Lucio Corsi, il mondo poetico e la campagna come ‘locus amoenus’

Un artista delicato, dolce, onirico, un cantautore ispirato come ormai non se ne incontrano quasi più. Ascoltare Lucio Corsi oggi è rivivere un tempo quasi dimenticato. Una Madeleine di Proust, un ricordo felice che si ripresenta; l’estetica vagamente ispirata a Ziggy Stardust di David Bowie, l’universo musicale che ha sfumature di Ivan Graziani, forse Lucio Dalla e Randy Newman pur mantenendo una linea originale netta. Lucio Corsi piace perché, come i cantautori di un tempo, non si vende al mercato dell’infallibilità ma fa poesia cantando la natura che lo circonda.

I suoi testi sembrano avvolti da una sorta di realismo magico e antropomorfismo: popolati da animali e scenari bucolici, come una favola di Esopo o Fedro, i brani di Corsi raccontano la natura, la campagna, il mondo contadino e le tradizioni legate a un tempo ormai dimenticato. Altalena Boy/Vetulonia Dakar è la raccolta dei suoi primi due EP, in cui mescola l’ambientazione bucolica a sfumature fantastiche, mentre Bestiario Musicale è il primo album dell’artista dove la dimensione favolistica è centrale; i testi, apparentemente scanzonati, celano invece significati profondi e ricordano a tratti la poetica di Gianni Rodari.

Bestiario musicale

Nel disco Cosa Faremo Da Grandi, azzardando un parallelismo, si riscontra ancora una sfumatura rodariana; nello specifico il Rodari della raccolta Filastrocche per tutto l’anno dove il poeta di Omegna racconta aspetti della vita quotidiana, il fluire del tempo, i sentimenti come l’amicizia e l’importanza della solidarietà. Il fiabesco ingloba anche la seconda traccia del disco, Freccia Bianca, pur trattandosi di un brano più autobiografico; il treno è lo spirito di un pellerossa che risale, dall’amata Maremma, la strada verso Milano. E anche il vento, per qualcuno fastidioso, può diventare un buon amico; nel brano Trieste, Corsi scrive:

“Il vento no, non è un freno, ma una spinta”.

Risulta chiara l’immagine lirica di cui l’artista fa dono a chi ascolta la sua musica: una condizione apparentemente avversa può nascondere elementi positivi. Anche nella visione di Eugenio Montale a volte il vento può essere segno di vitalità positiva. Il poeta ligure In Limine ( Ossi di Seppia, 1925) scrive:

‘’Godi se il vento ch’entra nel pomario

vi rimena l’ondata della vita […]’’.

Nei versi di Montale il vento rappresenta l’ondata della vita, il cambiamento che può accadere; proprio come Lucio Corsi ricorda in Trieste: a volte lo scompiglio è opportunità. Quello che colpisce dell’artista è l’abilità di cantare la normalità, un quotidiano intriso di sogno ma anche di sentimenti che accomunano; è il caso di Tu sei il mattino (2024) dove Corsi canta la giovinezza e gli anni del liceo in una dimensione intimistica e nostalgica che ricorda le band anni ’70, come La Bottega dell’Arte nel brano Che dolce lei o ancora il già citato Ivan Graziani che pure nel brano Agnese si lascia andare al ricordo luminoso della giovinezza, rievocando malinconicamente nella figura della giovane ragazza un tempo dorato e perduto. Ascoltando con attenzione i brani di Lucio Corsi ci si catapulta in un mondo che non c’è più, anche per quanto riguarda la poetica; il registro linguistico colto e raffinato dell’artista, così come gli scenari descritti nei brani, evocano un mondo poetico e onirico che rimanda a grandi nomi della letteratura italiana difficile da scorgere nell’attuale panorama musicale.

La campagna come locus amoenus e la visione favolistica 

Per Corsi la campagna è il locus amoenus per eccellenza; la natura georgica e bucolica ritorna spesso nella sua produzione musicale così come le immagini poetiche che rimandano a un mondo fatto di tradizione contadina. In Tu sei il mattino sfilano gli ulivi, le margherite, la neve e la dolcezza di un amore giovanile:

‘’Ho imparato come stare al mondo dagli ulivi nella rete

Che s’inchinano soltanto sotto al peso della neve

Non me ne fregava niente di Pitagora ed Euclide

Gli occhi fuggivano via dalle finestre, nei prati di margherite’’.

