Clemente Rebora, la poetica della ricerca spirituale e la lirica agonizzante soffocata dalla società capitalista

Clemente Rebora nasce a Milano il 6 gennaio 1885 dal garibaldino e massone Enrico Rebora e dalla poetessa Teresa Rinaldi. Nel 1903 intraprende gli studi di medicina che presto abbandona per seguire i corsi di lettere presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove si laurea nel 1910.

Fin dalla giovane età l’anima di Rebora sembra intrisa da profonde crisi spirituali; nel suo percorso accademico supera difficili momenti di depressione che lo portano sull’orlo del suicidio. Completati gli studi, dapprima, intraprende la via dell’insegnamento in istituti tecnici e scuole serali non tralasciando la passione per la scrittura; in questo periodo, infatti, collabora con numerose riviste fra cui ‘’La Voce’’, ‘’Diana’’ e ‘’Rivisita D’Italia’’.  Nel 1913 avviene il debutto letterario  con la pubblicazione del volume di poesie Frammenti lirici. Nel 1914 conosce  pianista russa Lydia Natus, l’unica donna che il amerà nel corso della sua esistenza.

Intanto scoppia la Prima Guerra Mondiale: l’episodio storico influirà nella vita di Rebora sia a livello personale che professionale, segnando la sua poetica. Dopo aver subito un trauma cranico sul Monte Calvario, a causa di una violenta esplosione, e il fermo dovuto a uno  stato di shock, il poeta milanese si riprende e annota le atroci esperienze belliche nella raccolta Poesie sparse, composta negli anni della Prima Guerra Mondiale ma pubblicata nel 1947.  Nella lirica Leggiadro vien nell’onda della sera, Rebora racconta questa sua dolorosa esperienza dove la ferita causata dallo scoppio di una granata lo porta ad errare lo porta a errare per ospedali psichiatrici e diagnosi di crisi nervose e disturbi post-traumatici da stress:

Leggiadro vien nell’onda della sera
un solitario pàlpito di stella:
a poco a poco una nube leggera
le chiude sorridendo la pupilla;

e mentre passa con veli e con piume,
nel grande azzurro tremule faville
nascono a sciami, nascono a ghirlande,
son nate in cento, sono nate in mille:

ma più io non ti vedo, stella mia.

 

Leggiadro vien nell’onda della sera ( Poesie sparse, 1947)

 

Il poeta, affascinato dalle stelle che spuntano all’imbrunire, scorge nella sera che avanza come un’onda che sommerge tutto un delicato palpito di stella: metafora di un cuore umano. L’astro che colpisce l’animo liliale dell’autore sparisce subito poiché oscurato da una nube leggera che all’etere regala faville scintillanti ma che, per sempre, ha celato ai suoi occhi l’astro amato: il palpito solitario che lo aveva colpito, adesso, lo ha abbandonato a sé stesso per sempre.

Dopo aver vagabondato da un ospedale all’altro, e in seguito a una diagnosi di infermità mentale, Rebora riprende la sua attività ma soprattutto si configura quello che, a tutti gli effetti, diventerà il tratto distintivo della sua poesia.

Rebora: le tematiche risorgimentali e la folgorazione religiosa

Nel 1922 pubblica la racconta Canti anonimi in cui Rebora si pone al cospetto di una quasi illuminazione spirituale; è una poesia di ricerca che possiede, all’interno della ritmicità e della semantica del verso, un retaggio culturale ben delineato.

Il poeta propende verso idee risorgimentali, costrutti di pensiero appresi dal retaggio paterno, e nello specifico alla figura di Giuseppe Mazzini di cui Rebora ammira le idee, intravedendo nell’operato del patriota una sorta di evangelismo laico dedito ai bisogni del popolo e alla giustizia sociale. Ma oltre le alte idee risorgimentali, la poesia di Rebora si caratterizza soprattutto come ricerca di fede e attestazione di quest’ultima.

Nel 1928, a tal proposito, il poeta subisce una folgorazione convertendosi al Cattolicesimo. Nel 1929 prende i sacramenti, mentre nel 1930 entra come novizio al Collegio Rosmini. Nel 1936, pronunciando i voti perpetui, viene ordinato sacerdote. Dall’improvvisa illuminazione religiosa nascerà la silloge Poesie religiose, i cui componimenti risalgono al periodo fra il 1936 e il 1947. Nel 1955 compone il Curriculm Vitae in cui  l’autore ripercorre la sua storia autobiografica mentre nell’ultima raccolta, Canti dell’infermità (1956), esplora l’aggravarsi della malattia che lo aveva condotto alla paralisi.

La poetica della ricerca spirituale e la critica alla società capitalista e industriale: la lirica soffocata dalla modernità

La raccolta Frammenti lirici rappresenta l’opera più vasta di Clemente Rebora  ma, soprattutto,  è la silloge in cui emerge l’attenzione del poeta verso i problemi esistenziali dell’uomo. La buona volontà, intesa come parte positiva dell’esistenza, e la depressione come contesto di connotazione negativa sono le tematiche principali che dominano la raccolta.

Ma è soprattutto la trasformazione della città che si riversa nel moderno, e il conseguente stato d’animo  dovuto al primo conflitto mondiale che imperversa nel popolo italiano, a fare da sfondo all’immagine poetica qui descritta da Rebora.

Il poeta cerca un compromesso esistenziale nell’indifferenza della vita cittadina voltata, ormai, al progresso moderno; la società industriale e il capitalismo diventano ombra della poesia autentica che Rebora immagina fagocitata da una modernità che avanza. La poesia è agonizzante: sommersa dalla società industriale e dalle masse che si piegano a un consumismo sempre più dilagante. Nella visione di Rebora, in questo senso, il poeta è adesso solo con il proprio Io; mentre cerca di non annaspare nel mare dell’opportunismo si rivolge a una visione metafisica nel tentativo di un’amara consolazione che è, in realtà, un’illusione per sopravvivere.

 

O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.

Pioggia feroce ( Frammenti lirici, 1913)

 

Gli antichi valori sono ormai sparsi, mentre aleggia nell’anima del mondo una profonda vacuità. Peculiarità di questa raccolta è la massiccia presenza di rimandi danteschi. Le raccolte Canti anonimi (1920-1922), le Poesie sparse pubblicate nel 1947e le Prose liriche (1915-1917) sono uno sviluppo tematico della prima opera che risente non solo del periodo bellico e dell’ansia della guerra, ma anche della rottura del rapporto con la pianista Lydia Natus.

La visione del mondo, in queste sillogi, si fa cruda; Rebora descrive l’esistenza umana come composta da infinite pieghe di infelicità e smarrimento. L’uomo, secondo queste concezioni, è costretto a vivere non solo in una condizione di isolamento ma anche in un estremo contesto di violenza dovuto a un’umanità superficiale, vuota e futile. Solo la morte rimane come consolazione; morire, per Rebora, è l’unico modo che ha l’uomo  per sfuggire alla ferocia della guerra, nonché l’unico sollievo.

Il poeta, però, conferisce alla morte anche un altro significato tutto pedagogico; la morte è l’unico mezzo che hanno i soldati, protagonisti degli atti più efferati e criminosi che si possano compiere in guerra, di comprendere l’antico concetto di Pietas; una pietà che, in vita, non potrebbero mai comprendere in quanto assoggettati alle oscure dinamiche di un mondo che ha smarrito l’etica e gli alti valori.

La visione della poetica reboriana successiva alla conversione: Poesia e Fede come compagne di sventura

La folgorazione religiosa di Rebora diventa, per il poeta milanese, una speranza a cui aggrapparsi; la fede cattolica, secondo questo nuovo modo di interiorizzare il suo percorso letterario, è la chiave della speranza utile alle angherie del mondo moderno: avere fede significa, soprattutto, essere coscienti che nonostante la perdizione terrena uno spiraglio di redenzione dell’animo umano esiste ancora.

La ricerca spirituale che muove la poetica di Clemente Rebora sembra, in un certo senso, conclusa con la conquista della fede. Un concetto che, tuttavia, farà traballare lo spirito reboriano poco dopo l’illusa certezza di aver trovato una strada spianata per la ricerca del proprio Io. In Canti dell’infermità (1956), dove l’autore è già gravemente malato, traspare tutta la sua sofferenza: colpito da ictus e affetto da paralisi, Rebora attraverso questa silloge pone al centro una profonda sofferenza fisica che sconfina nella disperazione e  che fa appurare al poeta che sia la poesia che la fede non sono altro che due compagne nella vita di un uomo. Una concezione che unisce tutta la produzione reboriana, come confermano alcuni versi contenuti in Curriculum vitae (1955):

Quando morir mi parve unico scampo,
varco d’aria al respiro a me fu il canto:
a verità condusse poesia.

Curriculum vitae, 1955

 

Nel componimento La poesia è un miele, scritta il 15 ottobre 1955, Clemente Rebora sottolinea come l’ars poetica sia arte, appunto, qui in terra ma vita in cielo.

La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.

