La nostra epoca senza padri né legge: dopo il complesso di Edipo quello di Telemaco

Come ricordava Lacan e come, più recentemente, ha adombrato Massimo Recalcati, viviamo nel tempo del “padre evaporato”: il padre è stato ucciso. Senza padre, prevale il godimento senza misura e senza interdizione. Tutto è possibile, purché ve ne sia sempre di più.

Se il padre – insegna Lacan – è colui che coniuga e non oppone Legge e Desiderio, l’odierna epoca del capitalismo assoluto è ab intrinseco edipica: ha ucciso il padre e lascia che a dominare sia il desiderio illimitato e senza legge.

Ne è scaturito il culto conformistico della sensibilità liberal-libertaria, il massimo che la nostra epoca sembra in grado di permettersi. Il comune denominatore dei moti del Sessantotto e del capitalismo odierno sta, infatti, nella distruzione della legge come limite e come barriera in grado di imporre quell’esperienza della misura che, pur in modo contraddittorio, la cultura borghese del padre era ancora in grado di far valere.

Senza misura, la merce e il suo principio dell’estensione illimitata, vuoi anche del godimento cieco e sempre risorgente, possono imporsi sovranamente. Senza legge, il desiderio degenera: diventa mortifero, dissipativo e autoreferenziale, nichilistico come lo è il capitalismo, incardinato sulla stolida e volgare esaltazione del materialistico cinismo della pulsione non più limitata, come è suffragato dalle patologie del nostro tempo, come la tossicodipendenza, l’alcolismo e la bulimia.

È stato detto che la nostra epoca è in preda al “complesso di Telemaco” (Recalcati). Il complesso di Telemaco rovescia quello di Edipo. Se l’atto edipico per antonomasia è il godimento incestuoso scaturente dal parricidio, quello telemacheo è la nostalgia per la figura paterna della legge e della misura, la sola in grado di porre fine alla lunga notte dei Proci, in cui godimento e trasgressione si ergono a unica legge.

Nella narrazione omerica, Telemaco trascorre larga parte delle sue giornate in riva al mare, assorto nei suoi pensieri e scrutando l’orizzonte, in attesa che le flotte gloriose salpate per Itaca facciano ritorno. “Se quello che desiderano i mortali potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”, afferma Telemaco (Odissea, XVI, vv. 175-176). In assenza del padre Odisseo, simbolo della legge, a Itaca domina incontrastata l’anomia del godimento illimitato, incarnato dai Proci. È questo l’orizzonte di senso del nostro desolante presente.

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Jobs Act francese: la lotta per i ‘diritti’ è un dovere

Qualcuno parlerebbe di rivoluzione, al massimo di guerra civile; ma tali definizioni non sono adatte, non del tutto, a spiegare che cosa sta accadendo in Francia. Di sicuro una mobilitazione sociale si percepisce, ed è netta. I cittadini dicono no alla legge del lavoro, lo chiamano Jobs Act francese. Il Loi Travail, sulla scia renziana, propone un aumento delle ore lavorative, un predominio del contratto aziendale su quello collettivo nazionale, e agevola i licenziamenti, come l’interruzione economica del contratto di lavoro.

Si tratta di una legge che soffoca i lavoratori e che, come ha spiegato la docente dell’Università di Parigi Nanterre, Tatiana Sachs, durante il Convegno AGI 2016, non ha nulla di positivo se non la parte relativa alle tutele sul mercato del lavoro. Il ministro Manuel Valls che si è appellato all’articolo 49,3 del Titolo V della Costituzione, per far passare la legge senza il voto del Parlamento, inoltre secondo la Sachs, invidia Renzi che è riuscito a portare avanti il provvedimento senza strappi, mentre in Francia ha inaugurato la stagione degli scioperi ripetuti e con una sollevazione popolare evidente iniziata con Nuit Debout.