Cosa faremo da grandi

Un universo bucolico che ricorda Myricae di Giovanni Pascoli e le sue onomatopee, soprattutto nel disco Bestiario Musicale, dove la musica che accompagna la bellezza dei testi si fonde in una dimensione surreale. Ascoltando in cuffia L’Upupa, La Volpe, La Lepre, sembra quasi di trovarsi immersi nella macchia Toscana, di notte, mentre i rumori si rincorrono formando un’armoniosa melodia e l’odore degli alberi e della terra ulimosa penetra il proprio essere trasportando l’ascoltatore in un panismo di dannunziana memoria. La Maremma di Corsi è descritta nel suo essere brulla ma anche incantata.

Bestiario Musicale dà voce agli animali che la popolano, quegli animali che un tempo avevano molto più spazio per esprimersi e far valere il loro potere. Cosa resta, quindi, del legame dell’Uomo con il mondo animale? Sembra chiedersi e chiedere l’artista. Ma i brani sono anche un ponte che si collega al passato, a quella dimensione intrisa di leggenda e tradizione che appartiene al mondo contadino dove gli animali sono alleati, non nemici.

Corsi ha raccontato in varie interviste di quanto il brulicare di suoni appartenente al mondo animale della sua amata Maremma sia vivo, di come la genesi delle sue canzoni parta da momenti di vita vissuta, da una lepre che spunta in strada durante la notte, dalla vita invisibile ma pulsante che contorna la campagna del suo paese di origine.

In Corsi ritorna il mito bucolico della campagna, il locus amoenus che rimanda ai tipici luoghi dell’infanzia pascoliana. Il rigoglio della natura, in questo senso, diventa palcoscenico di magia e meraviglia e proprio l’ambiente pastorale rappresenta la più fulgida poetica del fanciullino, ovvero la contemplazione sensibile di fronte alle piccole cose; il «(Non omnis) arbusta iuvant humilesque Myricae» di Virgilio da cui Pascoli trae il titolo della sua raccolta Myricae per sottolineare la bellezza dell’apparente semplicità che può essere colta solo dalla purezza del fanciullo. La natura regala letizia solo a chi sa accorgersi delle piccole cose, un piccolo monito che in Bestiario Musicale è più vivido che mai.

L’Upupa di Lucio Corsi e L’Upupa di Eugenio Montale

La capacità immaginativa di Lucio Corsi è talmente potente da farlo sembrare un antico cantastorie, un folletto bucolico e bizzarro della musica che ha come cori e cantori gli elementi della natura. Il brano “Godzilla” è, per esempio, una canzone surreale popolata da falene e cimici e dalla variegata immaginazione di un bambino, o ancora ‘’Le Api’’ dove il kafkiano e il reale si incontrano sfiorandosi in una eterna danza. E poi c’è ‘’L’Upupa’’ (Bestiario Musicale, 2017) che narra di un movimento punk nato nella foresta:

‘’C’è un movimento punk nella foresta

Gli alberi con i capelli sempre verdi sulla testa

C’è un movimento punk ai limiti del bosco

Con l’upupa che canta allegra le sue origini di zebra

E se ne frega di chi la vede come un male

Di chi la vede come un ponte tra il mondo dei vivi e il mondo delle ombre’’.

Lucio Corsi restituisce una certa regalità a questo uccello mitico visto come oggetto di superstizioni e leggende e, spesso, associato alla morte e all’oscurità. E come l’artista, anche il poeta Eugenio Montale squarcia la veste ferale che la maldicenza aveva accostato al volatile nei versi di Upupa, ilare uccello ( Ossi di Seppia, 1925):

Upupa, ilare uccello calunniato

dai poeti, che roti la tua cresta

sopra l’aereo stollo del pollaio

e come un finto gallo giri al vento;

nunzio primaverile, upupa, come

per te il tempo s’arresta,

non muovere più il Febbraio,

come tutto di fuori si protende

al muover del tuo capo,

aligero folletto, e tu lo ignori.