La poesia è un miele ( Canti dell’infermità,1956)

 

Risulta chiara, in questi versi, la tematica della fratellanza e dell’importanza della solidarietà degli uomini con Dio. Poesia e fede sono state per Rebora non solo compagne tacite di vita  ma dolci sorelle che lo hanno accompagnato, attraverso la sofferenza, in un mondo sempre più proiettato verso un futuro veloce, poco dedito all’attenzione e all’approfondimento, per lasciar spazio a una modernità che si configura nella praticità come valore essenziale e risolutivo. In questo senso Rebora è stato lungimirante: la poesia, salvo poche eccezioni, è stata soffocata dalla concezione moderna dell’uomo che si piega all’edonismo del consumo a discapito dell’autenticità della sua essenza.

 

‘Fiorirà l’aspidistra’ di George Orwell. Quando un nobile sogno diviene ossessione

Il sogno di una vita serena, con una pianta di aspidistra alla finestra, e la difficoltà di raggiungerlo, è questa in estrema sintesi la trama del romanzo del 1936 “Fiorirà l’aspidistra” (edizione italiana nel 1960) di George Orwell, che è una dura critica alla società capitalista: l’ossessione per i quattrini, visti come unico motore del mondo, che porta il protagonista Gordon all’abbrutimento totale.

Il romanzo di Orwell è attuale oggi come allora. Delinea i tratti senza tempo di ricchi e poveri; di chi i soldi li ha e di chi li desidera con tutto se stesso, tramutandoli in un’ossessione distruttiva. È un libro che richiede tempo per essere letto, digerito e compreso.

Gordon Comstock non è come tutti gli altri. Anche se mi rendo conto quanto nessuno, in fin dei conti, si senta mai “come gli altri”. Si crede sempre, specie in giovane età, d’essere diversi. Di avere quella luce, li, fissa negli occhi, a differenziarci da tutti gli altri. Ma la maggior parte, ahimè, crescendo, si arrenderà al fatto che in fondo si è un po’ tutti simili.

Gordon, invece, diverso lo è davvero.

Si dimena, scalcia, grida forte nella sua diversità, a tal punto che le persone che gli vogliono bene, come la sorella o la fidanzata, a un certo punto si arrendono nel ripetergli di quanto sia sicura e percorribile la “normalità”. Quella normalità che insegue il denaro ed è succube del buon posto di lavoro con tutte le sue catene ben fissate alla scrivania di quel minuscolo ufficio. Per Gordon la vita è un equazione semplice. Se hai i soldi hai tutto, e se non dovessi averli, scordati pure le attenzioni della gente o l’amore delle donne. Tutto e tutti cercheranno di mantenere le distanze da te evitandoti.

Per quanto Gordon sia fermamente convinto che il mondo funzioni così, non fa nulla né per opporvisi e né tantomeno per farne parte. La sua vita consiste in un perenne galleggiare tra lavori pagati due soldi e la sua ambizione letteraria di diventare scrittore.

In passato non sono poche le opportunità che ha avuto per potersi creare una carriera nel mondo pubblicitario come copywriter, ma non appena si è reso conto d’avere talento, e quindi di poter guadagnare sempre più, ha deciso di abbandonare il lavoro. Il terrore puro, dell’eventualità di poter essere come tutti gli altri, schiavo del Dio denaro quindi, lo ha condotto verso la fuga.

“Ebbe una visione di Londra, del mondo occidentale: vide milioni di schiavi sgobbare e strisciare ai piedi del trono di Quattrino.”

Julia, la sorella di Gordon, è esattamente l’esempio di quel che lui intende in queste due righe quando parla di “schiavo”. Dopotutto lei vive una vita nella miseria lavorando dalla mattina alla sera, sopravvivendo a malapena con il suo salario, e cercando in mille modi di aiutare il fratello, il quale è messo addirittura peggio di lei.

Gordon, in cuor suo, disprezza Julia, ma lo fa nonostante le voglia un gran bene e riconosca quanto lei abbia sempre cercato di aiutarlo. Non riesce però a nascondere la  totale mancanza di stima nei suoi confronti, per il semplice fatto che per tutta la durata della sua vita lei non abbia fatto altro che lavorare bramando denaro.

La sua perenne fuga dal denaro, è probabilmente dovuta dalla paura di non essere in grado di gestirlo, se mai ne avesse avuto. Questo suo incubo, ad un certo punto del romanzo, diviene realtà. Un importante rivista accetta una della sue poesie, inviandogli ben dieci sterline. Soldi che di colpo lo gettano nel panico, facendogli compiere una serie di sciocchezze. Nonostante il suo primo pensiero sia quello di dare parte di quel guadagno alla sorella Julia, come se fosse un risarcimento per tutto quel che lei ha fatto per lui durante quegli anni, alla fine si ubriaca dandosi alla pazza gioia, sperperando tutto.

È difficile scindere l’odio verso gli altri dalla povertà. Quando si ha poco o niente, l’unica cosa che rimane è detestare tutti quelli che hanno qualcosa, e Gordon ovviamente non può esimersi da questo.

“Londra! Chilometri e chilometri di case modeste, solitarie, tutte ad appartamentini e camere in affitto: non focolari, non comunità, ma semplicemente fasci di vite senza senso trascinate da una specie di caos sonnolento in lenta deriva verso la tomba! Vedeva passare gli uomini come cadaveri deambulanti”. Li detesta tutti Gordon, e dietro al suo sguardo scrutatore e senza ritegno, li considera dello stesso valore dell’aspidistra che tiene dietro la finestra in cucina.

Gordon ha una fidanzata, Rosemary, con la quale non riesce a fare l’amore perché convinto che per poter andare a letto con una ragazza ci vogliano i soldi. Dopotutto, offrirle una cena fuori aiuterebbe no? E portarla in una bella camera d’albergo, non sarebbe certamente d’aiuto? Per non parlare dei vestiti, indossare un capo di tutto rispetto, ci farebbe partire sicuramente avvantaggiati. Non potendo usufruire di tutto questo, il vittimismo di Gordon la fa da padrone ingurgitandolo e risucchiandolo in un vortice di negatività dal quale proverà ad uscire solamente nelle ultime pagine del romanzo.

In Fiorirà l’aspidistra, George Orwell ha messo a punto una precisa scelta ideologica. Un protagonista che diventa un borghese modello, con tanto di cravatta ed aspidistra, non significa altro che la vittoria del profitto, del denaro sull’idealismo, dell’apparenza sociale sull’essere. L’individuo è così soddisfatto, socialmente contento, ma sconfitto, a vantaggio di una visione utilitaristica e conformista dell’uomo.

Ed è proprio questa scelta politica che rende il romanzo realistico e visionario allo stesso tempo, nonché sempre attuale:

“Si chiese chi fosse la gente che abitava in quelle case. Dovevano essere, per esempio, piccoli impiegati, commessi di negozio, viaggiatori di commercio, galoppini di assicuratori, tranvieri. Sapevano di essere soltanto marionette che ballavano solo quando il denaro tirava i fili? C’era da scommettere la testa che non lo sapevano. E quand’anche lo avessero saputo, non gliene sarebbe importato nulla. Erano troppo occupati a nascere, a sposarsi, far figli, lavorare, morire”.

Fiorirà l’aspidistra è un pamphlet antiborghese con diversi riferimenti autobiografici, una sorta di resa dei conti tra l’autore, le proprie aspirazioni e passioni, i compromessi rifiutati e quelli accettati durante la sua carriera, portato avanti con una scrittura mirabile e con una dettagliata definizione dei personaggi che dicono molto sul nostro modo di agire in qualsiasi luogo e tempo, di come un nobile sogno possa trasformarsi una pericolosa ossessione.

Ma è il capitalismo a renderci davvero più egoisti e ambiziosi o il desiderio insito nell’essere umano a migliorarsi continuamente per sfuggire alla mortifera noia e all’immobilismo? Manca forse in Fiorirà l”aspidistra l’attenzione per la dimensione psicologica, o meglio esistenziale della natura umana, concentrandosi su quella politica e sociale.

 

‘Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo’ del geniale normalista Georgios Katsantonis

Georgios Katsantonis, nato a Patrasso nel 1987, è studioso di teatro e letteratura. Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Grecia) portando a termine un percorso completamente strutturato sulla drammaturgia europea, antica, moderna e contemporanea.

Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Il suo ultimo lavoro dal titolo Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo (Metauro, 2021) ha vinto la XXXVII del Premio Pier Paolo Pasolini come tesi di dottorato. Tra le motivazioni si parla di un’opera contrassegnata da un “notevole spessore culturale”, in grado di fare accostamenti non comuni, di collegare le opere di Pasolini al pensiero di Deleuze sul masochismo, alle riflessioni sul potere di Foucault e di Spinoza, alla concezione degli animali di Derrida.

L’analisi condotta studia i seguenti temi:  1) il  corpo  in  preda  al  desiderio  sadomasochistico (Orgia), 2) la  zooerastia  (Porcile),  3) il  corpo recluso  tra  scissione  e  visionarietà (Calderón).

Ma allo stesso tempo c’è anche un’ulteriore analisi: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della polis (Porcile), la  società intesa come un mondo concentrazionario, come il  Lager (Calderón). L’autore riesce a scorgere un “fil rouge” nelle opere pasoliniane Orgia, Porcile, Calderón.

Il saggio è un’eccellente analisi interdisciplinare e comparata in grado di cogliere nessi originali senza mai forzare troppo la mano.  Katsantonis è in grado di fare collegamenti mai rilevati con pertinenza, acutezza, rigore filologico, senso critico assolutamente fuori del comune. Originalissima l’idea di non trattare del potere istituzionale come hanno fatto Weber, Parsons, Machiavelli, Pareto.