Jobs Act francese: la democrazia batte i piedi

Il Jobs Act francese sta portando alla formazione di un nuovo corso democratico e chissà, forse il 31 marzo sarà un giorno da segnare sul calendario, magari per ricordare un’evoluzione, o perlomeno evocare una reazione sociale e politica anche in Italia. E poi a Parigi è arrivato maggio, con i suoi fiori, i colori di arancio, giallo e viola come le magliette delle adolescenti a dire che sì è primavera, e bisogna rinascere in fretta, riesumare i diritti sepolti sotto le macerie. A maggio sempre nella patria della satira e delle brioches, scioperi illimitati dei trasporti, netturbini, vede ancora protagonisti ferrovieri metro e trasporto aviario. Tutti insieme, fieri ma soprattutto compatti e arrabbiati. Dopo i timori per la partita inaugurale degli europei di calcio, arriva quello che viene definito il giorno delle “galere”: oggi 14 giugno per i cittadini sui trasporti francesi si riparte con lo sciopero che coincide con quello indetto dai piloti Air France. Torneranno così in piazza i sindacati, per quella che è descritta come una mobilitazione senza precedenti. I francesi si stanno muovendo, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Viene in mente il 1789 non per retorica o demagogia, viene in mente e basta perché la grinta, la disperazione e la compattezza si fortificano nella loro gloriosa indipendenza. I francesi sono nati, fioriti ribelli, ma quando si parla di repubblica sono autorevoli e impositivi come nessun altra nazione in Europa. Guai a chi tocchi il trittico Liberté, Fraternité, Egalité. A guardare un paese compatto, arrabbiato al limite dello sdegno furente di chi non ha pane sotto i denti. Viene in mente perché i francesi non hanno dimenticato il loro passato ma portano in alto lo stendardo della lotta, e non si arrestano davanti ai propri baldanzosi rappresentanti che tutelano le istituzioni, è perché loro sanno che se questi sono – ancora – lì  è per grazia del popolo che li ha eletti e voluti. Ma in Italia invece questo discorso non ha senso. Sembra ancora intrappolata in una specie di oligarchia (o monarchia) repubblicana di chi decide (bene?) per il popolo e si fa pure ringraziare, magari su twitter. Ex novo, dal basso. Grazie al popolo addormentato. Mentre in Francia, notti in piedi e disordini leciti.

E poi non bisogna dimenticare che dietro lo scontro fra Stati e mercati si cela un attacco del capitale al lavoro, che necessariamente passa attraverso un indebolimento delle democrazie nazionali; non a caso le principali riforme richieste dai mercati, hanno riguardato proprio i diritti dei lavoratori, svilendo il lavoro e puntando solo alla produttività. “Fabbricare fabbricare fabbricare / preferisco il rumore del mare / che dice fabbricare fare e disfare….” diceva Dino Campana e in effetti oggi più che mai la retorica borghese del Lavoro come imperativo categorico dell’uomo, risulta innaturale ed ipocrita: laddove si parla dell’occupazione come di un diritto, si nasconde un sistema disumano, una moderna schiavitù. Le manifestazioni francesi contro il Jobs Act rappresentano un importante ed esemplare fronte alternativo alle becere e perverse politiche neoliberiste che ormai si sono strutturate nella forma di una rifeudalizzazione del rapporto sociale capitalistico.

“Il tallone di ferro”: la società distopica di Jack London

“Fece una pausa e mi guardò, a lungo, poi aggiunse: “L’evoluzione sociale è troppo lenta, non trovi, mia cara?”. Lo circondai con le mie braccia; la sua testa mi si posò sul cuore. “Cullami”, mormorò come un bambino viziato, “vorrei dimenticare questa mia visione dell’avvenire“. (Da Il tallone di ferro)

L’universo distopico letterario è ricco e variegato, con molteplici sfumature di temi e argomenti: è forse impossibile tracciarne una galassia dettagliata, ma si può partire da quelli che a ragione sono ritenuti i capostipite di questo genere. Uno di questi è senza dubbio il fantapolitico Il tallone di ferro (The Iron Heel) di Jack London (La crociera del Saetta, La figlia delle nevi, Il richiamo della foresta, Zanna Bianca, La Valle della Luna), pubblicato nel 1908.

Il tema sviluppato in questa narrazione distopica è legato al concetto di società capitalista, rivoluzione proletaria, potere di pochi e rivoluzione delle masse e London traccia infatti un appassionante scenario dominato dalle lotte tra potere oligarchico e lavoratori, lotte sanguinose che coinvolgono pian piano tutto il mondo, fino a gettarlo nel caos. La storia de Il tallone di ferro è narrata da Avis, figlia di un curioso docente universitario che è solito riunire  a casa sua periodicamente varie personaggi, scatenando dibattiti ferventi su politica e economia. In uno di questi salotti Avis conosce Ernest Everhard, un giovane pensatore socialista.

