‘Quer pasticciaccio brutto de via Merulana’: un giallo che nasconde un disperato bisogno di ordine e autenticità

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è il romanzo che consacra al grande pubblico Carlo Emilio Gadda. Lo scrittore milanese, all’inizio del 1946, comincia a scrivere un racconto giallo, un genere che per altro lo aveva sempre affascinato.

Il caso di cronaca locale di un omicidio di due vecchie signore romane per mano di una ex domestica ispirano Gadda per la stasera della sua opera. Presto il racconto si trasforma in romanzo.

Pietro Citati, che aveva conosciuto Gadda alla fine degli anni ’55 e all’inizio del ‘56 nella prefazione scrive: “Gadda iniziò il Pasticciaccio alla fine del 1945: durante il 1946 e l’inizio del 1948 compose, circa 220 pagine con quell’impeto, quella furia, quella velocità quell’urgenza esplosiva” che conosceva nei momenti di ispirazione.” Le prime cinque puntate escono sulla rivista “Letteratura” e una sesta viene annunciata, anche se mai pubblicata.

Nel frattempo, lo scrittore prende contatti con autorevoli case editrici per un’edizione dell’opera in volume. Gadda è diviso tra l’attività letteraria e il suo lavoro alla redazione romana della Rai. In quegli anni la stesura si fa lenta e discontinua ma comunque prosegue fino al decimo capitolo. Nel frattempo, gli scritti precedenti vengono sottoposti ad un’accurata revisione.

Nel luglio del 1953, un giovane Livio Garzanti propone a Gadda di ultimare il Pasticciaccio, offrendogli un cospicuo anticipo. Il ’55 e il ‘57 sono stati il periodo di maggiore vitalismo letterario, infatti, nel giugno del 1957, Garzanti riceve l’ultimo capitolo. A distanza di un mese il libro appare nelle librerie, tra dibattiti, polemiche ed entusiasmo.  Gadda ne promette in seguito ma poi abbandona l’idea. In un intervista lui stesso dichiara che “l’opera è letterariamente conclusa”

 

Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana: trama

Siamo a Roma nel Febbraio del 1927. Da due anni Mussolini ha instaurato il regime fascista: l’ordine deve regnare ovunque e non può essere turbato. Nel palazzo di Via Merulana, conosciuto come il palazzo degli ori, vivono ricchi borghesi. Un finto operaio si introduce in casa della contessa Menegazzi e rapina la donna di gioielli e denaro.

L’indagine è condotta dal commissario Don Ciccio Ingravallo, molisano, 35 anni. Il commissario appura che il rapinatore ha un complice. Unico indizio, un biglietto del tram, caduto dalla tasca del ladro. Dopo le prime investigazioni e testimonianze i sospetti ricadono su un giovane con una sciarpa verde.

Dopo tre giorni nello stesso palazzo, proprio dirimpetto all’appartamento del furto si consuma un omicidio. L’affascinante, Liliana Balducci, che spesso aveva ammaliato il commissario, viene trovata uccisa con un profondo taglio alla gola. L’efferato omicidio colpisce molto Ingravallo sia perché conosceva bene la donna sia perché l’esecuzione si era rivelata estremamente violenta. Iniziano parallelamente le indagini per entrambi i casi, anche se il commissario non crede che i due fatti siano collegati.

Il Primo ad essere sospettato è il cugino della vittima, il dottor Giuliano Valdarena. È stato lui a rivenire il cadavere della cugina e a dare l’allarme. Il ritrovamento a casa sua di un gioiello e di contanti non fanno altro che avvalorare i sospetti. Dall’interrogatorio emerge che Liliana è ossessionata dall’impossibilità di avere figli. Mancanza che colma circondandosi di serve e nipoti acquisite, accolte in casa per brevi periodi. Da Giuliano, Liliana vorrebbe un figlio, ma da buona cristiana e moglie innamorata di Remo, desiste. Si accontenterebbe di adottare, almeno idealmente, il figlio che nascerà dal matrimonio del cugino con la sua sposa. Come regalo di nozze dona al cugino un monile e dei soldi. Valdarena viene scagionato.