Il potere nel saggio di Katsantonis è analizzato anche da un punto di vista antropologico e psicosessuale. È studiato, per dirla alla Foucault, sia il micropotere (le dinamiche psicologiche per esempio) che il macropotere; inoltre l’autore molto intelligentemente fa capire che per Pasolini  l’immaginario collettivo è già omologato totalmente.

Un’altra caratteristica innovativa del saggio è che altri hanno descritto il masochismo morale freudiano o il masochismo politico (come Bruno Moroncini) in Pasolini, ma Katsantonis come nessun altro riesce a scrivere del sadomaschismo pasoliniano come filosofia, come estetismo, infine come vera ragione di vita. Suo cugino Nico Naldini aveva scritto in  “Come non ci si difende dai ricordi”: “

Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”.

L’opera è densa, ma mai troppo concettosa; è un lavoro accademico, ma che trascende lo specialismo; inoltre non è mai oracolare ed è provvisto di chiarezza espositiva. Il libro è suddiviso in tre capitoli. Nel primo viene accostata Orgia di Pasolini alla filosofia del boudoir di Sade.

Il boudoir è un luogo situato tra il soggiorno e la camera da letto, per intenderci. In tale contesto viene analizzato il corpo come vittima e la corporeità come assoggettata al potere; vengono considerate la dicotomia dolore/piacere, il passaggio dal culto religioso al culto feticista, la donna seduttrice in Sade, la questione femminile nelle opere pasoliniane.

Viene messo in evidenza che per Sade la vera schiavitù è l’accettazione della morale. Per quanto riguarda la questione femminile, per Pasolini le donne sono “vittime e marionette” nelle mani del sistema, ma a livello autoriale probabilmente l’intellettuale trascendeva i suoi limiti come uomo, che amava solo la madre e vedeva nelle altre donne delle rivali troppo emancipate, che gli rubavano i ragazzi di vita: forse nell’intimità Pasolini, come ebbe a dire Dacia Maraini, era moralista con tutti tranne che con sé stesso.

Il capitalismo viene considerato da Pasolini come nuova religione. Viene citata anche  l’ideologia del consumismo, il cosiddetto edonismo neo-laico. Per Pasolini “il sadomaso è soppressione di ogni limite”, andare oltre i propri limiti, cercare di non porseli.

Anatomia del potere ha una grande forza dialettica ed è in grado di far riflettere qualsiasi lettore, anche quello meno creativo. Se forse c’è un discrimine tra sadomaso come patologia e trasgressivo gioco di ruolo nell’ambito della normalità è la conoscenza dei propri limiti e non superarli. Per Pasolini invece il sadomasochismo forse è una via per il martirio.

Non a caso il titolo della tesi di dottorato di Georgios Katsantonis è “Drammaturgia del corpo patetico” pasoliniano. Viene da chiedersi se è lecita la libertà di opprimere o di essere schiavi. Il sadomasochismo per Pasolini è l’unica valvola di sfogo, l’unico modo di avere piacere in questa società.

Katsantonis ottimamente evidenzia la distinzione tra godimento e piacere, sottolineando il sadomasochismo pasoliniano come impasto di Eros e Thanatos. Per Pasolini soffrire significa uscire da sé per poi ritrovarsi. L’autore dà per scontato naturalmente che sia Pasolini che Sade sono dei nichilisti attivi, cioè vogliono distruggere la morale comune e la borghesia perché poi qualcuno in futuro ricrei una nuova società. Il sadomasochismo pasoliniano, come evidenziato nel saggio, è espressione della volontà di potenza neo-capitalistica.

Pasolini vorrebbe andare contro, ma anche lui deve comunque adattarsi alla società. Se per Karl Kraus “le perversioni sono metafore dell’amore” nelle opere di Pasolini il sadomasochismo è al contempo metafora e metonimia del fascismo.

Le pagine di questo libro generano molti dubbi e questo è naturalmente un merito del saggista. Forse uno dei limiti intrinseci di Sade e Pasolini è stato quello di aver dato sfogo a tutte le loro fantasie, di aver detto l’indicibile, di aver rappresentato l’impresentabile, ma a forza di eccessi si sono discostati troppo dalla realtà umana, in cui invece i sadomasochisti comuni si pongono delle restrizioni per disgusto, per morale, per dolore.

In una delle sue lettere alla moglie, Sade scriveva: «Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino».

In Pasolini e in Sade il sadomaso è anaffettivo, non è mai in funzione dell’amare e dell’essere amati, del soddisfare o dell’essere soddisfatti.  Inoltre in Pasolini e in Sade non viene mai pronunciato alcun “I can’t” dagli schiavi, come di fatto in pratica avviene. Viene da chiedersi se si può davvero liberarsi della morale come in Pasolini e in Sade oppure se restano sempre dei residui atavici, magari sotto forma di sensi di colpa.

Tuttavia bisogna ricordare anche che il  sadomasochismo pasoliniano scaturisce dalle limitazioni delle rappresentazioni del sesso all’epoca.  Come scriveva Pasolini in “Le belle bandiere“: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media, per esempio”.

Nel secondo capitolo viene studiato Porcile. Vengono messi in relazione il nazifascismo e il nuovo capitalismo. Non è un caso che i vecchi ex nazisti nel dopoguerra in America vennero messi ai vertici dei servizi segreti.

L’autore descrive il carattere di alterità del protagonista Julian. Spinoza discute con Julian della sua Etica, ma alla fine il filosofo abiura la sua opera perché ha prodotto come umanista il padre del protagonista e come tecnocrate il suo socio. Spinoza ammette che la Ragione è sempre ragione del più forte.

L’autore Georgios Katsantonis

Katsantonis sottolinea che per Pasolini la società capitalistica è un macello per uomini e animali. La domanda che sorge spontanea è quale sia il porcile vero? Quello di Julian o quello della società là fuori? Vengono citati anche Derrida, Deleuzee, Guatari, Artaud e il suo corpo senza organi. Quest’ultimo è un concetto filosofico apparso per la prima volta in Logica del senso di Deleuze, opera del 1969, che ha la sua prima espressione in una performance radiofonica di Antonin Artaud, intitolata “Per farla finita con il giudizio di Dio”.

Il corpo senza organi è il rimosso del corpo, una sorta di ambiente dinamico e informale, un campo di forze in cui si contrappongono tensioni diverse che determinano il desiderio. Il corpo senza organi è, in altre parole, un corpo senza organizzazione e di conseguenza assolutamente libero e fluttuante, eversivo, anti-istituzionale.

Nel terzo capitolo vengono paragonati il Calderón di Pasolini, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Un sogno di Strindberg. Si analizzano la prima Rosaria e l’incesto, la Rosaria prostituta, quella sottoproletaria, la medioborghese, infine quella prigioniera di un lager. La protagonista è succube del Potere: “obbedisce senza essere obbediente” in un ribellismo confuso ed è al contempo un “vaso semivuoto da riempire con il Bene borghese”.

Compare anche Enrique, studente sessantottino, che chiede asilo a casa dei borghesi. L’autore rimarca ancora una volta che tra il corpo e il potere c’è di mezzo un immaginario omologato. Non solo ma viene descritto “il concentrazionamento del mondo” e Katsantonis dimostra tutta la sua cultura citando l’istituzione totale di Goffman, autore conosciuto dai sociologi in Italia più per il suo rituale dell’interazione e per la perdita di faccia.

Bisogna ricordare che nel 1960 anche Bruno Bettellheim nel Prezzo della vita aveva paragonato la società capitalistica ad un sistema totalitario e nel 1964 Paul Goodman in La gioventù assurda aveva paragonato la civiltà dei suoi tempi a una corsa dei topi in una stanza chiusa.

Ma perché Pasolini vedeva nel neo-capitalismo un inferno terreno? Una coscienza politica non era possibile perché la televisione aveva imposto l’ideologia del consumo. Ciò che preoccupava Pasolini non era il centralismo dello stato né le istituzioni repressive ma il neolaicismo imperante e il nuovo edonismo propinato dai mass media.

Lo scrittore friulano aveva già capito che la televisione era un agente di socializzazione, capace di influenzare con i suoi messaggi le idee delle persone e dunque era anche la causa primaria dell’omologazione, grazie a cui il potere produceva una standardizzazione dell’immaginario. I giovani di borgata avevano iniziato a vestirsi, a comportarsi e a pensare come “i figli di papà”: non era più possibile distinguere un proletario da un borghese oppure un comunista da un fascista.

Tutto questo era frutto della “mutazione antropologica”, termine preso a prestito dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata prima dalla variazione e quindi dalla fissazione di alcuni caratteri. Nel caso della “mutazione antropologica” la variazione delle mode e degli stili di vita era decisa nei consigli di amministrazione delle reti televisive e poi fissata con i messaggi subliminali della pubblicità.

Pasolini sapeva perfettamente che i codici imposti dalla televisione diventavano subito comportamenti collettivi. La sottocultura di massa diventava interclassista. Tutti aspiravano agli stessi status symbol. Non si trattava più di appagare semplicemente dei desideri, il nuovo uomo di massa doveva soddisfare dei falsi bisogni. I disvalori del consumismo nel giro di pochi anni impoveriranno l’Italia.

