto per gli studenti.

Questo non rende pienamente giustizia a nessuno dei due: Calvino con la trilogia de I nostri antenati, che  raccoglie i romanzi  “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante e “Il cavaliere inesistente”, compie delle riuscite metafore dell’intellettuale della sua epoca (e questi libri sono perciò a doppio fondo, hanno una doppia chiave di lettura), mentre lo stesso Pavese, seppur tragico e suicida, può essere un esempio per tutti  come uomo, intellettuale e scrittore antifascista.

Si potrebbe asserire che Calvino fu più gnoseologico e Pavese più esistenziale, pur essendo entrambi accomunati dalle stesse idee politiche. Il modo di approcciare la realtà fu quindi completamente differente. La scrittura di Calvino sembra inimitabile, inarrivabile, sembra sempre così difficile, irraggiungibile, quasi perfetta.

L’esistenzialismo di Pavese

La scrittura di Pavese sembra più sciatta, mai impreziosita con vocaboli non comuni, apparentemente a uso e consumo di tutti, mentre in realtà a un’analisi più attenta non è così perché anche lo stile pavesiano richiede molto talento, molto studio, molto impegno.

Attualmente leggere i libri di Calvino è un must, è un dovere a cui non si deve sottrarre una persona dalle buone letture. Ma Calvino e Pavese si capirono? Calvino dichiarò che non aveva mai presagito niente delle volontà suicidarie dell’amico. Forse entrambi erano tutti presi a livello intellettuale da mettere da parte le vere ragioni di vita.

Forse Calvino scoprì veramente quel che covava segretamente nell’animo Pavese solo dopo aver pubblicato le sue opere postume. In “Sono nato in America…Interviste 1951 – 1985” (a cura di Luca Baranelli) lo scrittore ligure dichiarò:

“Conobbi Pavese dal ’46 al ’50, anno della sua morte. Era lui il primo a leggere tutto quello che scrivevo. Finivo un racconto e correvo da lui a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale. Prima che morisse, non sapevo quel che i suoi amici più vecchi avevano sempre saputo: che era un disperato cronico, dalle ripetute crisi suicide. Lo credevo un duro, uno che si fosse costruita una corazza sopra tutte le sue disperazioni e i suoi problemi, e tutta una serie di manie che erano tanti sistemi di difesa, e fosse perciò in una posizione di forza più di chiunque altro. Difatti era proprio così, per quegli anni in cui lo conobbi io, che forse furono gli anni migliori della sua vita, gli anni del suo lavoro creativo più fruttuoso e maturo, e d’elaborazione critica, e di diligentissimo lavoro editoriale”.

Il lascito intellettuale dei due fu molto differente non solo a livello narrativo ma anche per così dire saggistico; il testamento di Pavese fu “Il mestiere di vivere” fatto soprattutto da riflessioni esistenziali, mentre quello di Calvino fu “Lezioni americane”, costituito da intuizioni letterarie e culturali.

Il critico letterario Guido Davico Bonino ha ricordato una conversazione avuta con Calvino:

“Mi disse: io ho addosso ancora il rimorso pieno di non aver fatto quello che avrei dovuto per impedirgli di fare la scelta finale. C’era un affetto fortissimo di Pavese per Calvino. E schiettissimo”.

Calvino non aveva capito nel profondo Pavese, non afferrò pienamente il tormento, il disagio esistenziale del suo maestro o presunto tale. Su Calvino come critico letterario ci sono luci e ombre. Da una parte fu il talent scout di Daniele Del Giudice e Andrea De Carlo. Dall’altra dimostrò una idiosincrasia per il grande Guido Morselli, morto suicida e inedito (la cui scoperta fu dovuta a Calasso, che lo pubblicò postumo con Adelphi).

 

 

 

 

 

Riflessione sul concetto di limite, tra Chomsky, Calvino, Leopardi, Watson

Il limite può essere inteso come mancanza, difetto oppure come confine. Ai tempi dell’università pensavo ingenuamente che uno dei modi di superare il nichilismo fosse creare una metafisica dei limiti, che io avevo chiamato limitismo, ovvero riconoscimento dei limiti fisici, ontologici, conoscitivi,  esistenziali della specie umana.

D’accordo ci sono senza ombra di dubbio dei modi più efficaci per sconfiggere il nichilismo, per combattere quello che Junger e Heidegger chiamavano il “Leviatano”: una letteratura mitopoietica, ritornare a Parmenide, credere in Dio. La verità è che allo stato attuale delle conoscenze nessuno può stabilire con esattezza questi limiti.

L’uomo ha dei limiti? Nessuno lo sa con certezza. C’è un limite nell’aspettativa di vita? Non si può campare più di 120 anni? Oppure può essere sconfitto l’invecchiamento e si può diventare immortali? Nessuno sa cosa sarà la vita umana e cosa sarà l’uomo in futuro. La scienza ha dei limiti? Forse oggi si può stabilire con maggiore accuratezza i limiti metodologici di una disciplina, ma anche questa è una conoscenza provvisoria.

Chomsky sostiene che se nessuno ha mai dimostrato in modo semplice l’ultimo teorema di Fermat, come pensava di aver fatto il celebre matematico, vuol dire che forse la mente umana non è fatta per questo ma significa anche che sappiamo risolvere altri problemi. Esiste quindi una sorta di meccanismo di compensazione.

Può benissimo darsi -scrive Chomsky- che un extraterrestre con una struttura mentale diversa dimostri subito l’ultimo teorema di Fermat senza alcuna difficoltà.  Non esiste una stima oggettiva e certa delle capacità intellettive. Kant originariamente aveva chiamato la Critica della Ragion Pura “Limiti della Sensibilità e dell’Intelletto”.

Non per criticare il grande genio di Kant ma nessuno sa stabilire il sostrato noumenico, irraggiungibile per la mente umana. Sappiamo che la nostra mente ha dei limiti empirici nel percepire il nulla e l’infinito, gli “interminati spazi”, i “sovrumani silenzi” leopardiani. Sempre per riprendere “L’infinito” di Leopardi noi miseri esseri umani possiamo percepire l’indefinito e mai cogliere pienamente l’infinito.

La differenza nel celebre capolavoro sta tutta nel pronome dimostrativo: l’infinito è “di là di quella” (siepe), mentre l’indefinito viene nominato con “questo mare”,  “queste piante”. Perfino “quest’immensità” deve intendersi come percepita soggettivamente e non come ciò che è illimitato in modo assoluto, come al di là di un confine oggettivo ad esempio.

Abbiamo quindi dei limiti certi oppure possiamo sempre superarci? Forse la vita umana è come la dialettica hegeliana e consiste tutta in una serie progressiva di auto-superamenti nel migliore dei casi.