In commissariato giunge da Don Corpi, il confessore della Balducci che dà lettura del testamento. Da questo momento le indagini si spostano sulle ipotetiche nipoti e domestiche. Ingravallo è coadiuvato nel lavoro dal Commissario Fiumi e il brigadiere Pestalozzi. Si ritorna a sospettare del giovane con la sciarpa verde e le indagini si spostano nel paese di Marino a sud di Roma. Le indagini si concentrano su Zamira Pàcori, una maga-tintora, fattucchiera e sarta che ha ritinto la sciarpa e sul suo laboratorio brulicante di donne.  I gioielli della contessa Menegazzi, oggetto di un turbato sogno del brigadiere, vengono ritrovati in un casello ferroviario e grazie ad altri interrogatori si identifica il giovane dalla sciarpa verde che però resta da rintracciare.

Il romanzo si interrompe bruscamente con la perquisizione della povera casa e l’interrogatorio di Ingravallo ad una delle cameriere della donna uccisa.

I contenuti dell’opera

I dieci capitoli si dividono in due grandi parti: i primi cinque raccontano la scoperta dei delitti e le prime indagini nel mondo della borghesia romana, i cosiddetti “pescicani”, che avevano saputo arricchirsi. Gli altri cinque vedono sposarsi gli inquirenti nel sottoproletariato con la sua realtà povera e tratti grottesca della campagna romana, ai margini della capitale. Nonostante una trama profondamente disgregata, Gadda vuole essere realista e raccontare dunque una realtà oggettiva, un mondo sociale misto variegato, che parla con voci diverse, producendo una vera e proprio sinfonia. La voce dell’autore si mescola a quella dei personaggi e non è più riconoscibile.

La trama diventa sempre più intricata nel proseguire delle indagini e nel susseguirsi di ipotesi diverse e dispersive rese magistralmente da Gadda attraverso digressioni, frasi costruite in lunghi periodi e divagazioni. La struttura romanzesca è aperta e dà l’impressione di durare all’infinito.

Ciò che è emerge è un groviglio. Il commissario Ingravallo, alter ego di Gadda, con ostinazione e rigore si impegna nelle indagini e nella ricerca della verità pur essendo consapevole che lo gnommero, il gomitolo aggrovigliato del fattaccio è inestricabile perché come scrive Gadda nel Pasticciaccio “non esiste la casuale di un fenomeno, esiste una molteplicità di causali convergenti che finiscono per strizzare nel vortice del delitto la debilitata ragione del mondo”.

Il Pasticciaccio a cui allude il titolo del romanzo è sì il delitto che si è consumato a Via Merulana ma figuralmente anche il caos e la terribilità delle cose del mondo. Gadda ha vissuto la guerra, le trincee, l’abbrutimento e gli orrori e ha sperimentato sulla sua pelle la falsità, l’ipocrisia, il marciume e la corruzione della società, derivanti dalla guerra.  Il pasticciaccio vuole essere anche un quadro disincantato e polemico della vita sociale dell’Italia fascista con i suoi aspetti a volte grotteschi vanagloriosi. Quadro che non è solo dell’ambiente romano ma si estende a tutta la nazione che ha lasciato cadere tutti i valori e gli ideali in cui Gadda aveva creduto da giovane.  La sua delusione si riversa irrimediabilmente nella sua poetica e nelle sue opere.

Il motivo del giallo, assume un forte valore simbolico, le indagini adombrano quella esplorazione del reale a cui Gadda è teso: la ricerca spasmodica di un ordine al di là del garbuglio, del pasticcio.

La struttura tradizionale del giallo prevede una linearità: delitto, indagini e scoperta del colpevole. Ingravallo e quindi Gadda non crede in questa linearità per questo imbastisce un intreccio aggrovigliato e divagatorio che conduce il lettore allo smarrimento. La scelta di interrompere il romanzo ex abrupto non è casuale anzi è preventivamente programmata dallo scrittore. La visione delle cose così invischiate nel male è incompatibile con la rassicurante morale del giallo. Il fatto che il romanzo resti incompiuto e che quindi l’assassino non venga scoperto, sembra indicare la vanità della ricerca ma anche il suo fallimento.