Già allora stavano scomparendo le tradizioni di un tempo e non esistevano più le classi sociali. Tutti ormai erano diventati piccolo-borghesi.  Infine è creativo davvero l’accostamento in Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg nel ritenere la nascita una colpa.

Dopo la lettura di questo eccellente e acuto saggio ci si domanda se Pasolini, il quale considerava il potere come dominatore del corpo e della sessualità, se avesse ragione Marcuse con la sua teoria della desublimazione repressiva: il potere che concede libertà sessuale per ridurre le probabilità di critica e rivoluzione.

Anatomia del potere è una lettura doverosa per pasoliniani e profani, per comprendere meglio anche il nostro tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Franco Fortini e gli anticorpi per trasformare lo schifo e la menzogna della cultura di massa in altro

“Se si crede in una frase di Brecht che dice: ”La tentazione del bene è irresistibile”, allora, si crede, anche, che si possano formare degli anticorpi capaci di trasformare lo schifo, la menzogna, le feci coltivate dalla cultura di massa in altro. E’ possibile, perciò, è doveroso mutare”.  Sono le parole di Franco Fortini, poeta, saggista, critico letterario, traduttore,  in un filmato d’epoca del 1990, in un’aula occupata della Facoltà di Lettere e Filosofia di Urbino, gremita di studenti. E’ un invito al cambiamento, a una metamorfosi della coscienza collettiva contro la mercificazione di una società capitalistica.

Franco Fortini, nato a Firenze nel 1917, è stato una delle più grandi voci del Novecento. Intellettuale spigoloso, marxista fedele, con la testa rivolta ai temi del Capitalismo, Rivoluzione, Comunismo, Alienazione, Falsa libertà. Tra le sue opere più importanti troviamo Foglio di via, Composita solvantur, Asia Maggiore e Verifica dei poteri. Ha lavorato alla Olivetti, agli inizi degli anni ’50, ed è stato collaboratore di riviste come “Comunità”, “Il menabò”, “Quaderni rossi” e “Quaderni piacentini”, oltre ad aver scritto sui più importanti quotidiani nazionali. Dopo aver insegnato in alcuni istituti tecnici di Milano, nel 1971, è diventato titolare della cattedra di Storia della critica alla Facoltà di Lettere di Siena.

Fortini diede voce a diversi scrittori e poeti, traducendo Brecht, Flaubert, Proust, Goethe, Einstein. Ad aiutarlo, la moglie, Ruth Leiser. “Volevo a tutti i costi che Ruth ci fosse, nel racconto. Non in quanto figura “accessoria” all’ingombrante marito, né come “aiutante” nei lavori di traduzione dal tedesco, né tantomeno come moglie devota e riservata. Ma come “compagna” di vita, nel senso più elevato che si possa dare a questo termine e che nel loro caso comprende egualmente amore, passione politica, cultura, scrittura, sguardo sul mondo, sofferenza e indignazione, resistenza, tenerezza e rispetto delle reciproche identità e divergenze”.

Fortini aveva un’ironia che poco ha a che fare con lo sberleffo e con il carnevale della vita e si accosta, invece, alla lotta e alla Storia. È l’ironia come capacità di avvertimento del paradosso, e del paradosso come opportunità dialettica. Questa sensibilità paradossale è chiaramente, prima di tutto, eredità del marxismo, ma non solo; in essa convivono, e si intrecciano, anche una propensione per il romantico, tracce profonde della formazione ebraica e soprattutto un amore, tutto cristiano, per lo
scandalo, la pietra d’inciampo che erode le certezze più salde e apre il cammino al vero sapere: «il cristianesimo umilia i filosofi» scrisse Fortini ne Gli ultimi tempi.
Il paradosso è in Fortini uno strumento di conoscenza e insieme un modo di vivere della Storia e degli uomini, uno straniamento del presente attraverso un pensiero e una vita che sono ancora alieni ai nostri, ma che sono figura di qualcos’altro contenuto in noi e nel nostro passato eppure ancora non pienamente intellegibile. L’ironia è come una maschera dialettica che contesta ogni certezza, mostrandone in controluce il contrario possibile e fecondo, in un costante implacabile conflitto che spinge a non risparmiare nulla, neanche sé stessi:«derisa impresa, ironiache resiste / contesa che dura».

Volli eguagliare entro di me le pietre, essere asciutto scintillìo di sale, pensiero e forma limpida di fiore senza peso né ombra sulla terra senza perire più come fa l’erba.

Thomas Pynchon e la logica omologante del paesaggio postmoderno dominato dal mercato

Nei loro romanzi Thomas Pynchon e Don DeLillo descrivono soprattutto il paesaggio storico-culturale che si è profilato all’orizzonte a partire dal secondo dopoguerra. Una realtà, questa, per la quale gli studiosi adottano il termine “postmoderno”, e che Fredric Jameson legge come un prodotto della logica culturale del capitalismo avanzato. Il critico statunitense, infatti, vede il paesaggio storico, economico e culturale della postmodernità completamente dominato dal mercato.

Nei romanzi di Pynchon e DeLillo, lo spazio viene eletto a osservatorio privilegiato della postmodernità. Al contrario della spoglia (in senso culturale) wilderness che incontrarono i Pilgrim Fathers, questo spazio postmoderno si configura come già del tutto ‘testualizzato’, una foresta di segni talmente fitta da impedire, paradossalmente, ogni autentica comunicazione. Le opere di entrambi gli autori descrivono la nuova entropia prodotta dalla sovrabbondanza di immagini, codici ed istituzioni burocratiche che ricoprono lo spazio postmoderno trasformandolo in una linguistic wilderness.

Un paesaggio dominato dal mercato, però, mal si concilia con la concezione mitico-simbolica dello spazio americano come luogo di salvezza e di autoaffermazione. Un’idea che, come ben rileva Alan Bilton, non ha mai abbandonato gli scrittori americani: «The wilderness has always functioned in American literature as a trope of possibility or salvation, liberation from a corrupt and mercantile civilisation; even with nature tamed and the wilderness crisscrossed by freeways and shoppingmalls, this motif still doesn’t finished with».

Forse è questo motivo a spingerli sovente verso la creazione di controspazi finzionali capaci di contrastare, almeno sul piano simbolico, la logica omologante del paesaggio postmoderno. Questo perché, «with the closing of the frontier, and the effective absorption of the wilderness space by civilization, American writers were forced to restructure imaginatively their country». In mancanza ormai di uno spazio geografico e psichico che non sia già stato cooptato dal mercato globale, uno scrittore è costretto a ritagliarsi «some kind of fictive (rather than literal) space uncontaminated by the dominant logic of endless replication», quasi un «redemptive space» in cui rifugiarsi lontano dal Sistema, come Pynchon battezza il complesso militare-industriale in Gravity’s Rainbow.

Egli stesso reagisce attraverso la fabulazione e l’invenzione romanzesca, costruendo contro-spazi e contro narrazioni dove trionfano il sogno, il favolistico, il miracoloso, l’improbabile, e dove i parametri scientifici basati sul determinismo e la logica causale vengono contraddetti. Questi luoghi rappresentano non già una consolatoria fuga dalla realtà né, come talvolta sostengono i detrattori della narrativa postmoderna, uno sterile ripiegamento nichilista, quanto piuttosto un antidoto creativo contro la piattezza del paesaggio culturale partorito dal tardo capitalismo.

A costituire il principale oggetto dell’analisi critica non sono tanto i tratti costitutivi dello spazio postmoderno quanto le strategie narrative attuate per descriverlo. Né va dimenticato che nel romanzo postmoderno lo spazio del paesaggio reale e quello della finzione rivelano un inedito rapporto di interdipendenza, rispecchiandosi l’uno nell’altro. Gli spazi, cioè, vengono costruiti sul piano retorico da una scrittura che ne riflette i contorni, ovvero ne mima le aporie, proponendosi come il loro corrispettivo retorico-narrativo. Tuttavia, è sempre attraverso la rappresentazione dello spazio che Pynchon e DeLillo pongono in essere un lucido progetto di critica alla storia nazionale e alla società americana contemporanea.

Nelle sue opere Thomas Pynchon rappresenta la postmodernità soprattutto come un eccesso di segni, scorgendone addirittura le prime tracce nel periodo appena precedente la Dichiarazione d’Indipendenza americana. Una tesi, questa, che l’autore sembra voler dimostrare nel penultimo romanzo, Mason & Dixon (1997), dove si narra delle spedizioni condotte da due scienziati inglesi per conto della Corona. La «wilderness of uncertainty» che gli astronomi e cartografi Mason e Dixon, nelle scomode vesti di «agents of Reason», affrontano spingendosi verso Ovest nell’America degli anni Sessanta del Settecento, armati di bussola e di fede nella scienza diviene, attraverso la sua rilettura, un territorio al tempo stesso geografico e concettuale. Nel periodo coloniale in cui è ambientata l’opera, tale wilderness si configura ancora come uno spazio culturalmente vuoto, «a region without a map», di cui la civiltà si appropria riempiendolo di segni culturali, sovrascrivendoli a quelli già presenti sul paesaggio naturale, allo scopo di esercitare un controllo tanto fisico quanto simbolico sul territorio.