 

La Maremma immaginata, elogio della provincia e dimensione fantastica

In più di un’intervista Lucio Corsi ha parlato dell’importanza della noia e di come la sua famiglia lo abbia fin da subito indirizzato a farci i conti, in quanto aspetto presente nella vita di ognuno. Corsi ha anche sottolineato, tuttavia, quanto il tedio sia stato motore della sua creatività; la vita di provincia può essere lenta ma proficua e ricca di insegnamenti. Il silenzio può consigliare arte e nell’apparente stasi  il brulicare di vita sussurra fantasia. Il poeta Attilio Bertolucci scriveva ‘’Il passo è quello lento e gaio della provincia’’ (Gli Anni, La capanna indiana, Firenze, Sansoni, 1951) perché la lentezza è anche prendersi il tempo per il piacere della scoperta. La bellezza del mondo fantastico di Lucio Corsi è soprattutto aver ricordato come, in un momento storico che spinge alla velocità e fa sentire fuori luogo chi non è infallibile, bisogna sempre rimanere sé stessi, non snaturandosi. E allora ecco che l’artista propone una Maremma che è scrigno di sogno: nella zona Toscana amata dallo scrittore Carlo Cassola la poetica di Corsi, dopo Bestiario Musicale, lascia il posto all’onirico e al surreale come si riscontra nel brano La gente che sogna:

’Se ne hai bisogno

Un albergo non è altro che il pronto soccorso del sonno

Dove puoi fare tutte le esperienze della vita

Senza una vittoria e senza una ferita’’.

Ma le suggestioni della Maremma sono sempre presenti nei brani di Corsi e così il carattere favolistico e visionario che si interseca a influenze glam rock e cantautoriali come quelle di Paolo Conte e Ivan Graziani. Un altro esempio è l’album, con l’omonimo brano, Cosa faremo da grandi? in cui l’artista smonta la narrazione del ‘’traguardo’’ come punto d’arrivo, evidenziando come l’azione del disfare non sia necessariamente un fallimento ma, anzi, una ripartenza perché sì, si può buttare il lavoro di anni in quanto anche da adulti è possibile cambiare visione e percorso:

‘’C’è un mistero in ogni giorno che comincia

Dopo una notte che finisce

Io non ho mai capito

Di che cosa sono fatte le conchiglie

E come fanno ad arrivare

Lungo le spiagge affollate

Se dal cielo non scendono scale

Se dal mare non arrivano strade’’.

Ascoltare i brani di Lucio Corsi è tornare con la mente a tempi lontani, al mondo dorato dell’infanzia, alla dimensione lirica e domestica degli ambienti familiari, alle sfumature crepuscolari di provincia popolate da poeti come Marino Moretti e Guido Gozzano, al giorno svanito nel tramonto e  alla ‘’pace infinita che sui fiumi stende la sera alla campagna’’ di Alfonso Gatto (Arie e ricordi, Tutte le poesie Mondadori, 2017).

Un parallelismo con il poeta Morbello Vergari

La poetica di Lucio Corsi ha ammaliato il pubblico per la sua delicatezza, l’eleganza e la cultura dell’artista. La Maremma Grossetana, luogo natio di Corsi, vanta anche i natali di un altro pregevole poeta: Morbello Vergari nato nel dicembre del 1920 e scomparso nel 1989. La sua è un’infanzia contrassegnata dalla guerra e dalla miseria, ma vicina al mondo contadino e bucolico. Durante gli anni del dopoguerra inizia a proporre i suoi testi poetici e si avvicina alla musica in quanto suona la fisarmonica. La sua prima silloge è ‘’Versacci e discorsucci’’ e nel presentare il proprio pensiero poetico Vergari scriverà:

«Non canto i cavalier, l’armi, gli onori,

come un dì fece il grande Ludovico.

Le guerre infami, i sanguinanti allori;

di tutto questo non mi importa un fico.

Ma i lavoranti, l’ape, i campi, i fiori;

le cose grandi solamente, dico.»

Proprio come Lucio Corsi, Vergari canta la normalità, la consuetudine, le piccole cose che tuttavia sono grandi. L’attaccamento alla  propria terra e la fierezza delle proprie origini è un altro punto in comune fra l’artista visionario, ponte fra presente e passato, e Morbello Vergari. Il poeta intorno agli anni ’70 aveva iniziato una ricerca sulla tradizione canora maremmana; grazie all’amicizia con la cantante folk Caterina Bueno partecipa alla serata conclusiva del Convegno sulle “Tradizioni popolari e la ricerca etnomusicale” , nel 1975 a Firenze. Successivamente, in seguito alla collaborazione con Corrado Barontini, nasce  il gruppo “Coro degli Etruschi” il cui obiettivo era riproporre i canti della tradizione; da qui il libro ‘’Canti popolari in Maremma’’.

Quello che stupisce dell’arte di Lucio Corsi non è solo una sublimazione sognante del quotidiano ma anche la mescolanza fra il surreale e il reale. In alcune interviste tratte dal periodo Sanremese Lucio ha sottolineato:

‘’Bisogna rimanere ancorati alla terra come gli alberi della Maremma’’.