Il rapporto traumatico dell’autore con la realtà si scorge anche nello stile e nel linguaggio. Lo stile gaddiano è barocco: lo scrittore ama giocare con le metafore e deformare le parole, caricandole di doppi sensi e allusioni. Emblematico in questo senso è il capitolo 8 del libro. Il pasticciaccio è la summa dell’esperienza gaddiana: in esso si mescolano stili diversi, dall’aulico al triviale, dal tragico al comico.

Ciò che regna nell’opera è la pluralità dei linguaggi e mescolanza caotica di elementi diversi. Alle variopinte sfumature del dialetto romanesco si aggiungono il dialetto laziale della campagna romana, il napoletano dei burocrati dei poliziotti, accento il molisano del commissario Ingravallo, dialetto Veneto della contessa Menegazzi e una serie di linguaggi diversi, tecnici, lingue straniere, espressioni colte, basse e gergali. Il plurilinguismo raccoglie e rispecchia la frantumazione sociale presentando molte delle innumerevoli facce dell’Italia.

Quer pasticciaccio de Via Merulana è l’opera maggiore di Carlo Emilio Gadda. Per qualcuno astruso per qualcun altro geniale, ad oggi resta ancora un capolavoro indiscusso.

 

Per altri contenuti sull’autore:

https://www.900letterario.it/focus-letteratura/barocco-mondo-lingua-gadda/

https://www.900letterario.it/opere-900/la-cognizione-del-dolore-gadda/

 

Carlo Dossi: il conte scapigliato

Alberto Carlo Pisani Dòssi (Zenevredo, 27 marzo 1849 – Cardina, 17 novembre 1910), meglio conosciuto come Carlo Dossi, nasce nel 1849 a Zenevredo, un piccolo paese in provincia di Pavia dove i Pisani-Dossi possiedono proprietà terriere. Ben presto però lo scrittore abbandona Zenevredo per trasferirsi a Milano per iscriversi alla scuola media; a Milano, terminati gli studi, partecipa giovanissimo al movimento della Scapigliatura; scrive articoli sui periodici locali e dal 1867 pubblica in proprio la rivista “Palestra Letteraria, Artistica e Scientifica” a cui collaborano scrittori come Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe Rovani e Giosuè Carducci. Gli anni tra il 1868 e il 1870 vede la sua presenza assidua tra gli scapigliati milanesi. Lo scultore Giuseppe Grandi, i pittori Luigi Conconi, Daniele Ranzoni e soprattutto Tranquillo Cremona, già illustratore del capolavoro manzoniano, che dipinge per lui un famoso ritratto oggi conservato nella villa di Corbetta antico possedimento della famiglia Pisani-Dossi.

Dal 1870 la sua vita subisce una svolta politica e avventurosa al tempo stesso. Legato il suo nome a quello di Francesco Crispi, comincia la sua carriera diplomatica. Diviene Ciambellano del cifrario al Ministero degli Esteri e poi Console a Bogotá nel 1870. Quando nel 1891 il governo Crispi vacilla, viene mandato in Colombia come console generale e ministro plenipotenziario. Alle elezioni del 1895 dopo la sconfitta di Crispi Dossi viene destinato ad Atene. Alla fine del 1896 torna in Italia e si stabilisce definitivamente a Corbetta. Comincia a dedicarsi ad una sua grande passione, l’archeologia, e lavora per creare il Museo Pisani Dossi in cui sono custoditi i reperti raccolti in Colombia, in Grecia e a Roma, oltre a materiale precolombiano e ad oggetti trovati in scavi eseguiti nelle zone di Corbetta, Albairate, Santo Stefano Ticino, Sedriano e lungo le sponde del Ticino.