Una cosa è certa: nessuno sa definire i limiti propri, mentre è assolutamente certo di identificare quelli altrui. A tutti sembra così facile dire quali sono i limiti mentali altrui. La verità è che nessuno può stabilirlo. Una volta gli psicologi ritenevano che le attitudini fossero stabili per tutta la vita. Ma è una concezione datata.

Non è assolutamente così. Si può perdere dei punti o acquistarli, intellettivamente parlando. Un tempo pensavano che il  Q.I fosse stabile. Nei “Cinque libri del sapere” trovai un grafico in cui per ogni professione c’era il Q.I necessario per esercitarla. Non è così semplice. È una concezione retrograda. È vero che esistono delle professioni cosiddette intellettuali, ma è difficile stabilire il livello intellettivo: si può solo stabilire approssimativamente il livello culturale.

Esistono i falsi positivi e i falsi negativi in ogni test che si rispetti, anche nei test d’intelligenza. Come ne “Il cavaliere inesistente” di Calvino esistono dei Gurdulù che dovrebbero avere tutti i requisiti per essere validi, non essendolo, e degli Agilulfo, che non avrebbero modo di esistere e invece sono validi.

L’intelligenza di una persona può migliorare o peggiorare, ammesso e non concesso  che si riesca a definire in modo univoco che cosa sia l’intelligenza umana. I neurologi e i neuropsicologi hanno scoperto recentemente molte prove della neuro-plasticità umana.

Tutto sta nell’applicarsi con costanza e impegno, nel versarsi in una materia. Stabilire dei limiti così come cercare di rintracciare delle potenzialità inespresse talvolta è cosa soggettiva. Se non capisci una cosa oggi puoi sempre capirla domani, se spiegata o approcciata in modo diverso. Alcune cose non è assolutamente necessario saperle. Se non sei un fisico non è importante sapere come funziona l’interferometro.

Importante è che tu sappia per un minimo di cultura generale che con esso sia stato dimostrato che l’etere non esisteva, che la relatività galileiana non valeva per la luce e che da quell’esperimento fallimentare Einstein capì che la luce aveva velocità costante, uno dei capisaldi della sua teoria della relatività.

A volte basta sapere l’abc. Altre volte però è necessario approfondire. Spesso la mancanza di apprendimento sta nel discente che non capisce ma talvolta anche nel docente che non si sa spiegare bene, che salta dei passaggi, che dà alcune nozioni per scontate. Se uno è genitore non deve credere in modo totale agli insegnanti che dicono che suo figlio è un genio oppure uno duro di comprendonio.

Valutare le capacità cognitive è una cosa molto difficile e probabilmente i test di intelligenza non è detto che misurino l’intelligenza, come pensava alla fine della vita Cattell. Poi il giudizio degli insegnanti può essere errato e basato su delle distorsioni cognitive. Ci possono essere allievi sottostimati e altri sovrastimati.

Tuttavia molti insegnanti spesso in perfetta buona fede credono di poter stabilire con certezza assoluta le capacità dei loro allievi. Sempre in perfetta buona fede alcuni insegnanti decidono in modo negativo il futuro dei loro allievi o almeno li condizionano in modo negativo. Alcuni insegnanti pensano di poter valutare l’intelligenza dei loro alunni in base alle competenze acquisite e in base all’esperienza. Tutto ciò può invece portare a formulare giudizi totalmente errati.

Un insegnante non può stabilire con esattezza le abilità, l’impegno, la motivazione, il grado di sviluppo fisico e cerebrale di un adolescente ad esempio. Basarsi sull’esperienza può essere fallace. I test di intelligenza prima di essere validati ufficialmente vengono prima sottoposti a decine e a volte a centinaia di migliaia di soggetti.

Nonostante questa standardizzazione di massa i test sono ancora criticabili e considerati perfettibili. Immaginiamoci quanto è poco attendibile l’esperienza di un insegnante, basata su un numero limitato di casi! Lo studio delle capacità intellettive è forse ancora agli albori.

Il grande psicologo comportamentista Watson sosteneva che tutto dipendeva dall’ambiente e che se gli avessero dato da educare dei bambini li avrebbe fatti diventare quel che lui volesse: scienziati, scrittori,  impiegati, operai, eccetera eccetera.

Fanno ridere quelli che credono di non avere limiti. Ma fanno ridere soprattutto quelli che fanno la predica a altri, dicendo che devono riconoscere i propri limiti. Se una cosa non ti riesce ora può darsi che ti riesca domani. Nessuno può stabilire con esattezza il motivo per cui non ti riesce: può essere ansia, mancanza di capacità,  mancanza di interesse, mancanza di impegno, inesperienza oppure un insieme di tutti questi fattori.

Non porsi limiti significa proiettarsi all’infinito, avere una fiducia smisurata delle proprie qualità: questo è troppo, bisogna sapersi fermare, bisogna saper circoscrivere la nostra sfera di  competenza, nessuno può diventare onnisciente. Ma è sbagliato anche rinunciare a molto, dire troppi no, non provarci, dire troppe volte “non posso”, “non ci riesco”, “non ce la farò mai”.

Esiste un settore della psicologia chiamato “crescita personale” in cui i  coach propongono ai clienti/pazienti di superare ogni tipo di limite mentale, da loro stessi definito “blocco mentale”. Diffidate di questo tipo di psicologia troppo spicciola e motivazionale: non è tutto così facile, spesso è solo un modo per spillare soldi e fare business.

Ritornando alle abili, se un compito non ci riesce la prima volta che ci viene presentato può diventare più facile le volte dopo perché più familiare. Spesso l’esperienza e l’abitudine giocano un ruolo fondamentale. Tutto sta nel non abbattersi e nel non mollare troppo presto la spugna. A ogni modo nel valutare le capacità proprie e altrui bisogna essere sempre possibilisti.

“Forse un mattino andando” di Montale: l’antinomia della percezione

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come su uno schermo, s’accamperanno di gitto

alberi, case, colli per l’inganno consueto.

Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto

tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.”

 

Montale in “Forse un mattino andando”, immagina di camminare al mattino in un’aria cristallina, rarefatta. Tutto ad un tratto immagina di volgersi e vedere il nulla. Lo scrittore Italo Calvino, in occasione della celebrazione degli ottanta anni di Montale, ha fornito una spiegazione originale, a tratti alquanto suggestiva di questa poesia.

Per Calvino il cardine della lirica è l’espressione “Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”. Calvino scrive che la mancanza di un occhio dietro la nuca è sempre stato un limite percettivo per l’uomo. Sostiene però che una delle invenzioni più strabilianti della tecnologia moderna sia lo specchietto retrovisore delle automobili perché permette di vedere il campo posteriore, prima di allora invisibile.