Ma se dapprima il luogo incarna una moderna utopia, uno spazio geografico e psichico nel quale cominciare una nuova vita, il narratore ci rende immediatamente avvertiti di come già siano attive le forze storiche che convertiranno il cronotopo della strada aperta in quello borgesiano del labirinto. Infatti, come ci ricorda Tony Tanner, è proprio durante gli anni precedenti la Rivoluzione americana che «the fences were going up, and the straight road to the west gradually obliterating the ‘chances of diversity’ has begun». Ecco perché, a suo dire, Mason & Dixon rappresenta «a celebration of America as a last realm of the Subjunctive, and an elegiac lament for the accelerating erosion of that subjunctivity». Insomma, già nella linea divisoria che gli astronomi Mason e Dixon tracciano tra il Maryland e la Pennsylvania nel periodo che precede di poco la Dichiarazione d’Indipendenza, Pynchon vede i prodromi di ciò che sarebbe diventato due secoli più tardi il paesaggio americano: uno spazio apparentemente aperto e polifonico, ma in realtà governato da un mercato che rappresenta il discorso dominante.

 

Fonte: http://www.fedoa.unina.it/1753/1/Paravizzini_Filologia_Moderna.pdf

Attila József: quell’anelito disperato verso la felicità

Attila József nasce l’11 aprile del 1905 nella borgata operaia di Ferencváros a Budapest. Il padre, operaio in un saponificio, abbandona la famiglia quando Attila ha 3 anni: i familiari credono si sia allontanato per cercare fortuna in America, pur essendo probabilmente ritornato in Transilvania. La madre, che si guadagna da vivere facendo pulizie e lavando panni, è costretta a mantenere i tre figli in condizioni di estrema indigenza. Attila e la sorella minore, Etelka, vengono affidati a due genitori adottivi, contadini nel villaggio di Öcsöd. A questo periodo Attila farà risalire, molti anni dopo, il suo interesse per la letteratura, interpretata come un mezzo per demistificare false verità etero-imposte e una via privilegiata per riaffermare la propria individualità. I genitori adottivi sono convinti che il nome Attila non esista e decidono di appellare il piccolo col nome di Pista, diminutivo di István; sul libro della terza classe, il piccolo Attila trova però narrate le gesta del re unno e se ne appassiona:

“La scoperta delle fiabe sul re Attila, credo, ebbe una parte decisiva sulle mie mire da allora in poi; in ultima istanza fu forse quest’esperienza vissuta a condurmi alla letteratura, a trasformarmi in pensatore, cioè in un uomo che ascolta l’opinione degli altri, ma la sottopone in sé a una revisione; in un uomo che risponde al nome di Pista finché non viene provato quello che pensa lui: che si chiama Attila”. (Curriculum vitae).

Nel 1912 fratello e sorella ritornano alla vita di povertà e privazioni di Budapest, per un periodo vengono accolti in orfanotrofio. A 43 anni la madre muore ed Attila si trasferisce presso la sorella maggiore, Jolan, la quale aveva sposato un ricco avvocato, Ödön Makai, che diventa il tutore del ragazzo. La figura della madre sarà una costante della produzione józsefiana e accompagnerà l’evoluzione artistica del poeta. In “Mamma”, componimento che si guadagnò l’entusiastica lode di Benedetto Croce, Attila ricorda le sue bizze puerili quando la madre saliva in soffitta col cesto in grembo per stendere i panni. Nella memoria la figura materna subisce una metamorfosi, una sorta di catasterismo. La poesia descrive l’assunzione in cielo non di eroi o regine, ma di un’umile lavandaia:

“I panni lucenti frusciavano
in alto volavano vivi.
Non piangerei, ma è tardi ormai.
Ora la vedo bene, alta e grande;
leva i capelli grigi nell’aria
scioglie il candeggio nell’acqua del cielo”

Attila József: tra i ricordi d’infanzia e la protesta sociale

La trasfigurazione fa della madre quasi una mesta Madonna; d’altra parte, questa rimane, quasi come un dannato nell’Inferno dantesco, fissata in eterno nell’atto compiuto durante il suo faticoso lavoro. Improntata alla protesta sociale è, invece, “Mia madre”. Anche qui Attila si abbandona ai ricordi d’infanzia: la madre che regge una tazza e sorride, lei che riporta a casa, dalle “Eccellenze” dove lavorava, un pentolino con un po’ di minestra per i figli. L’affamato poeta pensava allora con rabbia “ai ricchi che ne possono mangiare a pentole piene“. Lancia il suo grido:

“La vedo, ferma col ferro da stiro.
Il suo fisico fragile l’ha spezzato
il Capitale, divenne sempre più sottile –
pensateci proletari!”

Nel 1920 Attila si trasferisce a Makó e completa con eccellenti risultati il liceo cittadino. Nel 1924 si iscrive all’Università di Szeged e studia letteratura ungherese e filosofia. Dopo una dura reprimenda da parte del professore di linguistica ungherese, Horger, il quale minaccia di negare il titolo accademico ad Attila per i toni usati nella poesia “Con cuore puro“, questi decide di lasciare l’Università e si trasferisce a Vienna. Nella poesia “Con cuore puro” nel ribellismo anarchico da angry young man leggiamo le tensioni dell’Ungheria postbellica (la fine della monarchia asburgica, l’esperimento sovietico di Béla Kun e lo shock del trattato di Trianon). Una giovane generazione cresciuta spesso senza famiglia e nella prospettiva dell’incertezza in una società sull’orlo della disgregazione totale, mentre rivendica, quasi un vanto, di esserne priva, riafferma implicitamente la necessità degli affetti e del legame di appartenenza:

“Non ho padre, né madre
non ho patria, né Dio,
non ho culla o sepolcro,
non ho baci, né amante.
Da tre giorni non mangio,
non tocco cibo alcuno:
vent’anni la mia forza,
i vent’anni li vendo”.

Orgogliosamente, ricorderà, sardonico, l’episodio che aveva messo fine al suo proposito di diventare un insegnante, nella poesia “Per il mio compleanno“, scritta per il suo trentaduesimo genetliaco, l’ultimo, come regalo a sé stesso:

“Io non una scolaresca
ma il mio popolo intero
formerò”

Già dalla prima raccolta pubblicata a 17 anni, “Il mendicante di bellezza”, la poesia di Attila József rivela, pur nella sua cangiante poikilia tematica, i caratteri che saranno propri della produzione successiva. Il realismo, che riesce ad inglobare anche tendenze letterarie tra di loro contrastanti, costruito sull’attenzione verso i dettagli e gli aspetti minuti dell’esistenza, si apre all’universale con la connessione tra il vissuto esistenziale individuale e quello collettivo attraverso le figure della metafora, della similitudine e dell’allegoria. Tutta la poesia di Attila poggia su un Grund di disperazione e di indomata carica negativa, la cui premessa indiscutibile è il rifiuto di accomodanti illusioni. È l’esistenza della periferia, non scialbo topos letterario ma sofferente vissuto personale, a costituire il serbatoio d’immagini del mondo józsefiano. Così il dolore dell’esistenza viene rappresentato come un cane randagio:

“Imbottite, sospiranti chiese
abitavano nei suoi occhi,
e un tozzo di pane cacciava […] Allora vidi in lui il mondo logorato
Andiamo a letto perché è necessario, […] e dormiamo, perché ci addormenta infine la miseria…
Ma prima di addormentarci […] ad un tratto esce fuori
dal suo nascondiglio
e da noi corre
quell’affamato
logoro cane, stanco e inzuppato” (Il cane)

O assume le fattezze di un grigio postino silenzioso:

“Timido timido sguscia per le strade,
rasenta i muri delle case
sparisce in qualche porta.
Bussano. Ecco una lettera per te” (Il dolore)

Il rapporto con il Partito Comunista clandestino ungherese e il marxismo

Nel 1926 Attila si trasferisce a Parigi e si iscrive alla Sorbona, qui entra in contatto con gli ambienti dell’emigrazione socialista-comunista ungherese. Traduce Villon e studia Marx. Tornato in Ungheria si avvicina al Partito Comunista clandestino ungherese. Tiene conferenze e si impegna nella causa con la sua attività poetica: nel partito trova la realizzazione del suo desiderio di appartenenza e condivisione. La luna di miele dura, però, poco e i vertici in esilio a Mosca gli affibbiano l’etichetta di “socialfascista“. La decisione di ostracizzare e allontanare dal partito il poeta è motivata dal rifiuto di assumere posizioni dogmatiche e dal suo tentativo di coniugare la dottrina marxista con la psicoanalisi di Freud in un inedito tentativo di elaborare una sorta di freudomarxismo, come nel saggio “Hegel, Marx e Freud” del 1934: Marx deve essere corretto con Freud poiché la vera liberazione potrà avvenire solo quando, insieme a quelle che dominano la società capitalistica, saranno smascherate le forze oscure della nostra coscienza.