La terra natale è sempre presente e così gli alberi che Lucio ama: sognare sì, tendere al cielo anche ma sempre rimanendo solidi come il paesaggio selvaggio della sua Maremma. In un’intervista risalente al 2015 su La Repubblica Lucio parla anche del suo rapporto con gli alberi:

‘’Ho un rapporto di infatuazione per gli alberi: c’è tipo una quercia vicino casa mia e ce l’ho come riferimento fin da piccino’’.

Il lirismo  di Corsi colpisce anche nelle interviste per il lessico sofisticato e il tono elegante, ma soprattutto per i contenuti consueti ma rivoluzionari. Conversare del potenziale rapporto d’amore con la natura e i suoi elementi è già poesia e Lucio ricorda a chi è preso dalla frenesia del mondo e dalla competizione quanto è bello non avere traguardi ma solo partenze e quanto è liberatorio fermarsi ad ascoltare. Come scriveva il poeta Camillo Sbarbaro, in 38, Trucioli (1914-1918):

‘’Ma ormai, se qualcuno invidio, è l’albero.

Freschezza e innocenza dell’albero! Cresce a suo modo. Schietto, sereno. Il sole, l’acqua lo toccano in ogni foglia. Perennemente ventilato.

Tremolio, brillare del fogliame come un linguaggio sommesso e persuasivo!

Più che d’uomini, ho in cuore fisionomie d’alberi’’.

 

Entomologia in musica e poesia

Come si evince da alcune dichiarazioni dell’artista e dai suoi testi la passione per l’entomologia e gli insetti è abbastanza evidente. Nel brano ‘’Godzilla’’ Corsi catapulta l’ascoltatore in un universo incantato esortando, quasi, a fare un esercizio di immaginazione:

‘’Provate a mettere le ali

Provate a mettere le ali alle lumache

Diventeranno draghi’’.

Così le cimici diventano carro-armati volanti, gli insetti vedono gli alieni camminare sulla terra e le falene sono farfalle anziane in pelliccia che, alla sera, vanno a ballare. Un giovane poeta del secolo scorso, come Lucio Corsi, intesserà un rapporto profondo con l’entomologia e specialmente con le farfalle; Guido Gozzano, infatti, dedicherà dei meravigliosi versi ai lepidotteri in le ‘’Epistole Entomologiche’’.

‘’[…]Voi contemplate, amica, la farfalla

infissa da molt’anni. Ben più dolce

è meditarla viva nel suo regno

La rivedo con gioia ad ogni estate;

sfuggito all’afa cittadina, appena

giunto al rifugio sospirato, indago

con occhi inquieti lo scenario alpestre […]’’

Gozzano, come Corsi, è un cantore della provincia e delle piccole bellezze che sfuggono agli uomini assorbiti dall’escandescenza della società. Sempre come l’artista toscano che ritorna alla sua Maremma, anche nel mondo poetico di Guido Gozzano la città natale – in questo caso Torino – è al centro del suo universo letterario, culla di ricordi, lirismo e nostalgia; così come la natura che ritorna nella sua contemplazione paesaggistica e il mondo naturale popolato dai suoi elementi caratteristici.

Intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno

Le influenze musicali di Corsi, come sottolineato più volte dall’artista, sono ben note. Ma la sensibilità del cantautore, la preziosità del registro linguistico, la visione immaginifica dei testi lo collocano al centro di un mondo letterario sfavillante in cui confluiscono le poetiche di vari autori del ‘900, a ben vedere, e non solo scrittori di poesia ma veri e propri precursori di tendenze.

Il 15 ottobre 1923 nasceva Italo Calvino, il 15 ottobre 1993 Lucio Corsi; forse una strana coincidenza, o forse no. Il primo ha esplorato il neorealismo, la commedia fantasy, la fantascienza umoristica, il gusto dell’ironia la dimensione mitico-fiabesca che sotto le spoglie del sogno cela la realtà. E Corsi è un artista che sembra uscito da una fiaba, un menestrello che racconta le sue storie attraverso testi fantastici e favolistici che non tralasciano la dimensione onirica e la sfumatura fantascientifica ( si pensi all’Astronave Gira Disco o Altalena Boy, per esempio) una figura eterea, fluttuante  e incastonata in un paesaggio dai toni pastello di Hayao Miyazaki. L’amore di Lucio per gli alberi lo avvicina alle avventure arboree di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista de il Barone rampante (1957) di Italo Calvino che decide di salire su un leccio e di non scendere più, ma anche alla struttura fiabesca di Marcovaldo (1963) dove il tema urbano si interseca alla tematica del surreale e alla purezza del personaggio.