Eppure nonostante queste argomentazioni scrive che il poeta anche con uno specchietto retrovisore vedrebbe alle sue spalle “una voragine vuota senza limiti”. Calvino cita un animaletto mitologico nella zoologia fantastica di Borges: l’hyde-behind. Nei boschi i taglialegna per quanto possono voltarsi velocemente non potranno mai vedere davvero l’hyde-behind. Secondo Calvino nella poesia il protagonista riuscirebbe a scorgere l’hyde-behind nella sua vera essenza: ovvero il nulla.

Secondo l’interpretazione di Calvino il tema principale della lirica sarebbe percettivo-conoscitivo. Intendiamoci: se fosse unicamente un problema percettivo si tratterebbe di una zona morta della percezione, di quella che gli esperti del settore chiamano macchia cieca. Il tema principale di “Forse un mattino andando” secondo Calvino è come possa esistere una porzione di reale inconoscibile o almeno sconosciuta ai propri occhi ed infine alla propria coscienza. “

L’uomo che si volta “e vede il nulla alle sue spalle, riesce forse a girarsi più rapidamente della messa a fuoco del suo campo visivo, che per questo motivo in quel determinato frangente non è ancora abbastanza nitido ed esteso da fornire immagini dell’ambiente circostante. Percepisce il nulla o meglio “il nulla che c’è”.

Quel vuoto sarebbe quindi la risultante di un suo corto circuito mentale, di cui è cosciente, così come è consapevole qualsiasi persona, quando chiude gli occhi abbacinati dal sole, che i fosfeni sono barlumi causati da una reazione chimica delle pupille, quindi da un atto individuale, soggettivo. Secondo l’interpretazione di Calvino l’uomo che si volta non lascia il tempo alle immagini di accamparsi sulla superficie bidimensionale delle retine, oppure il suo voltarsi repentino è più veloce dell’impulso nervoso (ma quando mai?), che trasporta l’input sensoriale tramite il nervo ottico alla corteccia visiva.

Sia l’interpretazione di Calvino della poesia porta a concludere che “l’uomo che si volta” ha scoperto un’antinomia della percezione, una fallacia ottica, che arresta in quel momento il desiderio di conoscere e di esperire, infatti si ritrae e si ripiega su sé stesso, nel suo segreto. Tutto questo è basato su un presupposto: ogni uomo nel corso della sua vita servendosi di inferenze visive riesce a creare delle invarianti percettive, ed insieme a queste un mondo fenomenologico completo e coerente.

La certezza soggettiva della coerenza di questo mondo va in frantumi nella poesia di Montale. Ma Calvino non ne fa solo una questione percettiva, ma anche conoscitiva. Infatti scrive che quel qualcosa che avviene non riguarda il nervo ottico, bensì il cervello umano. La vera tematica di questo “osso di seppia” e probabilmente sia esistenziale che metafisica, non percettivo-conoscitiva.

“Il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me” riveste la stessa connotazione esistenziale di altre espressioni montaliane come “la maglia rotta nella rete” e “l’anello che non tiene”.  Montale in questa poesia rifiuta “l’inganno consueto” della molteplicità fenomenica. Rifiuta qualsiasi rappresentazione gnoseologica del mondo.

Il critico Contini scrive a proposito della condizione esistenziale di Montale: “la differenza costitutitva fra Montale e i suoi coetanei sta in ciò che questi sono in pace con la realtà, mentre Montale non ha certezza del reale”.

Jacomuzzi invece scrive: “Mentre nell’ambito e nella tradizione della poesia pura la condizione metafisica è essenzialmente un dato acquisito, una ipotesi non verificata, in Montale essa si atteggia come problema, come un dato da interrogare, un significato da cogliere”.

Il senso di questa poesia di Montale per me è la sua disillusione, il suo disincanto nei confronti della realtà fenomenica. Montale non è certo dell’esistenza delle cose, fino a quando non coglie uno slancio vitale nelle sue muse. La sola immanenza non gli è affatto sufficiente. Ecco perché crede ciecamente -come dichiarò in una sua intervista- che “immanenza e trascendenza non sono separabili”.

Questo incontro tra immanenza e trascendenza riesce ad esperirlo solo in rari momenti, quando riesce a trasfigurare una figura femminile, a vedere nella donna la personificazione di una cifra sovrasensibile. Ma se questa agnizione da un lato lo gratifica, dall’altro si accorge di non possedere quello slancio vitale della figura femminile e di appartenere alla “razza idiota degli eletti” (“Ti guardiamo noi della razza/ di chi rimane a terra”).

In mancanza dell’idealizzazione della donna, di questa epifania fulminea Montale vedrebbe “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”. A controprova di questa  supposizione esiste una poesia di Satura II, intitolata “Gli uomini che si voltano” in cui è scritto: “Non apparirai più dal portello/ dall’aliscafo o da fondali d’alghe,/ sommozzatrice di fangose rapide/ per dare un senso al nulla. Scenderai/ sulle scale automatiche dei templi di Mercurio/ tra cadaveri in maschera,/ tu la sola vivente,/ e non ti chiederai se fu inganno”. Nel seguito di questa lirica Montale scrive: “Sono colui/ che ha veduto un istante e tanto basta….”.

Montale quindi non cerca in modo categorico la descrizione della complessità del mondo. Non cerca di creare un modello in miniatura dello scibile umano. Non ha mai inteso la Letteratura come fonte di Conoscenza razionale. Nel poeta ha sempre prevalso lo scetticismo nei confronti di qualsivoglia raffigurazione della realtà.

Da questo punto di vista ha sempre abbandonato ogni minima speranza di certezza ed ha sempre navigato nel mare aperto del dubbio. Verrebbe ora da chiedersi: come mai Montale non ha mai idealizzato la Mosca, ovvero sua moglie? Probabilmente perché ricercare in lei l’anello di congiunzione tra umano e divino, avrebbe comportato considerarla una sorta di divinità.

Montale scrive sulla Mosca, solo al momento della sua scomparsa. Per dirla alla Klein scrive per rielaborare il lutto. Secondo la Klein infatti ogni artista crea, perché avverte il senso d’angoscia di una separazione (reale o fittizia), vissuta come perdita di sé e dell’altra persona. Nel discorso amoroso Barthes ci ricorda che “c’è sempre una persona a cui ci si rivolge, anche se questa persona è solo allo stato di fantasma”.

Gli Xenia e i Mottetti di Montale possono allora essere considerati una sorta di surrogato dell’”oggetto transizionale” -per usare il termine di Winnicott- perché permettono al poeta di riappropriarsi di una immagine a lui cara, pur vivendo al contempo in modo cosciente e realistico la perdita terrena della mosca.

Petrarca e Dante hanno angelicato Laura e Beatrice. I loro amori non corrisposti hanno fatto soffrire loro le pene dell’inferno. Ma nonostante ciò nei brevi componimenti dedicati alla consorte scomparsa non esiste traccia di idealizzazione della donna e neanche di compiacimento del dolore.