La visione poetica dell’autore con la tenera compassione per gli ultimi e i senza-niente trova nel Marxismo un consonante quadro di riferimento, ma la poesia sovrasta e domina l’ideologia, che rimane entro i limiti di una coerente Weltanschauung finalizzata all’interpretazione della brutalità dell’esistenza: potremmo dire che non è József a diventare marxista, ma Marx ad essere józsefizzato. Pubblica le raccolte “Abbatti il capitale!” (1931) e “Notte di periferia” (1933). Sono poesie militanti, che incitano alla ribellione, dimostrando l’insostenibilità della misera condizione proletaria. La poesia “Boscaiolo” descrive la faticosa attività del taglialegna e si chiude con l’esortazione:

“Abbatti il capitale – ehi – non piagnucolare:
a ogni piccola scheggia ti vorrai lamentare?
Se tu colpisci come fa la sorte,
ben sentirai lo strillo del deserto
feudale – ma sorride l’ascia larga”
Allo stesso modo, nella poesia “Socialisti” proclama:
“Abbasso il capitalismo! Potere
e carne per i lavoratori!…
Attraverso la sporcizia del capitale passiamo a guado
e la nostra cara arma ci batte sui fianchi […] Poesia, va, combattente della classe, con il popolo
in alto salirai!”
La “Ballata del profitto” è un’impietosa analisi costruita sull’elencazione di varie attività ordinate con meticolosità in un climax dalle più umili alle più elevate. Nella società moderna lo sforzo di ogni uomo, qualunque sia il suo lavoro, è finalizzato solo all’arricchimento del capitalista:
“Alla fiamma del gas impasti il pane?
Cuoci mattoni rossi e forati?
O la zappa ti rompe le mani?
Ti vendi finché vola la gonnella? […] il profitto è dei capitalisti
Tu componi struggenti poesie? […] che tu vagabondi o che ti diano lavoro –
il profitto è dei capitalisti”.

Gli amori tormentati di Attila József

Gli amori di Attila non hanno un lieto fine: Márta Vágó si allontana per l’opposizione della famiglia di lei, la relazione con Judit Szántó, conosciuta nel periodo della militanza comunista, finisce per l’intransigenza settaria della donna. Impossibile, poi, il sentimento verso Edit Gyömrői, la psicanalista che ha in cura Attila nel 1935: del periodo ci rimane come testimonianza l’esperimento di écriture automatique di stampo surrealista del “Diario psicanalitico in due sedute“. Nel 1937 Flóra Kozmutza sembra ricambiare il poeta, ma le sue condizioni psichiche sono ormai deteriorate. Gran parte della produzione józsefiana è occupata dalle poesie d’amore. Nella poesia “Già m’incatenano due miliardi di uomini” la confessione alla donna amata si intreccia con la tematica sociale:

“Mi sei necessaria come il lavoro, la libertà,
il pane e le buone parole alle moltitudini operose
che fremono ostinatamente e impotenti
perché dalla loro pena il nostro futuro non affiora …
Mi sei necessaria Flóra come ai borghi
la luce elettrica, le case di pietra, scuole, fonti;
come ai bimbi il gioco, la tutela
ai lavoratori la coscienza umana”.

Capolavoro di Attila József è considerato il componimento “Ode” del 1933, tra le più belle poesie d’amore della letteratura ungherese e probabilmente della letteratura universale. Siamo a Lillafüred, paesino di montagna, ed Attila, seduto su un dirupo, contempla il paesaggio. La fantasia ricrea poeticamente dalla visione l’immagine della donna amata, simile ad una ninfa boschiva e fluviale:

“Guardo la criniera del monte.
La luce che balena in ogni foglia
viene dalla tua fronte […] La tua gonna vedo
sollevarsi al vento,
sotto le fronde fragili rovesciarsi i tuoi capelli
sussultare il seno morbido;
e, come il Szinva rapido
porta via le sue onde,
sprizza – ecco, lo rivedo – sulle pietre rotonde
e bianche, sui tuoi denti,
il riso di fata”.

Nel corso della poesia il microcosmo rappresentato dalla donna si espande sino ad identificarsi col macrocosmo: l’universo parallelo dell’immaginazione cresce e sopraffà inglobandolo l’universo della realtà. Il poeta si introduce in questo micro/macrocosmo intraprendendo uno spiazzante itinerario nelle regioni del corpo dell’amata. Il dettaglio anatomico viene trasmutato in leggiadra materia poetica:

“I circoli del tuo sangue, cespugli di rosa,
fremono senza posa; […] Mille radicine i suoli ubertosi
del tuo stomaco trapungono
di filo sottile tessendo ricami […] I bei cespugli dei polmoni frondosi
stormiscono a gloria […] Colline ondulate si levano,
costellazioni tremolano in te
laghi si muovono, fabbriche lavorano”.

L’amore della poesia è l’esperienza mistica di sgomento onirico di fronte ad una forza virginale ed eterna. Vengono in mente l’Aspasia leopardiana:

“la figlia della sua mente, l’amorosa idea,
che gran parte d’Olimpo in sé racchiude”.

E le parole di Hans Castorp a Madame Chauchat ne La Montagna incantata” di Thomas Mann: “Devi sapere che per me è come un sogno – le dice – stare seduto qui insieme a te… comme un rêve singulièrement profond, car il faut dormir très profondément pour rêver comme cela”.

Il 3 dicembre 1937 Attila si suicida gettandosi sotto un treno nella stazione di Balatonszárszó. L’ultima fase della sua produzione è segnata da accenti che coniugano la coeva riflessione sull’assurdità della vita dell’esistenzialismo europeo con un afflato religioso che scaturisce da un senso di colpa kafkiano: “Senza speranza“, come recita il titolo della sua poesia:

“E l’uomo infine arriva ad una piana
sabbiosa, triste ed umida
[…]
Il mio cuore si siede
sul ramoscello del nulla, il suo corpo
minuscolo rabbrividisce muto”.

 

Gianpaolo Caputo

L’alienazione dal sacro e il continuo manifestarsi delle ierofanie tradizionali e moderne, tra Pasolini e Jung

Tramontate le ipotesi di un futuro senza religione, il sacro o l’archetipo tendono ad assumere un’apparenza tecnica, accettabile senza difficoltà anche dalla forma mentis illuministica; così, pure attraverso manifestazioni degenerate, quali teorie ufologiche, psicologie sacralizzate o feticci tecnologici, esse continuano a parlarci di una ineliminabile dimensione altra. L’occhio d’improvviso gli splende, il tono della voce si accalora, il discorso conosce l’inconoscibile tenerezza, scrisse Pier Paolo Pasolini («Tempo», 5 aprile 1969) ma non per descrivere l’incontro tra due amanti o il passaggio ad uno stato estatico, quanto l’ultima ierofania possibile: il discorso sul motore. L’ultima emozione in grado di scuotere i giovani spentisi nella società del benessere occidentale: parole di amore e di adorazione innanzi ad un cruscotto, quali estremi rantoli dell’agonia di Dio. Tale agonia, secondo Pasolini, non sarebbe durata ancora a lungo, salde allora le previsioni o piuttosto la “fede” in un futuro assolutamente non religioso infine mai giunto, smentito clamorosamente dal fuoco dei fondamentalismi, come dal rinnovato manifestarsi della religione quale realtà culturale necessaria alla comprensione dell’umano e del sociale fin dentro la modernità più tarda.

Pratiche e credenze religiose risultano infatti tutt’ora ben lungi dal dissolversi, anche nel modo secolarizzato, tra la resistenza, più o meno strenua, delle istituzioni religiose tradizionali, la pretesa antimoderna dei modernissimi fondamentalismi e le tendenze fluide della religiosità New Age; queste ultime spesso assai armoniche agli irresistibili processi disgregativi all’opera in ogni campo. Credenze e riti religiosi invece che scomparire, anche quando la globalizzazione ha mandato in frantumi i rispettivi contesti e le rispettive istituzioni di appartenenza tradizionale, sono caduti preda della forza centrifuga del tempo; offrendosi quali frammenti-merce ai moderni individui consumatori, anch’essi più o meno frantumati. I quali, nel contemporaneo super market del religioso, hanno conseguito la possibilità di acquistare, provare ed eventualmente gettare via in un secondo momento, credenze, pratiche, miti e riti, componendoli liberamente tra loro per ottenere una religiosità personale, unica e privata, scollegata dall’originale provenienza dei frammenti e naturalmente in qualunque momento revocabile, modificabile ad libitum. I templi moderni non si innalzano verso il cielo ad onore di Dio, quanto ad onore del proprio mutevole, umano capriccio consumista.

Così, contrariamente alle previsioni di Pasolini, anche la ierofania del motore ha continuato a manifestarsi, raggiungendo il massimo grado nel feticismo del telefono cellulare: medium del legame sociale e di legami sociali effimeri, nemico di limiti e giuste misure, nella sua rincorsa infinita verso sempre nuovi modelli, fondatore di una temporalità ultima dove tutto è subito e niente può valere, costare o distare più dell’attimo di un clic. Se non possono più Apollo e Dioniso, surrogano pertanto oggi gli smartphone, aprendo ecstasy solari apatiche verso la flebile luminosità dei touchscreen o scatenamenti tellurici, ritmati dalla continua ripetizione di toni e vibrazioni della messaggistica.

