Cannes 2018: vince meritatamente il delicato film giapponese ‘Hoplifters’ di Kore-eda Hirozaku. Premiati anche gli italiani Garrone e Rohrwacher

La 71ª edizione del Festival di Cannes è terminata con le melense e prevedibili dichiarazioni anti-Weinstein di Asia Argento che con l’arte del cinema c’entra ben poco, l’assegnazione della Palma d’Oro e diversi altri premi, da parte della giuria presieduta da Cate Blanchett. Ad aggiudicarsi la Palma d’oro per il Miglior Film è la pellicola drammatica giapponese Shoplifters di Kore-eda Hirozaku.
La giuria della kermesse francese ha premiato entrambi i film italiani in Concorso assegnando la Palma d’Oro per la Migliore Interpretazione Maschile a Marcello Fonte, protagonista di Dogman, un racconto di morte che ha per protagonista il male, quello che contagia, ammala, fa diventare i buoni cattivi e viceversa di Matteo Garrone, che ha ricevuto il riconoscimento da Roberto Benigni e ha dichiarato: “Ringrazio Matteo che ha avuto il coraggio e la follia di volermi con sé”. La pellicola girovaga ma e poco riuscita Lazzaro felice di Alice Rohrwacher che deve molto al cinema del compianto Ermanno Olmi, ha invece ottenuto il premio per la Migliore Sceneggiatura e la regista ha ringraziato la giuria e la sua presidentessa per aver preso sul serio una sceneggiatura così bislacca, così come i bambini prendono sul serio i giochi.

Pawel Pawlikowski è il Miglior Regista con Cold War drammatica storia d’amore ambientata nella Polonia degli anni ’50. Anche nella sezione Quinzaine des Réalisateurs l’Italia si fa notare con Troppa grazia di Gianni Zanasi che ottiene il riconoscimento Europa Cinemas Cannes Label.
Spike Lee porta a casa il Gran Prix per il suo BlacKkK.lansman: “dedico il premio agli afro-americani. Il mio film dice quello che penso su Trump”.

Kore-Eda si è meritato questo riconoscimento per aver realizzato una pellicola intensa e delicata allo stesso tempo, con al centro una famiglia anticonvenzionale che l’autore nipponico ha inquadrato con grande sensibilità. Il film percorre solo in apparenza binari antichi, nascondendo una differente declinazione della materia, che guarda al sociale come l’autore non faceva dai tempi di Nessuno lo sa. Il primo segmento dell’opera sembra esaudire appieno le aspettative di quest’ultimo, introducendolo a un gruppo di ladruncoli che, per interesse prima e per affetto poi, si ritrova a festeggiare un colpo, simulando di avere dei rapporti effettivi di parentela. Tutto sembra procedere nella direzione più attesa, sino alla svolta narrativa che riapre il vaso di Pandora e rimette tutto in discussione. “Buoni”, “cattivi”, giusto e sbagliato, diventano concetti ribaltati sullo spettatore e sui suoi dubbi, con una padronanza della narrazione – già intravista nel “rashomoniano” The Third Murder – che guarda al relativismo di Kurosawa, ancor più che al consueto termine di paragone del connazionale Ozu. Il conflitto tra legge morale e legge sociale trasforma i toni quasi da commedia della rappresentazione della famiglia fittizia in un dramma colorato di nero, che colpisce come una sferzata, dopo aver aperto il cuore al sentimento.

Una Palma d’oro speciale è andata a Jean-Luc Godard, maestro del cinema francese e della Nouvelle Vague, che ha portato quest’anno a Cannes la sua ultima, sperimentale creazione: Le livre d’image.
Miglior attrice, invece, alla kazaka Samal Yeslyamova per Ayka di Sergey Dvortsevoy. Da segnalare anche la Caméra d’or, il titolo per la miglior opera prima, andato al sorprendente Girl del belga Lukas Dhont, film presentato nella sezione Un Certain Regard.
Va inoltre ricordato che il cinema italiano ha ottenuto riconoscimenti importanti anche tra i film presentati all’interno della Quinzaine des Réalisateurs, sezione parallela del festival: Samouni Road di Stefano Savona ha vinto il premio come miglior documentario dell’intera kermesse.