Le muse di Montale non sono donne irraggiungibili e neanche la propria donna. Le sue muse sono amiche (Arletta, Clizia) e diventano muse solo in determinati e rari istanti. E senza queste muse “intermittenti”, da cui è sentimentalmente distaccato, Montale vedrebbe il nulla alle sue spalle ed il vuoto dietro di sé. Sono queste presenze raramente angelicate, che lo salvano dal nichilismo e dalla negazione del reale.

 

 

Davide Morelli

 

 

Carla Vasio: “Ho fatto la guerra del Gruppo ’63, ora vivo per dimenticare tutto”

E poi c’era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo ’63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: “Eravamo nati a un giorno di distanza l’uno dall’altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l’immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno”, ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

Quello che non si capisce è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo ’63 non si parla mai. La Vasio è una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura, Nottetempo) – e ci si aspetta una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: “Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana”.

Erano maschilisti incalliti?
“Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale”.

C’è una foto in cui ballate avvinghiati.
“Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo”.

Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
“Adorabile nevrotico. Fu un’amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali”.

A cosa si riferisce?
“Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un’angoscia terribile”.

E Manganelli?
“Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all’ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi”.

Ma il Gruppo ’63 non amava Pasolini.
“Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri”.

La racconta come fosse una guerra.
“E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento “.

Quanto è rimasta a Venezia?
“Fino all’adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c’era Rossana Rossanda”.

E com’era?
“Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze”.

Frivoli?
“Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l’uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso”.

Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
“Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane”.

Come fu il dopoguerra a Roma?
“Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l’università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un’idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò”.

Cosa intende per esoterico?
“Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall’Ashram di Aurobindo”.

Il santone indiano?
“Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l’India. Si incamminò verso l’India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma”.

E qui cosa accadde?
“Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po’ tutti quando, all’inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down”.

E lei in tutto questo che c’entrava?
“Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso”.

Quale?
“A Roma si era formata una enclave di junghiani”.

Lo dice come fosse una setta.
“In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona”.

Chi era?
“Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista”.

E cosa decise?
“Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso “romanzo storico”, scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino”.

Cosa le disse Calvino?
“Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni”.

Che anno era?
“Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l’ultimo sussulto lo ebbe con l’estate dei poeti nel luglio del 1979”.

Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
“Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c’era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie”.

E cosa accadde?
“Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l’evento poté finalmente decollare”.

Fu un canto del cigno.
“Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci”.

Come reagì la Pivano?
“Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C’era nell’aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell’estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone”.

Al quale in seguito ha dedicato un libro.
“Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell’Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito”.

Lasciando qualche trauma?
“No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere”.??Chi per esempio??”La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo ’63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l’oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l’inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi”.

Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
“Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all’arte di dimenticare”.

Curioso per una donna che ricorda tutto.
“Sono d’accordo, ma considero quell’arte suprema”.??Perché?? “Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un’immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C’è la dea Maat che sta sulla soglia dell’aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no”.

E come conosce l’anima dei defunti?
“Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull’altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell’aldilà”.

Lei crede nell’aldilà?
“Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita”.

 

La Repubblica

Jeff Vander Meer e l’indagine sulle mutazioni dell’uomo contemporaneo nel New Weird ‘Trilogia dell’Area X’

Nella ‘Trilogia dell’Area X’ Jeff Vander Meer indaga le mutazioni dell’uomo contemporaneo catapultando il lettore in un luogo dall’atmosfera perturbante; una zona enigmatica, dove fenomeni di origine sconosciuta alterano le leggi del tempo e della biologia. Il tema della metamorfosi è senza dubbio uno dei più frequentati e fecondi nell’immaginario letterario di tutti i tempi. Ne troviamo esempi già nei poemi omerici e, in ambito romano, nel capolavoro ovidiano. Dante impiega la metamorfosi come uno dei meccanismi del contrappasso, Stevenson la lega ai chiaroscuri della psiche umana, Kafka la innesta nella modernità. Il termine metamorfosi deriva dal greco: indica un passaggio di forma, per cui il soggetto che la subisce muta nell’aspetto esteriore mantenendo però inalterata la propria identità. Si tratta di un fenomeno comune: basti pensare alla crescita degli anfibi o al ciclo delle piante. Probabilmente proprio l’osservazione di queste manifestazioni della natura ha contribuito all’elaborazione dei miti da parte dell’uomo antico, e forse è possibile che continui a farlo ancora oggi. Eliade ci ricorda che il mito non è mai completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e nelle nostalgie dell’uomo moderno. E gli scrittori, dunque? Sono ancora dei mitografi?

Jeff Vander Meer sicuramente ci prova. Nella Trilogia dell’Area X, una delle sue ultime fatiche letterarie, ogni volume costituisce il tassello di un’inedita analisi delle nuove mutazioni dell’uomo contemporaneo. Autore di racconti e romanzi, giornalista per il New York Times, il Guardian e l’Huffington Post, Jeff VanderMeer è noto per aver coniato la definizione di New Weird, genere in cui si iscrivono pienamente anche i romanzi che compongono questa trilogia. Il New Weird è una tipologia di fiction di ambientazione realistico-urbana che sovverte la classica idea di spazio diegetico riscontrabile nella fantasy tradizionale, per lo più scegliendo modelli di mondo reale complessi e verosimili come punto di partenza per la creazione di ambientazioni che combinano elementi fantascientifici e fantasy. Il New Weird ha un’essenza profondamente attuale che, per la costruzione di stile, tono ed effetti, spesso ricorre a elementi tipici dell’horror surreale o trasgressivo, in combinazione con gli stimoli dati dall’influenza di scrittori della New Wave o di movimenti affini (includendo anche precursori come Mervyn Peake e i decadenti francesi e inglesi).

Annihilation, primo romanzo della serie, viene tradotto nel 2015 da Cristiana Mennella per Einaudi con il titolo di Annientamento. Le pubblicazioni proseguono nello stesso anno con Autorità e Accettazione, mentre nel 2018 viene distribuito da Netflix l’adattamento cinematografico del primo capitolo (Annientamento, con regia di Alex Garland e Natalie Portman come protagonista). Tutti i volumi sono stampati in pregevoli edizioni cartonate con copertine illustrate da Lorenzo Ceccotti e sovracoperte in plastica trasparente.