L’incredibile successo di Lucio Corsi è forse sintomo di un necessario  processo di palingenesi: l’arte, la cultura, la musica, la poesia hanno bisogno di una rinascita, una  restaurazione che non releghi i valori, le tradizioni, la normalità e la fierezza di essere sé stessi – come lo stesso Corsi canta nel brano portato al Festival di Sanremo 2025, ‘’Volevo essere un duro’’– ma si interessi all’immagine di uomini fallibili e imperfetti che sognano grazie ad alberi e prati di margherite come Lucio, che immaginino gli allunaggi delle lepri e ombre che non sono lugubri o funeree ma rappresentano lo sguardo illuminato della luna che sfugge alla notte che avanza. ‘’Sono anni che nessuno mi trasforma in qualcos’altro’’, scrive l’artista in un altro suo pezzo, ‘’Danza Classica’’, e probabilmente è stata proprio la sua resistenza al tempo e alle mode, oltre alla sua musica, ad averlo preservato in tutta la sua purezza e luminosità.

 

 

 

 

Claudio Lolli, poeta malinconico prestato alla canzone d’autore italiana

Molti cantautori italiani sono scomparsi prematuramente. Si pensi solo a Fred Buscaglione, Luigi Tenco, Rino Gaetano, Lucio Battisti. Claudio Lolli, uno dei padri della canzone d’autore italiana, è morto a 68 anni nel 2018.

È scomparso anzitempo se consideriamo l’aspettativa di vita in Italia, seppur non giovanissimo. Soltanto con la pubblicazione del suo ultimo album è riuscito a vincere la targa Tenco, nonostante avesse frequentato per anni quel palco. Ciò è il segno che la qualità del cantautorato fosse elevata, ma dimostra anche una certa incomprensione, una certa miopia nel giudicare l’arte di Lolli.

Qualcuno negli anni settanta diceva molto malignamente che Lolli istigasse al suicidio, ma era totalmente errato. Invece amava la vita. È del tutto naturale talvolta guardarsi indietro, volgersi dietro, soffermarsi a pensare al tempo trascorso. La malinconia è un sentimento universale, una costante umana e assumono una posa coloro che non ne parlano o fingono di non provarla in nome di una presunta oggettività o in nome di un posticcio stoicismo.

Lolli non era per autodistruzione ma per piacere, peraltro moderato, che amava le sigarette ed il vino. Lolli era un poeta malinconico prestato alla canzone ed ispirato da una autentica passione civile. Eppure non si riteneva un poeta. Pensava che la canzone d’autore fosse una supplente della poesia contemporanea. Era da sempre schierato contro la retorica ma anche contro la puerilità delle canzonette.

Non cercava mai formule facili né slogan politici, pur essendo dichiaratamente di sinistra. Certe sue canzoni sono dei ritratti memorabili di una Italia che non esiste più. Lolli è stato cervello acuto e cuore pulsante del movimento studentesco bolognese; mai sdolcinato, mai mellifluo, è rimasto negli anni sempre fedele a sé stesso; ha sempre saputo suscitare emozioni e sentimenti senza mai voler persuadere nessuno.

Per dirla con una delle sue ultime canzoni non è stato un uomo senza amore. I suoi testi sono sempre stati incisivi, letterari e pregnanti. Lolli ha cantato il tormento, la disillusione, l’estraneità, l’inadeguatezza della sua generazione, alternandoli a momenti di intimismo. Nonostante il riflusso ed il disastro degli anni ottanta ha continuato a descrivere i vizi e le virtù della nostra penisola. Anche musicalmente è sempre stato originale, sapendo fondere elementi di jazz con il rock progressive.

Per dirla alla Vittorini ci sono due tipi di opere creative: quelle che ci confermano il mondo come noi lo conosciamo e quelle che ci fanno vedere in modo nuovo il mondo. Ebbene Lolli aveva un suo stile unico, inconfondibile e personale. Spicca per il lirismo con cui ha cantato i giovani del ’77 e con cui ha cantato la sua Bologna.

Era per quanto possibile contro il sistema. Infatti dopo il successo chiuse i rapporti con la EMI, una multinazionale, per approdare ad una casa discografica indipendente. Insomma nessuno poteva dargli del venduto in quanto era di specchiata moralità, lontano  da ogni tipo di compromesso. Ritornando al discorso della nostalgia, tutto al più si sarebbe potuto considerare depresso ma non deprimente. Lolli aveva molto da dire e le sue canzoni lo hanno sempre testimoniato.