Avis si innamora presto del giovane, attratta dalla sua verve politica e dal suo fascino ribelle: “Che fosse il mio amore per Ernest a far di me una rivoluzionaria, o la chiara visione da lui offertami della società in cui vivevo, non saprei dire. Ma rivoluzionaria divenni, e fui travolta da un turbine di avvenimenti che appena tre mesi prima mi sarebbero sembrati impossibili. La crisi del mio destino coincise con grandi crisi sociali.”

Avis infatti diventa ben presto desiderosa di intraprendere un cammino per conoscere la verità del mondo, offuscatagli fino a quel momento dagli stantii studi universitari; fa la conoscenza di Jackson: un operaio delle filande rimasto mutilato in seguito a un incidente sul lavoro e mai più risarcito a causa di vari cavilli burocratici. Da questo incontro ne rimane profondamente segnata: “Ma che tutta la nostra società fosse fondata sul sangue, mi sembrava mostruoso, impossibile. E tuttavia c’era Jackson, e non potevo cancellarlo. Il mio pensiero ritornava continuamente a lui, come la calamita verso il polo. Era stato trattato in modo abominevole. Non gli avevano pagato il suo sangue onde ricavarne un più grosso interesse

Intanto il suo amore per Ernest cresce sempre di più, visto che continua a frequentare i salotti che suo padre indiceva. Nei i suoi accalorati discorsi Ernest si scaglia contro la chiesa, la stampa, l’esercito e mette alle strette gli altri ospiti, per lo più grandi produttori industriali, con una impeccabile dialettica dominata da un senso di razionalità, coscienza e conoscenza di leggi e procedimenti. Ernest arriva anche a dimostrare matematicamente, davanti a un consesso di uomini d’affari, l’inevitabile, a suo dire, crollo del sistema capitalistico: “Quando ogni paese si troverà in possesso di beni in eccedenza inconsumabili e invendibili, il sistema capitalistico crollerà sotto l’enorme peso dei profitti che ha accumulato, e quel giorno non ci sarà nessuna distruzione di macchine, bensì la lotta per il loro impossessamento. Se il lavoro ne uscirà vincitore, il vostro cammino sarà facile. Gli Stati Uniti, anzi il mondo intero entreranno in un’era nuova e prodigiosa”

In seguito la narrazione smette i panni quasi tipici del trattato filosofico e inizia a tingersi dei tratti dei grandi kolossal d’avventure, con scenari apocalittici e cupi. Iniziano quindi  le crisi industriali negli Stati Uniti: scioperi di lavoratori, valori di borsa che crollano, le Centurie Nere che iniziano a spargere sangue per sedare le rivolte: è solo l’inizio.
Ernest viene eletto al Congresso, subentra l’esproprio dei piccoli agricoltori: “La crisi nazionale aveva provocato un’enorme riduzione dei consumi. I lavoratori, disoccupati, senza denaro, non facevano acquisti. Di conseguenza, la plutocrazia si trovò così a disporre come mai prima di allora, di un’eccedenza di beni.”

Allora si inizia a delineare la vera battaglia: i tedeschi si dicono disposti ad andare al fianco degli americani in questa loro lotta proletaria contro l’oligarchia. Viene indetto lo sciopero generale per una settimana: rivoluzioni e sommosse, l’esercito tedesco bombarda gli Stati Uniti: “La novità di quello stato di cose stava nella passività della loro rivolta. Non si battevano; non facevano nulla, e la loro inerzia legava le mani al loro Kaiser, il quale cercava solo un pretesto per sguinzagliare i suoi mastini e dare addosso al proletariato ribelle; ma il pretesto non venne mai. Non poté né mobilitare l’esercito per la guerra contro lo straniero, né scatenare la guerra civile per punire i suoi sudditi recalcitranti. Non una ruota del meccanismo del suo impero si muoveva, i treni non viaggiavano e i telegrammi non erano trasmessi perché i telegrafisti e i ferrovieri sostenevano lo sciopero, come il resto della cittadinanza. Gli Stati Uniti erano paralizzati. Nessuno sapeva ciò che accadeva: non c’erano più né giornali né posta, né telegrammi.” Dopo questa tremenda settimana tutto ricomincia ad assestarsi e i governi di Germania e Stati Uniti si stringono in alleanza per poter affrontare il comune nemico: il proletariato rivoluzionario dei due Paesi.