In maggior grado che il motore, proprio il telefono cellulare ha infatti portato alle conseguenze estreme quanto già aveva osservato Pasolini. Esso, dopo essersi lasciato adorare, da strumento è giunto a confondersi con la soggettività che ha creduto di utilizzarlo: insieme all’adorazione per questo oggetto privilegiato c’è una tendenza alla fusione e all’identificazione con esso: io sono il mio motore [telefono cellulare]… oppure: io manco di motore [telefono cellulare], quindi sono privo di comunicazione col divino. Non sorprende affatto la cogenza con la quale il moderno capitalismo riesce a suscitare il desiderio di acquisto verso sempre nuovi prodotti, spesso desiderata tecnologici, scatenanti la ierofania del momento, alla quale è sempre più difficile rinunciare; pena la perdita di comunicazione con il divino nonché della propria personalità. Va in oltre da sé, come il pericolo di tali perdite non possa essere scongiurato definitivamente, stante la folle corsa alla novità inesausta dei prodotti e delle credenze, invertendo la tendenza di una storia delle religioni che aveva fin qui manifestato la novità quale elemento di eccezione, lontana dal rappresentare la regola.
Esiste però anche un’altra ierofania moderna o piuttosto una teofania, le cui forme hanno mantenuto una maggiore costanza rispetto a quelle dei desiderata tecnologici; apparentemente meno distante dalle manifestazioni del sacro tradizionali: l’ossessione per gli ufo. Carl Gustav Jung ha dedicato uno dei suoi ultimi studi al fenomeno: Un Mito Moderno, le cose che si vedono in cielo (1958). Attraverso tale opera, sospendendo il giudizio sulla realtà fisica degli ufo, certo concretissimi per coloro i quali li osservano, Jung ha analizzato i dischi volanti dal punto di vista psichico; rendendo pertanto poco significante la distinzione tra l’eventualità di fenomeni psichici capaci di originare una sensazione visiva, confermata da un’eco radar e la comparsa reale di oggetti fisici, incidentalmente utili all’inconscio, al fine di manifestare quanto non può più assumere una forma mitologica tradizionale.

Sempre che tali ipotetiche corrispondenze tra fenomeni fisici e psichici, piuttosto che in termini causali, non possano spiegarsi meglio tramite una constatazione di sincronicità; al modo di quella che secondo Jung, avrebbe affiancato la realtà dolorosa di un’umanità scissa al sincronico rappresentarsi delle due polarità sessuali in ottica di antitesi: con la raffigurazione del principio maschile nella stella rossa dell’Unione Sovietica e del principio femminile nella stella bianca degli Stati Uniti, applicando la lettura simbolica dei colori propria dell’alchimia occidentale.
La forma circolare degli ufo rappresenterebbe così soprattutto, nella geometria archetipale comune (ad esempio la mandala), l’unione degli opposti e l’integrità dell’anima; bisogno inconscio di un individuo moderno, interiormente minacciato da rischi di scissione dell’io e oppresso al di fuori dalla spaccatura dell’umanità tra i blocchi degli Usa e dell’Urss, in bilico sul precipizio spaventoso dell’apocalisse nucleare. Nota di fatti Jung, come spesso gli ufo preferiscano sfidare le leggi fisiche del volo attraverso i cieli degli Stati Uniti ed effettuare le proprie evoluzioni nelle prossimità di aeroporti o installazioni nucleari; mentre diverse teorie ufologiche siano solite spiegare tale propensione, proiettando sugli abitanti di altri mondi l’umana preoccupazione per lo sviluppo dell’arma atomica e la nostra capacità di esplorare lo spazio cosmico. Quanto ai rischi di scissione dell’io, ad essi non è estraneo il modello educativo contemporaneo, di tipo tecnico, estremamente specialistico ed esclusivamente materialista che, rivolto allo sviluppo di una singola facoltà dell’essere umano, esclude l’inconscio e contribuisce alla disgregazione anche della società. No, non sorprende che l’ossessione per gli ufo si sia manifestata prima negli Stati Uniti e di lì progressivamente, assieme allo stile di vita americano, si sia diffusa nel resto del mondo.

Innanzi a questo uomo ultimo, razionale, illuminista, ormai lontano dalle concezioni religiose dei suoi antenati, avvinto dalla fede nel mondo terreno e nella propria potenza, convinto di poter fare a meno di inconscio, dei e spiriti, occorre che l’archetipo assuma in contrasto con i suoi aspetti precedenti una forma concreta, anzi addirittura tecnica, per evitare l’indecenza di una personificazione mitologica. Ciò non di meno va rilevato come neanche tale uomo riesca davvero a rinunciare alla speranza di un intervento divino salvifico, inconsciamente percepita l’impossibilità di superare con le sole sue forze un’epoca divenuta ormai intollerabile; eppure perfino le divinità devono sottostare al primato della tecnica che, già dispiegatosi su tutti i campi del sociale, va appropriandosi anche della dimensione del sacro, alienandola dalle manifestazioni tradizionali quali le religioni, Dio o gli Dei, in favore di nuove espressioni più plausibili scientificamente come teorie ufologiche, ipotesi di fisica quantistica, arti della guarigione o psicoterapie sacralizzate. L’uomo moderno accetta senza difficoltà ciò che presenta un’apparenza tecnica, così anche le più recenti manifestazioni del sacro assumono tale aspetto.

Pare pertanto potersi concludere come la civiltà contemporanea, con il suo primato della tecnica, piuttosto che svilupparsi verso un futuro assolutamente non religioso, tenda piuttosto ad appropriarsi anche della non eliminabile dimensione del sacro; ma non di meno anche come, se pure per tramite di un cellulare connesso ad Internet – meglio se costoso – o di un alieno, percepito come divino perché più ricco di tecnica, l’uomo moderno, alla dimensione del sacro, desideri ancora rapportarsi. Le ierofanie, moderne o tradizionali, continueranno a manifestarsi e ad esercitare un ruolo significativo nel futuro dell’umanità.

 

Alessio Mariani

I peccati dell’innovazione tecnologica, la New Economy con il suoi web e robot

La nostra epoca è caratterizzata da una crescente innovazione tecnologica presente in tutti gli ambiti della nostra vita. Accanto a questa spinta allo sviluppo, s’instaura una nuova struttura economica: la cosiddetta New Economy, che si contraddistingue dalle forme economiche del passato per il fatto di essere caratterizzata da elementi inediti: opera in un mercato globale; riesce ad abbattere egregiamente i costi di lavoro ed è localizzata in uno spazio indefinito: la rete. Nel libro Al posto tuo: così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Riccardo Staglianò spiega bene il modo in cui le nuove tecnologie incarnano lo spirito della New Economy. La crescita esponenziale dello sviluppo tecnologico è diretta verso l’automazione dei metodi di produzione e la digitalizzazione dei servizi.

Si possono citare tre esempi plastici in grado di riassumere al meglio la portata di queste innovazioni: il primo è l’invenzione di Baxter e Sawyer, due robot in grado di svolgere rispettivamente compiti industriali semplici e operazioni più precise solo attraverso una semplice programmazione eseguita da un lavoratore privo di competenze tecniche; il secondo è il software NarrativeScience, capace persino di scrivere, attraverso un sistema algoritmico, articoli giornalistici impostati secondo un determinato stile o taglio editoriale; il terzo è Amazon, negozio globale online divoratore della concorrenza locale, che sfrutta i propri dipendenti e i negozi che vendono attraverso la sua piattaforma per poter essere iper-funzionale e iper-competitivo.

Sono due i fenomeni problematici determinati dalle tendenze innovatrici rappresentati in questi esempi. Il primo fenomeno è relativo alla sostituzione dei lavoratori con le macchine: uno studio di Frey e Osborne, ricercatori all’Università di Oxford, sostiene che il 47% dei mestieri ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione nel prossimo futuro. Da una parte, la minaccia fa riferimento alla sostituzione dei lavori manuali attraverso l’automazione dei metodi di produzione; dall’altra invece, l’invasione di sistemi algoritmici e informatici comporta la sostituzione dei lavoratori negli ambiti lavorativi di natura intellettuale. Sono due gli ordini di problemi determinati da questo rimpiazzo di manodopera per mezzo di queste metodologie. Il primo è strettamente economico e occorre affrontarlo partendo da un presupposto relativo al funzionamento del capitalismo: la teoria del plus-valore di Marx. Il modello marxiano descrive il modo in cui il datore di lavoro si approprierebbe della differenza economica tra il costo della manodopera del lavoratore e il prezzo finale della merce.

Questa teoria spiega anche il motivo per cui il sistema capitalistico selvaggio ha una tendenza verso cicli di crisi economiche: il datore di lavoro subisce le spinte al ribasso dei prezzi delle merci dalla concorrenza presente sul mercato, che conseguentemente lo condiziona all’abbassamento del costo della manodopera. Per aggirare questa tendenza, il datore di lavoro ricorre all’utilizzo di macchine per rendere più produttivi i lavoratori. Ma l’aumento di produttività non è un bene: la maggior produttività per mezzo delle macchine non solo comporta un minor numero di lavoratori, ma porta a produrre un surplus di beni, a cui consegue la distruzione del valore della merce e, a sua volta, al crollo del mercato.

Negli anni Settanta, questa tendenza alla crisi viene affrontata attraverso la pratica della delocalizzazione in Paesi emergenti come l’India o la Cina, luoghi in cui il costo della manodopera era bassissimo. Oggi invece, sembra che l’ideale da perseguire per affrontare questa tendenza sia il lavoratore robot: una manodopera automatizzata i cui costi di manutenzione sono infinitamente più bassi rispetto agli stipendi dei lavoratori da impiegare per lo stesso livello di produttività. Risulta ovvio però che se la soluzione del capitalismo rimane “maggior produttività al minor costo possibile” il continuo abbassamento dei costi della manodopera comporterà la distruzione della classe media, nonché l’annullamento della sua forza d’acquisto: sacrificio richiesto per il piacere di poter produrre a poco, e non più al prezzo giusto. Il secondo ordine di problemi relativo alla sostituzione dei lavoratori è prettamente etico, e fa riferimento al tema della deresponsabilizzazione. L’effetto più eclatante del progresso tecnologico è l’emancipazione progressiva delle nostre azioni dai vincoli morali. Gli strumenti tecnologici non vengono più creati per raggiungere un particolare fine, bensì sono loro a stabilire, grazie alle possibilità che offrono, ciò che si può o si deve fare: a vincolare le nostre azioni c’è solamente il limite tecnologico che non siamo riusciti ancora ad oltrepassare.