Lolli è stato il poeta della generazione bolognese del 1977. Ha cantato le inquietudini, le contraddizioni, le speranze, i sogni di quella generazione. Come ha detto il professor Franco Berardi, detto Bifo, quella generazione, difficilmente inquadrabile ed etichettabile, e con essa Claudio Lolli aveva il merito fondamentale di chiedersi cosa fosse la felicità. Il nostro ha frequentato ed influenzato altri cantautori impegnati.

Ha insegnato a Vecchioni a strafregarsene dei ritornelli. Si è dedicato con passione all’insegnamento ed ha lasciato una traccia indelebile nei suoi studenti. È stato un docente umano, mai fazioso o settario, sempre pronto a formare culturalmente invece che a deformare giovani menti a propria immagine e somiglianza. Era un uomo di parte ma mai fazioso e sempre aperto al confronto, al dialogo. Era perfettamente consapevole che nessuno ha la verità in tasca e che chiunque ha la facoltà di fare la propria scelta di campo.

L’insegnamento, peraltro mestiere  sempre svolto ottimamente, è stata anche una scelta obbligata per garantirsi uno stipendio fisso e per avere più libertà come cantautore.

Claudio Lolli ha raccontato di aver preso la decisione di insegnare dopo aver cantato un pomeriggio in una discoteca di Salerno. Prima ha fatto un lungo viaggio da Bologna a Salerno. Poi ha cantato davanti ad un pubblico disinteressato, impaziente di scendere in pista a fare quattro salti. Capì allora che per garantirsi un futuro doveva insegnare.

Lolli raggiunse il culmine del successo con l’album “Ho visto anche degli zingari felici”. È nella prima canzone dell’album che tratta delle conflittualità e delle incomprensioni della sua generazione e di quella dei suoi genitori, mentre propone i rom come un mondo altro, che può proporre altri valori e una altra vita.

I rom quindi come realtà alternativa da valutare seriamente e a cui guardare con interesse. Ma in quell’album c’era anche “Anna di Francia” in cui scriveva che l’alternativa non era “solo ideologia ma organizzazione”. Aveva naturalmente ragione. Si pensi a quante astruserie e quanti discorsi fumosi la classe operaia era destinata a sorbirsi quando nessun ex operaio sedeva tra gli scranni del parlamento e la vera cultura operaia era un’utopia.

Non parliamo poi di una organizzazione umana e scientifica nelle fabbriche italiane, dove si guardava ancora a Taylor e Ford negli anni settanta, negli anni ottanta si considerava solo alla produzione di massa, e le scoperte più recenti della psicologia del lavoro non venivano minimamente considerate.

Un’altra canzone che fece epoca è Michel, storia di una amicizia dalla fanciullezza alla giovinezza tra due ragazzi in cui venivano amalgamate invidia, affetto, rivalità, piccoli bisticci. È vero che gli amici di infanzia non ce  li scegliamo un poco come i parenti, ma allo stesso tempo sono figure fondamentali che hanno plasmato la nostra personalità di base e fanno parte della nostra esperienza atavica e primordiale.

Spesso sono ricordi lontanissimi, che talvolta scacciamo dalla mente, però poi ritornano quando meno ce lo aspettiamo nei nostri sogni. Michel è una storia triste con l’amico che se ne va, la sua madre che muore, l’addio alla stazione. Michel come dichiarò in una intervista Lolli era finito malandato, trasandato, povero in Francia, dalle notizie che aveva avuto.

Ma ogni volta che la cantava in un concerto era una pagina memorabile della memoria, era la rievocazione di una amicizia. In “Venti anni” Lolli testimonia la grandezza e la miseria di quell’età, la condizione esistenziale di chi era giovane allora. In “Borghesia” il cantautore bolognese aveva denunciato la piccolezza e la grettezza di quella classe sociale da cui proveniva.

In Lolli troveremo più volte nelle sue canzoni la conflittualità edipica della sua estrazione borghese e della sua formazione intellettuale progressista. Chiunque sia solo e diremmo oggi sfortunato con le donne si riconosce benissimo in “Quelli come noi”. In “Piazza bella piazza” viene trattato il tema delle stragi di stato, nel caso specifico dell’Italicus.