Di li a poco la svolta. I giornali annunciano un aumento di salario senza precedenti e, nello stesso tempo, una riduzione delle ore lavorative per i dipendenti delle ferrovie, i lavoratori del ferro e dell’acciaio, i metalmeccanici e i macchinisti. Sono privilegi atti a creare divisioni tra i lavoratori. Nascono quindi lavoratori privilegiati, sindacati privilegiati e ogni appartenente a uno di questi poteva dotarsi di armi per la difesa, visto che erano osteggiati dal resto della popolazione. Tumulti e violenze aumentano. Dai sindacati nascono delle vere e proprie caste di lavoratori privilegiati e alla maggioranza sono tolti vari diritti, come l’educazione scolastica. In tutto il resto del mondo rivolte e sommosse, organizzazioni segrete di lavoratori contro gli oligarchi: l’America settentrionale era invece sotto lo scacco del Tallone di Ferro, l’oligarchia che non poteva essere messa in discussione. Altre rivolte si susseguono, quella degli agricoltori, quella dei minatori: tutte sedate nel sangue dalle milizie.

Durante una seduta del Congresso viene lanciata una bomba (probabilmente stesso dagli esponenti oligarchi) e gli esponenti socialisti vengono incarcerati, ma Ernest, il leader, a sorpresa, non viene giustiziato. Anche Avis viene catturata, ma riuscirà a fuggire e a ritrovarsi con il suo amore Ernest in un rifugio sulle montagne. Ma intanto dove era arrivata l’oligarchia? “La condizione del popolo nell’abisso era pietosa. La scuola comune non esisteva più; viveva come bestie in grandi e squallidi ghetti operai, marciva nella miseria e nel degrado. Tutte le antiche libertà erano state abolite. A questi schiavi del lavoro era negata persino la scelta del lavoro

La rivoluzione dunque (solo la prima, a detta di Avis e Ernest) ha inizio: ma ha i caratteri del massacro, della lotta senza quartiere e della sonora sconfitta per i ribelli, nonostante “il popolo dell’abisso” fosse dominato dall’ardente desiderio di vendetta.

La narrazione si interrompe bruscamente. Una nota a piè pagina informa appunto che il racconto “S’interrompe bruscamente, a metà d’una frase. Avis dovette essere avvisata dell’arrivo dei Mercenari, perché fece in tempo a mettere in salvo il manoscritto prima di scappare o di essere fatta prigioniera.” L’espediente è quindi uno dei più classici e funziona molto bene: la narrazione è un crescendo di pathos e emozioni, nonostante un inizio molto teorico, con il riportare dei numerosi discorsi che Ernest compie nei salotti del padre di Avis.

Il tallone di ferro è una storia d’amore, una storia di una crisi personale e di un intero sistema sociale: queste tre situazioni si intrecciano nel romanzo di London che è abile a far intravedere un futuro cupo e senza via d’uscita, ma allo stesso tempo a mostrarsi quasi fiducioso nelle capacità dell’uomo, lasciando sospesa la chiusura della storia. Il futuro in fin dei conti deve ancora essere scritto e per quanto ci si possa spingere nell’elaborare congetture, questo dipende sempre e solo dalle azioni che mettiamo in campo: proprio come Ernest Everhard, il leader di una rivoluzione mondiale (forse) fallita.

I tratti geniali della narrazione di London ne Il tallone di ferro sono conditi da un grande senso storico e filosofico: l’impressione è quella di non avere a che fare con un’opera fantascientifica, ma anzi molto razionale e realistica. Le ambizioni dell’uomo portate all’estremo, spinte al punto più alto per poi precipitare rovinosamente in un turbine di sangue, rivolte, guerre e macchinazioni strategiche. Se questo romanzo è stato considerato la prima delle distopie moderne, a ragione si può ben dire che molte successive produzioni hanno trovato spunto da questo sorprendente autore.

 

 

 

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