Nel momento in cui il principio che determina le scelte politiche, economiche e sociali non tiene più conto delle conseguenze etiche di una determinata innovazione, si giunge al punto in cui non vi è più possibilità di applicazione della responsabilità morale agli effetti delle azioni umane. Gli effetti collaterali dannosi o indesiderati devono essere considerati alla luce dell’azione che li produce. Oggi invece, questo discorso sugli effettivi rischi delle tecnologie sembra essere sostituito dall’idea di “danno collaterale”; idea che suggerisce come effetti positivi e negativi non concorrano sullo stesso piano, anzi: le conseguenze negative prodotte dalla tecnica ma ignote fino a quel momento, sembrano accadere fatalmente e casualmente, senza consequenzialità tra l’applicazione e i suoi effetti. Occorre invece calcolare i rischi dell’innovazione tecnologica; chiedersi che cosa possa pesare maggiormente per la società; e una volta trovata la risposta, scegliere se proseguire con quel tipo d’innovazione oppure arrestarla. Ad esempio, in termini di responsabilità morale, è meglio un uomo o un sistema tecnologico alla guida di un’automobile?

Il secondo fenomeno problematico di questa spinta innovatrice della New Economy è la precarizzazione del lavoro; tendenza particolarmente riscontrabile in due punti. In primo luogo, la New Economy produce sistemi di monetizzazione alternativi come il crowdsourcing (modello di business incentrato sulla collaborazione esterna di persone a progetti aziendali) e la sharing economy (“economia della condivisione”): concezioni economiche che all’apparenza possono risultare positive, rivoluzionarie e richiamanti modalità di condivisione eco-sostenibili; ma se contestualizzate e analizzate, rivelano tutta la loro portata precarizzante. Il 2007 è l’anno in cui scoppia la peggior crisi economica dalla Grande Depressione, la quale non fa altro che impoverire la classe media. È in questo momento che subentra la soluzione: “la sharing economy vi tende una mano d’aiuto! La sharing economy può aiutarvi ad arrotondare lo stipendio o a permettere di pagare l’affitto!”. Ma la verità la si può trovare provando a rispondere ad una domanda molto semplice: perché abbiamo bisogno di guadagnare più di prima? La sharing economy rappresenta veramente un’evoluzione dell’economia? Risulta evidente che la sua nascita è collegata alla crisi economica e alle sue drammatiche conseguenze.

La precondizione di questa sharing economy infatti è stato un mercato del lavoro depresso che, a partire dal 2008, si è caratterizzato per un abbassamento dei posti di lavoro fissi e parallelamente da una crescita impetuosa dei lavori part-time: chi ha perso un lavoro vero è costretto a ricorrere a numerosi microlavoretti, attraverso i quali si sperimenta nuovamente il lavoro a cottimo in versione 2.0. Mechanical Turk, il servizio internet di crowsourcing di Amazon Web Service, è solo uno degli esempi di sistemi a cottimo in cui la paga per ogni singolo lavoro non solo è bassissima (si parla di qualche centesimo di retribuzione a prestazione); ma dai guadagni ottenuti bisogna togliere un sacco di cose, come le cure mediche e le spese per la manutenzione della propria strumentazione; ma soprattutto non è previsto nessun contributo da versare per l’ottenimento della pensione. Si tratta quindi di sistemi economici del tutto insufficienti a risolvere le problematiche causate dallo sviluppo tecnologico: non contribuiscono minimamente a limitare le disuguaglianze economiche prodotte dalla concezione di sviluppo a loro affine, perché non pagano neanche le tasse utili al welfare.

In secondo luogo, Internet introduce varianti strutturali nella società e nell’economia rispetto al passato. Una delle idee più eversive del web 2.0 è stata quella della gratuità: un certo numero di merci si può trovare online gratuitamente. I contenuti vengono offerti gratis perché i professionisti remunerati (come i programmatori, i musicisti o i giornalisti) vengono sostituiti con gli utenti, che condividono in maniera totalmente volontaria e gratuità i contenuti da loro creati. L’utente produce e l’utente consuma: nasce una nuova figura: il prosumer. L’unico a guadagnarci in questo schema però non è questa nuova figura, bensì chi gestisce la piattaforma.

Ma il motivo della gratuità delle merci online non è relativa solo alla sostituzione del professionista con l’utente. Google, Facebook e Instagram sono servizi completamente gratuiti soprattutto perché cediamo loro volontariamente una quantità di informazioni digitali incredibili: informazioni raccolte nei database aziendali con lo scopo di classificare categorie di consumatori diverse e di individuare così le tendenze di consumo, per mezzo delle quali si può determinare a quali fasce di persone e in quale momento un dato prodotto può essere venduto più facilmente. In questo modo, il prosumer non produce solamente contenuti, ma anche i dati utili a scoprire le tendenze: la necessità di creare domanda per un certo tipo di bene viene annullata addossando questo ruolo al consumatore, che diventa autonomamente il sorvegliante di se stesso.

La sostituzione dei lavoratori e la precarizzazione del lavoro sono i due fenomeni della New Economy che comportano un’evidente crescita di disuguaglianza e disparità economico-sociale tra due “classi”: da una parte, l’élite proprietaria di robot o piattaforme informatiche; dall’altra la massa di lavoratori precari, utenti peraltro di quelle stesse piattaforme. Come affrontare queste disuguaglianze crescenti, frutto della New Economy e di un’innovazione tecnologica sempre in crescita e sempre più imprevedibile? Quali sono i modi per affrontare quest’epoca? In Tesi sulla filosofia della storia, Walter Benjamin delinea sostanzialmente due possibilità. La prima è negare che l’innovazione tecnologica sia progresso, rifiutandola come fecero i luddisti nel 1813, le cui battaglie certamente non comportarono l’arresto dello sviluppo, ma non furono in ogni caso vane: grazie alle loro lotte, il tema dei problemi derivati dall’automazione venne sdoganato e l’avvio di contrattazioni nei mercati di lavoro consentirono di migliorare le condizioni in fabbrica.

La seconda possibilità è accettare lo sviluppo tecnologico e piegarlo a proprio vantaggio. Nel libro La nuova rivoluzione delle macchine, Andrew McAfee elabora delle misure politiche finalizzate a ridurre le disuguaglianze economiche: migliorare le prospettive dei lavoratori alla luce di una crescita economica e produttiva complessiva. Le più importanti sono: il miglioramento dei metodi d’istruzione e d’insegnamento per mezzo delle nuove tecnologie; incentivare l’imprenditoria ed in particolare le start-up, ritenute vettori fondamentali per creare posti di lavoro e inventarne di nuovi; investire sulla ricerca scientifica e sulle infrastrutture, mettendo in moto una politica keynesiana; mettendo in pratica modalità di tassazione pigouviana, ovvero mirata a scoraggiare determinate attività come l’inquinamento, o sulla rendita, come la proprietà di terreni, la quale non subirebbe la riduzione dell’offerta sul mercato. Queste proposte politiche sono accompagnate da raccomandazioni a lungo termine, come l’idea di un’imposta negativa, che consiste nell’ottenere una frazione di tassazione pagata dal governo nel momento in cui il reddito risulta essere al di sotto di una determinata soglia.

È evidente però che queste misure politiche non solo non tengono contro dei problemi ecologici conseguenti ad una continua crescita produttiva complessiva, ma non scalfiscono minimamente le fonti che producono la disuguaglianza: non esistono ancora proposte veramente efficaci che si fanno promotrici di una tassazione sui metodi di produzione automatizzati o sul web. Gli Stati infatti non sono in grado di agire fiscalmente perché le aziende e le imprese private non solo riescono ad aggirare la tassazione, ma sono anche in grado di minacciare i governi rispetto a determinate misure fiscali. Il potere dei grandi colossi economici riesce a soppiantare il potere politico attraverso il ricatto: possono legittimamente disattivare il funzionamento di servizi digitali, ormai diventati essenziali in questo sistema economico-sociale.

Nel 2014 ad esempio, Google riesce a ricattare il governo spagnolo di Rajoy: l’approvazione della legge che avrebbe obbligato l’azienda a pagare gli editori per l’utilizzo dei loro contenuti, evidentemente non piaceva. Così, il giorno prima dell’entrata in vigore, Google decide di disattivare il servizio News del suo motore di ricerca, con la perdita del 10-15% del traffico sulle pagine web delle testate giornalistiche. Ma d’altronde, s’incentiva questo sistema ogni volta che acquistiamo un prodotto a basso costo su Amazon. E lo si fa senza badare a tutte le ripercussioni che un atto semplice come questo produce: è la New Economy, bellezza! Ma la convenienza vale quanto ciò che si sta perdendo?

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

 

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