Già dall’estetica delle illustrazioni (polarizzate sui colori primari ma raffiguranti soggetti aggrovigliati, mimetizzati, inquietanti) è possibile penetrare nell’atmosfera perturbante dell’Area X, una zona della Terra in cui un fenomeno di origine sconosciuta sta alterando le leggi fisiche, trasformando gli animali e agendo sullo scorrere del tempo. Nessuno vive più su quel tratto di costa, delimitato da un confine invisibile e (forse) in movimento. Il governo, attraverso l’operato dell’agenzia Southern Reach, nasconde l’enigma all’opinione pubblica e cerca di indagare inviando diverse spedizioni esplorative, i cui membri di solito non fanno ritorno. Chi riesce compare inspiegabilmente in luoghi che gli erano cari senza passare dal perimetro del confine; non fornisce resoconti esaurienti, ha vuoti di memoria e vive in uno stato di apatia, come fosse soltanto l’involucro della persona che era. Ogni reduce muore poco dopo il ritorno, sempre a causa di aggressive forme tumorali.
La dodicesima spedizione, di cui seguiamo direttamente le sorti, è composta da sole scienziate, donne che non conoscono nulla l’una dell’altra, nemmeno il nome. L’identità dei personaggi è riassunta nella loro funzione: un’antropologa, una topografa, una psicologa (nonché direttrice dell’agenzia governativa) e una biologa.

Il punto di vista adottato nel primo libro è quello della biologa, che si offre volontaria nella speranza di ritrovare il marito, uno dei membri dispersi della spedizione precedente. Il suo viaggio assume ben presto coloriture diverse: la ricerca dell’amato la guiderà nelle profondità del suo stesso essere, in una parabola di auto-annientamento. Il contatto con una misteriosa luminosità e la simbiosi con un ambiente ormai alieno generano l’inevitabile mutazione, scandita da diverse fasi: iniziazione, integrazione, immolazione, immersione e dissoluzione. Annientamento si conclude lasciando insoluti parecchi interrogativi, ma la situazione comincia a dipanarsi con Autorità, il secondo capitolo della trilogia. L’io narrante è ora John Rodriguez, o meglio “Controllo”: così si fa chiamare il direttore vicario della Southern Reach. Oltre a cercare di fare chiarezza sui misteri dell’Area X, Controllo dovrà districarsi nelle complesse dinamiche che regolano i rapporti umani all’interno dell’agenzia e, soprattutto, tentare di penetrare nella mente della biologa, che ora si identifica come “Uccello Fantasma”. Questo capitolo intermedio, quasi sospeso, lascia presagire la catastrofe che si compirà solo nell’ultimo libro: Accettazione. L’Area X sembra ormai fagocitare le vite di tutti i personaggi, i cui punti di vista cominciano ad alternarsi, caotici, alla ricerca della verità. Una verità racchiusa nel passato, ma anche nelle singole identità e nelle forze che guidano l’essere umano come specie, non ultima: l’amore.

I primi critici dell’opera di Vander Meer hanno posto l’accento innanzitutto sulla portata ecologista della narrazione: il primo elemento che muta è infatti la natura stessa che, attraverso la contaminazione con un fattore estraneo, si “depura” dalla centenaria azione distruttiva operata dall’uomo, quasi fosse una vendetta. Il rapporto con la natura è sicuramente uno dei temi portanti nell’architettura della trilogia: emblematico il fatto che il primo uomo infetto sia proprio il guardiano di un faro, un uomo che – tra l’altro – si è allontanato tragicamente da Dio. Se il faro rappresenta il tentativo di far luce su una natura che rimane un mistero, l’uomo che perde la propria spiritualità può solo osservare, senza comprendere, un mistero più grande e più forte di sé.

La biologa sembra tentare un ricongiungimento: anche se guidata da una razionalità di matrice scientifica, nella sua dissezione della realtà in piccoli frammenti osservabili al microscopio risiede la volontà di comprendere e integrarsi in una natura che è per lei ragione di vita (più di quanto lo era, forse, il suo stesso matrimonio). Questa decontaminazione del pianeta sembra infine riecheggiare le teorie filosofiche inerenti alla ciclicità del tempo, l’eterno ritorno, l’apocatastasi: quel ritorno allo stato originario che scandirebbe l’inizio di un nuovo ciclo, una palingenesi non necessariamente negativa, dunque. Al di là di questo, ci sono buone ragioni per ritenere che il fulcro della ricerca di Vander Meer risieda più nel tema dell’identità, che nella metafora ecologista. L’uomo è parassita di se stesso, della propria mente che sembra sciogliersi capitolo dopo capitolo, avvinta dai misteri dell’area X ma anche dal potere che altri uomini esercitano su di essa. La scoperta o la difesa della propria identità diventano elementi imprescindibili per ogni personaggio, man mano che tutte le certezze si incrinano.

Follia, allucinazione, controllo della mente: in queste atmosfere dickiane emerge con chiarezza l’inevitabile frammentarietà della coscienza, l’impossibilità – per l’uomo moderno – di accedere a una visione completa del reale e di se stesso. La stessa consapevolezza che ispirò i poeti del frammentismo novecentesco o la poetica dell’incompiuto alla base delle sculture di Auguste Rodin. La riflessione sulla metamorfosi che scaturisce da questi romanzi sembra quindi approdare a un piano ancora più elevato, se la si applica in chiave sociale, come metafora della modernità in perenne mutazione (quella condizione che Bauman ha descritto brillantemente attraverso il concetto di liquidità). Alessandro Baricco nel Saggio sulla mutazione parla di un orlo della mutazione che avanza, e corre dentro di noi.

Siamo mutanti, tutti. […] Ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione.
Riecheggiando il mito e attingendo a piene mani alla dimensione del fantastico, Vander Meer ci ricorda quanto questi mezzi risultino attinenti a un’analisi della realtà. Se attraverso le categorie del molteplice, del cangiante e dell’instabile si ottiene una rappresentazione assai verosimile della realtà; l’irreale, l’immaginario e il fantastico possono essere, di per sé, metamorfosi del vero.

Di Buzzati è stato detto:

Ci fa credere nell’incredibile, perché i suoi segreti, le sue magiche coincidenze, le sue rilevanti metamorfosi, i suoi suscitanti sortilegi, sono un inverosimile che ci aiuta a esaurire il verosimile.
Si tratta, dopotutto, della stessa considerazione cui approdò, dopo un lungo studio sulla fiaba, un altro autore del fantastico italiano: Italo Calvino:

E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi in quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo […]. Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito posso dire che questa non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, […] quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo in questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita […].
(I. Calvino, Sulla Fiaba, Mondadori, 1995)

 

Maria Ceraso

Gianni Celati, l’outsider della letteratura italiana che è diventato un classico

Nessuno sarà più incredulo di Gianni Celati nell’accogliere il corposo Meridiano che raccoglie la sua narrativa (Celati. Romanzi, cronache e racconti, Mondadori, pagg. 1854). La preziosa collana dà sistematicità a classici anche contemporanei, ma una sistematica di Celati ha l’aria di una fantasticheria editoriale. I curatori non potevano che essere quei due. Marco Belpoliti, critico e studioso di letteratura e da decenni seguace di Celati, gli ha dedicato corsi di laurea, convegni, studi e, nel 2008, un ricco numero della rivista-libro Riga che Belpoliti dirige assieme a Elio Grazioli, per Marcos y Marcos (più un altro numero che ricostruisce le vicende progettuali della rivista Ali Babà, che Celati aveva pensato insieme a Italo Calvino e altri alla fine degli anni 1960).