La rabbia di chi vive in periferia è descritta magistralmente in “Io ti racconto”. Ma il cantautore ha saputo scrivere anche delle belle poesie d’amore come “Donna di fiume” e “Vorrei farti vedere la mia vita”. Più recentemente con “Il grande freddo” ha fatto una metafora e allo stesso tempo un  resoconto di quella generazione di contestatori.

Da notare che il titolo dell’album è un riferimento al film omonimo di Kasdan, in cui degli ex liceali sessantottini si ritrovano quindici anni dopo al funerale di un loro compagno e fanno un bilancio complessivo. Ma in Lolli il discorso poi alla fine si estende a tutta l’umanità e non riguarda solo la sua generazione.

È indicativo a riguardo che il cantautore pensi all’amore perduto e sprecato sugli autobus. Oggi Lolli viene riscoperto e giustamente valorizzato però più dagli intellettuali che dai mass media. D’altronde non poteva essere altrimenti per uno che aveva come maestri Dylan, Cohen, Brel, Brassens. Recentemente Luca Carboni ha fatto una cover di “Ho visto anche degli zingari felici”.

È consigliabile però ascoltare tutte le canzoni di Lolli e  non fermarsi alle più celebri. Leggete in rete per farvi una idea della grande qualità i suoi testi. Ascoltate su YouTube le sue canzoni. Comprate i suoi CD. Si rimane stupiti della sua precocità artistica. Poco più che ventenne dimostrava già una grande maturità e una grande umanità.

Così come ha sempre impressionato la sua prolificità (più di venti album, delle raccolte di racconti, una silloge poetica, un romanzo) e il fatto che non avesse cadute di tono. Allo stesso tempo nelle sue opere troviamo un fil rouge, ma in ognuna di esse si può verificare quanto il cantautore sapesse rinnovarsi e sperimentare artisticamente.

Ogni canzone era diversa, ma aveva lo stesso imprinting e lo stesso imprimatur. Il cantautore è stato fratello maggiore, compagno, professore, amico di molti ragazzi. Recentemente hanno preparato un evento intitolato “Da Lolli e dintorni. La poesia civile di Claudio Lolli”.

 

Davide Morelli

“Aida”: Il sorriso dolceamaro di Rino Gaetano

Un ragazzo in frac, cilindro ed ukulele che in televisione canta un brano leggero ed apparentemente senza senso. Il brano s’intitola Gianna, il palco è quello del Festival di Sanremo  1978 ed il ragazzo in questione si chiama Rino Gaetano. In un periodo storico ben preciso, la seconda metà degli anni ’70, ed in un panorama musicale dominato da cantautori politicamente e socialmente “impegnati” ( i vari Guccini, De Andrè, Venditti, Vecchioni, De Gregori) Rino Gaetano sa imporsi all’attenzione del grande pubblico attraverso una dote molto rara e decisamente fuori moda: l’ironia. I suoi testi, caratterizzati da iperboli, giochi di parole e nonsense, riuscivano a svelare il marcio della società con la semplice forza di un sorriso. L’intuizione di abbinare queste liriche così “sopra le righe” a melodie semplici ed immediate ha dato vita ad una miscela esplosiva ed allo stesso tempo innovativa. Tuttavia Rino non è stato capito subito (il primo disco Ingresso Libero andò malissimo, meglio il secondo Mio fratello è figlio unico). Ben presto viene  definito “giullare” ed i suoi brani  sono etichettati come semplici “canzonette” da quei critici che non sapevano leggere oltre le parole. La storia ha ampiamente dimostrato che non era cosi.

L’album Aida, forse è  il suo lavoro più completo e maturo, che funge da descrizione del mondo, nascosto dietro la fantasia di questo artista per molti aspetti unico.

“Ultimamente, qualche mese fa, io ho visto un film molto importante, che è Novecento di Bertolucci. Questo film era un po’ la storia dell’Italia, raccontata proprio in due parti. Io ho cercato di scrivere… di portare in canzonetta, la storia dell’Italia, degli ultimi 70 anni italiani, partendo un po’ dalle guerre coloniali fino ad oggi. E allora mi sono servito, per fare questa canzone qui, di una donna, che ha vissuto attraverso i suoi amori e i suoi umori, e la sua cultura, la politica italiana. Questa donna si chiama Aida”.(R. Gaetano)

L’apertura è affidata alla splendida title-track che, a dispetto del maestoso titolo di verdiana memoria, è ricca di riferimenti storici abilmente mescolati in un caleidoscopio di vocaboli e metafore degno di un prestigiatore della parola (ad esempio “Aida le tue battaglie, i compromessi, la povertà/ i salari bassi, la fame bussa / il terrore russo/ Cristo e Stalin”). Aida è chiaramente una trasfigurazione dell’Italia che, dopo aver acquisito le fattezze di una bella donna, racconta, ripercorrendo i suoi ricordi, la sua storia lunga quasi un secolo. L’intenzione dell’autore è proprio questa, ripercorrere attraverso dei simboli il novecento italiano.