Cannes 2018 come Fort Apache e la crociata contro i film di Netflix

L’ultimo segnale controverso, si sa, riguarda la (forse) mancata selezione del film di Sorrentino. Ma se volessimo allungare il tiro e sintetizzare in un titolo il nebuloso stato di salute del più importante cinefestival del mondo penseremmo a Cannes Fort Apache. Perchè se è pur vero che nessuno può scippare ai francesi la consolidata tradizione del marchio abbinata al fulgore ammaliante della Croisette, una serie di scelte strategiche, impennate ideologiche e schermaglie mediatiche rischiano sul serio da qualche anno di fare assomigliare la kermesse primaverile cara ai cinèfili a un fortino assediato dai cambiamenti epocali dell’industria dell’intrattenimento e deciso a custodire sino all’estremo sacrificio un culto ogni giorno che passa impoverito di adepti.

Qualcuno dei festivalieri di lungo corso tende a darne la colpa al potente delegato generale Thierry Frémaux, un monumento di competenza purtroppo gravato da tutti i vizi degli intellettuali d’oltralpe (supponenza, sciovinismo, fanatico specialismo) che peraltro fa il suo mestiere macerandosi nel tentativo di non fare spegnere ulteriormente la passione per l’ex arte chiave del Novecento. Sta di fatto che nella conferenza stampa che ha appena rivelato a un sempre meno eccitato parterre l’elenco dei titoli che gareggeranno per la Palma d’oro si è sperperato un quarto d’ora sul “rivoluzionario” provvedimento che probirà agli invitati di fare selfie mentre procedono o stazionano sul tappeto rosso. Per salvare il cinema, insomma, la grandeur di Cannes dovrebbe ricorrere a tali mezzucci anche se, scorrendo al volo il deprimente elenco dei film arruolati, viene subito da pensare che l’aborrita pratica quantomeno avrebbe fatto ottenere una maggiore copertura sui social. Il tappeto rosso è, infatti, facciata e immagine, quindi se ne deve parlare altrimenti è inutile o addirittura dannoso come sostengono i numerosi ossessionati dai pericoli e le lusinghe della mondanità. Senza parlare dell’abolizione delle proiezioni anticipate per la stampa, escogitata anche per evitare il malumore dei produttori che non di rado vedono il proprio film incalzato anzitempo dalla furia sbracata dei blogger di cattivo umore.

Il problema ben più spinoso è quello costituito dalla crociata contro i film prodotti da Netflix, capofila più agguerrito dei network che ormai producono titoli ambiziosi e competitivi destinati, però, a essere trasmessi solo sulle proprie reti. Giá l’anno scorso, infatti alcuni cineasti devoti alla “purezza” della distribuzione e visione nelle sale avevano minacciato il boicottaggio, ma per l’imminente edizione Frémaux ha indossato i panni del barricadero sancendo la loro perentoria esclusione dal cartellone. Naturalmente è utile sapere che il suo non é un embargo dettato dal puro principio perchè è stato spinto a decretarlo dalle pressioni degli esercenti francesi, per i quali le leggi di settore prevedono un sistema integrato d’investimenti, obblighi e privilegi. A niente sono dunque servite le proteste del boss di Netflix Sarandos contro il cambiamento delle regole di ammissione in nome dello spirito di qualsiasi festival del mondo teso a garantire la chance di tutti i film a farsi scoprire da tutti i pubblici. Sulla querelle, peraltro, incombe una minaccia terribile per il destino del cinema: la trasformazione dei festival da luoghi “pagani” di celebrazione e promozione dell’arte popolare per eccellenza in sacrari arroccati in difesa dalla volgarità del mondo che cambia. Intanto, per concederci un brivido nazionalistico, immaginiamo che i vertici della Mostra di Venezia, reduce da cartelloni vincenti nonchè ormai orientata a programmazioni molto più glamour, stiano fregandosi le mani allegramente.

 

Cannes come Fort Apache

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