Per il Meridiano Belpoliti ha scritto un saggio introduttivo di 60 pagine («La letteratura in bilico sull’abisso»), quasi un libro nel libro. Nunzia Palmieri è, come Belpoliti, docente di letteratura all’Università di Bergamo (ha pubblicato per Quodlibet una monografia su città e letteratura dal titolo fortemente celatiano: Visioni in dissolvenza), ha curato alcune opere recenti di Celati e occasionalmente è stata anche in scena con lui, nella parte della moglie dell’attore Vecchiatto. Con la «cronologia» del Meridiano, Palmieri ha scritto la biografia più completa dell’autore; con le «notizie sui testi», ha dipanato la matassa di edizioni, varianti, riscritture che fanno di quasi ogni libro di Celati una nebulosa di scrittura. Anna Stefi ha compilato una bibliografia altrettanto strenua, inseguendo la firma del nomade autore in una jungla di riviste e iniziative editoriali disperse ovunque. Ed ecco qua – pur delineata tanto sommariamente – la sistematica di Celati, con il suo irriducibile paradosso.

Nel Meridiano è definito: «un outsider della letteratura». Celati si è infatti sempre ben tenuto ai margini (o fuori) dell’istituzione di cui i Meridiani sono accurata glorificazione. L’ha anzi assediata con spirito avventuriero, scagliando contro le mura del Canone la sintassi e lo sguardo della follia, della bagarre, del comico da torte in faccia o distillando, più di recente, nuovi contravveleni all’odiato «romanzesco»: la scrittura del silenzio appena increspato, dei paesaggi, del tempo che scorre, della banalità che delude e smorza le nostre aspettative di stati d’eccezione. Nato nel 1937 a Sondrio, edito dal 1971, Celati non è stato solo narratore, traduttore, saggista, ma anche saltimbanco, professore, attore, regista, camminatore, capocomico, editor, poeta, esploratore. I minuziosi apparati ora consentono di seguire meglio le evoluzioni che normalmente vengono semplificate in due periodi, separati da sette anni di silenzio editoriale, dalla fine dei ‘70.

Il primo Celati è quello in continuo dialogo con l’amico Italo Calvino, qui rappresentato dai quattro romanzi pubblicati tutti da Einaudi (Comiche, 1971; Le avventure di Guizzardi, 1973; La banda dei sospiri, 1976; Lunario del paradiso, 1978). Con la parziale eccezione dell’ultimo, sono testi segnati da una concitazione che giunge alla farsa parossistica, dove la scrittura tallona l’oralità (fino all’onomatopea), il corpo e le sue smanie, la mente e i suoi deliri, l’infanzia, la cinetica dell’adolescenza, l’ariostesco furore dell’amore infelice. È il Celati che dichiara a Calvino che a lui interessa solo arrivare alla perversione completa dell’ordine delle cose, la bagarre. Ma non si pensi a una selvaticità incolta, è il contrario: nello stesso periodo Celati ha scritto i saggi delle sue Finzioni occidentali, frutto di letture profonde e tempestive dei massimi filosofi e teorici della letteratura del periodo, e ha tradotto tra gli altri Swift, Balzac, Céline, Twain, Barthes, Carroll, Joyce (contemporaneamente al Meridiano, esce ora da Quodlibet la raccolta di saggi più recenti Studi d’affezione per amici e altri, con saggi sul Novellino, su Ariosto, su Manganelli).

Il secondo Celati è quello che ha sostituito a Calvino, come interlocutore, il fotografo Luigi Ghirri e con lui si è immerso in viaggi, lungo la via Emilia e lungo il corso del Po, da cui le novelle e cronache, pubblicate da Feltrinelli (Narratori delle pianure, 1985; Quattro novelle sulle apparenze, 1987; Verso la foce, 1989; Cinema naturale, 2001, oltre a tre film documentari). Il rapporto con l’oralità si fa meno concitato e più profondo, alla follia si sostituisce la banalità del vivere e passare il tempo, l’energia non si acquieta ma si sposta nei territori ampi dell’osservazione e della registrazione dell’ordinario. È il Celati che fa dire a Belpoliti, nell’informata e rivelatoria introduzione: «Dar vita a un racconto significa per Celati restituire alle parole il loro valore in rapporto all’esperienza, privilegiare le apparenze rispetto alle interpretazioni». Celati è quindi arrivato in Africa (Avventure in Africa, 1998 Fata morgana, 2005; il libro-film Passar la vita a Diol Kadd) per tornare, nell’ultimo scorcio della sua attività, a narrazioni padane (Vite di pascolanti, Nottetempo 2006; Costumi degli italiani I e II, Quodlibet 2008). Nel frattempo ha fatto i conti con i suoi studi di anglistica firmando con Daniele Benati un’importantissima antologia (Storie di solitari americani, Bur 2006) e finalmente pubblicando la sua traduzione, quasi cantata, dell’Ulysses joyciano (Einaudi, 2013).

Il Meridiano registra così, con affetto e ammirazione, come la narrativa di Celati (nonché ogni altra sua forma di espressione) è un epifenomeno, una reazione del corpo, qualcosa che accade come conseguenza di una certa posizione nel mondo (studio, sguardo, movimento, discorso, lettura, ascolto) e a una certa gamma emozionale (amore, furore, memoria, sprezzatura, accudimento, noia, curiosità). Per questo leggendolo non si capisce mai bene da dove venga quella sua inimitabile scrittura, capace com’è di passare da effetti di spontaneità a effetti di costruzione meticolosissima a volte in pochi giri di frase: «Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo» (explicit di Verso la foce).
Grati a lui e ai curatori di tante avventurose esplorazioni di un piano diverso da quello della letteratura ordinaria, ci accorgiamo che questo di Celati – qui il paradosso – è certo un Meridiano, però parallelo: incrocia gli altri, li costeggia, se ne distacca, ci porta altrove.