L’ermetica Fontana chiara, che ruota tutt’intorno al criptico verso “Fontana chiara/Un poco dolce un poco amara”, apre la strada ad un altro capolavoro Spendi, Spandi, Effendi che affronta il tema della crisi petrolifera e del caro benzina. Il tono scherzoso e irriverente nasconde tutta la drammaticità dell’argomento trattato senza tuttavia sminuirlo. Le meravigliose Sei Ottavi (in duetto con Marina Arcangeli della Schola Cantorum) ed Escluso il cane possono essere considerate il vertice della produzione di Rino Gaetano grazie alla carica fortemente evocativa delle liriche usate e l’indiscutibile bellezza delle note che le accompagnano. Una canzone sulla masturbazione femminile (si avete capito bene) la prima, una vera e propria invettiva contro tutto e tutti la seconda, lasciano spazio a pochissimi dubbi sul reale talento di questo artista troppo spesso sottovalutato. Il ritmo latino di La Festa di Maria, la vorticosa (sia dal punto di vista lirico che musicale) Rare Tracce, il divertissement satirico Standard (in cui l’autore storpia i nomi di Andreotti, Moro, Fanfani, Papa Montini), l’eclettico rock di Ok papà completano un disco in netto anticipo con i tempi. Nessuna paura, nessuna pietà, nessun timore reverenziale. Rino Gaetano affronta a modo suo la realtà e vince esorcizzando le brutture della vita scherzandoci su.

Proprio questa capacità di sdrammatizzare è stata la sua croce e la sua delizia. Non è stato mai preso troppo sul serio. Il grande pubblico lo apprezzava e ricordava soprattutto per le “filastrocche” (Gianna e Berta Filava) mentre Rino voleva e poteva essere anche altro. I lavori successivi Nuntereggae Più, Resta Vile Maschio Dove Vai, Io Ci Sto, mostravano un netto cambiamento di stile, molto più standard e professionale ma molto meno anarchico e dissacrante. Il successo riscosso al Festival di Sanremo (ottenuto a suo dire con una canzone assolutamente inutile) evidentemente lo aveva spiazzato, facendogli nascere la paura di rimanere ingabbiato nel clichè di Gianna. Per liberarsi da questo fardello decide di virare verso sonorità diverse quali la disco ed il rock mentre i suoi testi si fanno di colpo più seri e pacati . Il numero delle vendite diminuisce notevolmente a dimostrazione anche di un chiaro calo d’ispirazione.

Se solo si fosse accettato quale cantore apolide e ribelle di un’Italia in chiaroscuro, Rino Gaetano avrebbe prodotto ancora ottimi album. Ma sono solo supposizioni, Rino Gaetano muore in un drammatico incidente stradale a Roma il 2 giugno 1981 a soli trent’anni. L’improvvisa dipartita spiazza fans e colleghi ma non serve a proiettare l’artista nel gotha della musica italiana. Per tutti gli anni ’80 e ’90 la sua produzione viene pressoché dimenticata e la sua reputazione rimane sempre quella di autore “minore” rispetto ai “mostri sacri” del cantautorato nostrano.

Solo con l’avvento del nuovo millennio il nome e l’opera di Rino Gaetano sono stati ampiamente rivalutati e apprezzati. Musicisti quali Elio E Le Storie Tese, Daniele Silvestri, Alex Britti, Simone Cristicchi, Articolo 31, ne hanno a più riprese riconosciuto l’influenza cerando in numerosi brani di ricalcarne lo stile. Miriadi di tribute band sparse per tutto il paese ne ripropongono costantemente l’intero repertorio mentre alcuni suoi cavalli di battaglia sono diventati titoli di film (Mio fratello è figlio unico) o di programmi televisivi (Ma il cielo è sempre più blu) e sono, oramai, una presenza fissa dell’ airplay radiofonico a dimostrazione che Rino Gaetano non è stato una meteora della musica italiana ma, semmai, un precursore; uno in grado di guardare al passato per capire il futuro.

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