Le opere di Gianni Celati insomma, soprattutto quelle degli anni ’70 hanno avuto un notevole successo soprattutto grazie al loro essere caratterizzate da un linguaggio sperimentale e trasgressivo, fondato sulla lingua parlata attribuita a personaggi al limite del verosimile. La prosa di Celati, solitamente asciutta e disadorna riproduce con efficacia il contrasto tra vecchio e nuovo, tra mondo contadino e mondo moderno, ma il nuovo assetto non riesce a sostituire del tutto il nuovo. L’impressione che ne deriva, basti far riferimento a Narratori delle pianure è quella di un ambiente povero e degradato privo di equilibrio e di una precisa fisionomia. Al centro di Narratori di pianure infatti vi è una realtà dimessa e quotidiana che lo scrittore descrive in prima persona attraverso un linguaggio semplice ed essenziale, quanto più possibile obiettivo e preciso, dal tono quasi cronachistico, con accostamento paratattico di brevi periodo. Ne emerge il quadro di una realtà ambientale degradata piena di asfalto, di strade dissestate, di grigi capannoni, di edifici scrostati e disadorni in stile dopoguerra, di case abbandonate, ecc…

Il viaggio lungo il Po del narratore si configura come la ricerca delle radici (alla ricerca del paese dove è nata mia madre); ma è una ricerca difficoltosa, che mette il evidenza il senso di estraneità del protagonista a quei luoghi (senza saper bene dove andavo; non riuscivo a immaginare che fosse esistito qualcosa diverso dallo spazio della mia epoca)

 

Fonte: http://www.doppiozero.com/materiali/un-meridiano-parallelo-non-ortodosso-che-ci-porta-sempre-altrove

La narrativa combinatoria del Novecento e Raymond Queneau

Nella consapevolezza che la letteratura non può conservare i sui ruoli tradizionali, si muove anche un’altra importante corrente narrativa degli anni cinquanta e sessanta, sviluppatasi in territorio francese, la quale trova nella narrativa combinatoria un nuovo modello per la narrativa stessa. L’espressione tecnica combinatoria, o gioco combinatorio, indica la necessità che i materiale narrativi siano strutturati in base a scelte rigidamente razionali, predisposte secondo schemi fissati in precedenza, seguendo regole prestabilite e non modificabilidall’influenza di ispirazioni, emozioni, sentimenti.

Nel 1960, a Parigi, nasce addirittura un gruppo di scrittori accomunati dal piacere per una scrittura fondata sulla tecnica della narrazione combinatoria: si tratta del gruppo dell'”Oulipo”, sigla che sta per Ouvroir de littélature potentielle, “laboratorio di letteratura potenziale”. Tra i partecipanti, tra i quali spiccando i nomi di Raymond Queneau e di Georges Perec, c’è anche Italo Calvino, il quale applica i meccanismi combinatori nella sua produzione degli anni sessanta e settanta, dal Castello dei destini incrociati alle Città invisibili a Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Gli scrittori dell’Oulipo sono attratti dall’idea di scomporre e ricomporre a proprio piacimento gli elementi del linguaggio e delle strutture narrative, tentando anche bizzarri esperimenti. Georges Perec ad esempio pubblica addirittura un romanzo poliziesco di trecento pagine, La sparizione, nel quale non compare mai, in nessuna parola la lettera “e”. Il predominio della tecnica e la sfida alle proprie capacità di scrittura nn significano, tuttavia, il rifiuto delle potenzialità della lingua letteraria, che viene invece utlizzata in tutta la sua ricchezza. L’obiettivo degli scrittori che si richiamano a questo gioco combinatorio è quello di rivolgersi direttamente all’intelligenza del lettore più che ai suoi sentimenti, suscitando curiosità e partecipazione intellettuale.

La narrativa combinatoria di Raymond Queneau

Il già menzionato Raymond Queneau (1903-1976) è tra gli autori più rappresentativi della narrativa combinatoria. Già attivo negli ambienti surrealisti degli ani trenta, Queneau ha coltivato la poesia, la narrativa, la saggistica, confrontandosi con i più importanti dibattiti che si sono sviluppati dagli anni venti agli anni settanta: il significato dell’avanguardia, la scelta della letteratura impegnata, il rapporto con la scienza e con la tecnica.

In ogni libro della sua ricchissima produzione lo scrittore francese rivela la sua originalità di sperimentare senza limiti, che nasce da vasti interessi filosofici, antropologici, linguistici, letterari, matematici, psicoanalitici. Con il racconto Odile, Queneau esercita una ferce satira nei confronti del gruppo dei surrealisti guidato da Breton. Nei decenni successivi lo sperimentalismo dello scrittore francese prosegue in forme e modi reinventati ogni volta: sembra infatti che i suoi testi escano da un laboratorio linguistico sempre in funzione e che egli utilizzi una lingua come un magazzino di elementi da combinare secondo diverse e sempre nuove regole di montaggio. Tale intento è ravvisabile sia nei romanzi, da Pierrot amico mio a Zazie nel metrò, a I fiori blu, sia nelle raccolte di versi, tra le quali un posto a se occupa il poema Piccola cosmogonia portatile, sia infine in Esercizi di stile, le cui pagine propongono 99 racconti differenti di uno stesso episodio di cronaca.

Ne I fiori blu, tradotto in italiano da Calvino, Queneau mette in scena le vicende del duca d’Auge, le cui apparizioni nella storia avvengono ogni 175 anni. Attraverso il viaggio nel tempo del duca e del personaggio ricorrente di Cidrolin, lo scrittore colleziona un insieme di storie che presentano continui riferimenti simbolici e mascherate citazioni letterarie, la cui decifrazione continua a far discutere, come l’interpretazione dell’intera opera, del resto. La riflessione nascosta de I fiori blu può infatti riguardare la psicoanalisi o il rapporto dell’uomo con la storia, alla quale lo scrittore mostra di non credere, dal momento che, come ha giustamente notato Calvino, esprime un feroce sarcasmo “contro il tempo e i suoi valori, contro l’homo historicus”, rappresentato dal duca d’Auge.

Le molteplici allusioni, i continui giochi verbali, i riferimenti criptici, le citazioni occulte, caratterizzano anche la scrittura di Piccola cosmogonia portatile, i cui versi non sono sempre decifrabili con sicurezza. In essa Queneau si ispira al grande poema della natura dello scrittore latino Lucrezio, il De rerum natura, riproponendone la struttura in sei canti e la celebrazione della nascita e dello sviluppo dell’universo. La rivisitazione moderna del testo classico e la riproposta del mito cosmogonico sono tuttavia, percorse da un sottile esercizio di ironia.

Le opere di narrativa combinatoria dal ritmo incalzante di Raymond Queneau, sono vivamente consigliate a chi vuole effettuare della sana ginnastica mentale e a chi ama camminare sul filo dell’assurdo divertendosi, senza desiderare di sbrogliare la matassa del dubbio e del conflittuale rapporto tra sogno e realtà.

Un borghese piccolo piccolo e la parodia come memento


Un borghese piccolo piccolo (un titolo ch’è un programma) è quel capolavoro d’esordio del 1976 di Vincenzo Cerami (1940 ˗ 2013), che può essere annoverato, non a torto, tra le cose letterarie più ‘rumorose’ ed osservate del panorama culturale italiano. Italo Calvino, in una nota alla prima edizione, fece notare l’abilità dell’autore (alunno prediletto di Pier Paolo Pasolini) nel rendere, una storia d’impiegati, un grandioso e crudo susseguirsi di fatti romanzeschi.

Severgnini, in un commento dei primi del Duemila, lodò le grandi doti da sceneggiatore di Cerami, evidenziando come, prolisso dove consentito, l’autore riuscisse ad “asciugare” le frasi, rendendo, con lapidaria concisione, i momenti tragici di Un borghese piccolo piccolo. Monicelli ne estrasse un film fedele e degno, in cui un Alberto Sordi in gran forma interpretò divinamente l’enigmatico protagonista, che valse tre David di Donatello e quattro Nastri d’argento.

Arduo, scrivere di questo di Un borghese piccolo piccolo, senza finire per raschiare il fondo d’un barile di banalità. Imprescindibile, però, l’illustrazione, almeno sommaria, dei momenti salienti del racconto.

Un borghese piccolo piccolo: quel misero bisogno di arrivare

Dà il la alla narrazione. Non a caso, probabilmente, la brutale uccisione di un pesce, durante una battuta di pesca tra il protagonista, Giovanni Vivaldi (nome deliziosamente colmo di sonorità), e suo figlio, Mario. Giovanni, in un sublime e futurista andamento leopardiano, sconta la pensione sbrigando pratiche pensionistiche presso il ministero. Da perfetto piccolo borghese, suo unico obbiettivo è “sistemare” Mario, appena diplomato alla ragioneria, nello stesso luogo, aspirando però, per il giovane, ad un ruolo più alto. Compagna di Giovanni è la sterile Amalia. Ella, pur storcendo il naso, fiancheggia il marito anche quando questo, per aiutare il figlio a superare un provvidenziale concorso (esattamente al ministero), segue il consiglio del suo capufficio ˗ il dottor Spaziani ˗ e “si fa massone”. Il placido scacchiere della narrazione viene ribaltato magistralmente, e con violenza improvvisa, quando il giovane, subito dopo aver sostenuto la prova del concorso, viene coinvolto erroneamente in una sparatoria, morendo sotto gli occhi impotenti ed assenti del padre, che riesce comunque a riconoscere il delinquente. Da qui, la via per il finale che non ci si aspetterebbe, fatto di tragedia e di sorprendentemente aspra vendetta.

Si potrebbe indugiare sulla peculiarità di un Neorealismo giammai stucchevole ed artificiale; si potrebbe rallentare sui costrutti semplici, e dunque d’alta fattura; si potrebbe assaporare e svelare il labor limae insospettabile, dietro quest’opera. Si potrebbe. Anche al costo di risultare tediosi, ridondanti, pedanti.

Una delle caratteristiche di Un borghese piccolo piccolo, infatti, è proprio la descrizione di un’intera, goffa cerimonia d’iniziazione all’Ordine. La vicenda comincia quando, alla richiesta d’aiuto per il concorso al ministero, il dottor Spaziani consiglia a Vivaldi: “Hai mai sentito parlare di Massoneria? […] Bene. . . fatti massone”. Ciò pone in essere una sorta di reclutamento fondato non sulla vocazione e la predisposizione ai precetti massonici, ma sul misero bisogno d’arrivare.

Quando Vivaldi, non avendo ben chiara la portata dell’Istituzione, accetta comunque di getto, inizia l’indottrinamento (che, in ambito massonico, prevede un altro elegantissimo termine specifico) tramite una serie di opuscoletti e di libri, che Spaziani consegna al protagonista, perché impari il tutto in gran segreto. Dopo una serie di stereotipi e di luoghi comuni imbarazzanti, la preparazione termina, e giunge il giorno dell’iniziazione, in una loggia abilmente celata all’interno di una comune casa cittadina: “Arrivò finalmente il giorno della prova per il padre. L’appuntamento era fissato per le ventuno e trenta nel seminterrato di una casa, nei pressi del vecchio sambuco”.

Vivaldi vi si reca trepidante, non senza prima concedersi un ultimo istante d’esitazione e di intimità con l’Altissimo, nel “cesso” di casa, lontano dagli occhi della moglie. Inizia la cerimonia. Qui, Cerami dà la prova di quanto sappia essere generoso di parole ed abile di satira, indugiando in particolari curiosi, esasperando descrizioni, parodiando questo e quel gesto sacro, sbagliando i paramenti dei funzionari dell’iniziazione. Elargisce colori, sensazioni, odori, ed entra nel vivo del glossario massonico (“Chi è? [. . .] È un profano che chiede la Luce!”), portando tutto ad un trionfo di ebbra e bizzarra solennità, come la curiosa risposta alla domanda di rito riguardo ad un punto cardine della Massoneria, la Libertà:

“La Libertà. Dunque, per me la Libertà è fare quello che mi pare. . . È essere libero. È. . .  È. . . È la libertà di stampa e di pensiero. . . È. . .  come posso dire?!. . . È una bella cosa. . . peccato che ce ne sia troppa!”.

Giovanni compila un modulo che precede l’inizio dei lavori, ne controlla “la forma e la punteggiatura” e si presta, placido e timoroso, alle prove rituali. Le supera tutte, ma fallisce la principale: a cerimonia conclusa, la Fratellanza si riunisce per  andare alla cena rituale, ed uno degli astanti avvicina il protagonista, chiedendogli mille lire come aiuto per la sua situazione disgraziata di disoccupato con moglie incinta a carico; Giovanni torna ad essere “un borghese piccolo piccolo”, e nega d’avere il portamonete a portata di mano, facendo precipitare la situazione in un teatrino imbarazzante, con il giovane interlocutore che inveisce:

“Non vuole darmi mille lire. . . Fratelli, Fratelli. . . [. . .] L’unica prova vera non l’ha superata. . . Le prove del cerimoniale erano tutte simboliche, ma questa, questa delle misere mille lire non l’ha superata [. . .]”.

L’unica preoccupazione di Giovanni è d’essere ugualmente accolto tra i suoi fratelli (non esserlo, significherebbe perdere il concorso), ma subito capisce che la cosa non ha avuto ripercussioni sul suo cammino in loggia, e subito torna la serenità. Il giovane Mario riuscirà a sostenere la prova del concorso, ma morirà subito dopo esser uscito in strada, senza che il suo povero padre ˗ piccolo ma di grande ingegno e di insospettabile carisma ˗ possa far niente.

Monito a ricordare quanto sia deleterio forzare le cose con scaltrezza, dunque. Quasi un memento verghiano, ottimamente congegnato, e ritratto in un romanzo che ad altro non potremmo accostare, se non ad una gialla ed odorosa polaroid della società italiana (tremendamente attuale). Una polaroid scattata, quasi certamente, per mettere in guardia dai terribili effetti collaterali delle cattive azioni. Un ritratto realizzato da un autore che dimostra di conoscere bene la Massoneria ed il suo ambiente lodevole, ma che decide comunque di mostrarne il lato più assurdo e l’impotenza dinanzi al destino di ognuno di noi, a ricordare come essere l’uomo sbagliato, col giusto farmaco in mano, non porti lontano.

Exit mobile version