L’altra grande passione di Carlo Dossi è decisamente la letteratura. Le sue opere principali sfuggono alle classificazioni letterarie convenzionali e possono essere concentrate in un periodo di tempo relativamente breve, tra il 1868 e il 1887. L’altrieri. Nero su bianco del 1868 e Vita di Alberto Pisani del 1870 partono dal dato autobiografico per stravolgerlo con immissioni romanzesche e meta-letterarie.

La colonia felice del 1874 è un esempio di romanzo utopista-allegorico, che infiamma il dibattito pubblico sulla carcerazione riscosse grande successo editoriale, anche se in seguito Carlo Dossi rinnegherà le idee filantropiche del romanzo. Vi sono poi i Ritratti umani dal calamajo di un mèdico dello stesso anno e  i Ritratti umani. Campionario del 1885 e soprattutto La desinenza in A (1878-1884), piccolo trattato misogino, in cui è descritta con umorismo e inventiva la società aristocratica dell’età umbertina.
Interessante è il suo irriverente e graffiante diario privato, pubblicato postumo con il titolo Note azzurre (in edizione a cura di Dante Isella), nel quale lo scrittore offre notazioni autobiografiche e giudizi letterari e politici alternandoli ad infiniti spunti di novelle e romanzi mai scritti, ad aforismi, a sarcasmi violenti e a fantasiose ironie, ad aneddoti spesso scabrosi su contemporanei illustri o poco noti. Tra le opere minori vanno citate la commedia dialettale Ona famiglia de cilapponi del 1873, scritta in collaborazione con Gigi Pirelli e la raccolta di saggi sull’arte Fricassea critica d’arte, storia e letteratura del 1906. In ultimo il saggio letterario incompiuto Rovaniana pubblicato postumo nel 1944 dedicato all’amico e ispiratore Giuseppe Rovani.

La sua produzione è caratterizzata dal gusto per il pastiche linguistico e dall’uso deformante delle descrizioni grottesche. Carlo Dossi è precocemente attratto dall’anticonformismo scapigliato che verrà restituito per il suo intervento a nuova consapevolezza letteraria. I romanzi hanno molto spesso una struttura narrativa non convenzionale, frequenti sono le divagazioni, le citazioni e le ripetizioni, alla maniera di Laurence Sterne, tra gli autori più apprezzati da Dossi. La forma lessicale e sintattica è multiforme, composita ed eterogenea. Sono frequenti bruschi salti dall’aulico al popolare, latinismi, neologismi, espressioni e termini gergali, tecnici e dialettali. La forzatura e la colorita ricchezza del linguaggio ha spinto Gianfranco Contini a definire Carlo Dossi l’iniziatore di quella “linea lombarda” di sperimentalismo che avrà poi il massimo rappresentante in Carlo Emilio Gadda. Dossi, tuttavia, cerca di costruire una lingua personale, dove gli elementi di diversa provenienza possono coesistere armonicamente con fini ironici o nostalgici, senza eccessivi contrasti stilistici; anche egli come tanti cerca una lingua lontana da quella logora dell’uso comune. La malinconia e l’umorismo sono le muse ispiratrici di Dossi dal cui intreccio nascono il gusto per il travestimento e per la parodia, per la ricerca linguistica e il frammento, per la sovrapposizione di generi e stili. Lo scrittore non teme di ridiscutere il concetto stesso di letteratura, interrogandosi inoltre sul problema dell’identità umana come dimostra L’Altieri.

Carlo Dossi ha rappresentato, probabilmente più di tutti, l’ambiguità della Scapigliatura, divisa tra influenza romantica e inquietudini decadenti. Muore nel Novembre del 1910 a Cardina in provincia di Como nella grandiosa villa da lui fatta costruire su uno sperone di roccia che ancora oggi si chiama dosso, in suo onore.

La neoavanguardia: sperimentalismo ad oltranza

La Neoavanguardia è un movimento letterario cui hanno dato vita critici e scrittori italiani sul finire degli anni 1950, con la crisi dell’entusiamo post-resistenziale, con la presa di coscienza che la situazione politica venisse a rinchiudersi e con la messa in discussione della “teoria del rispecchiamento” (propria del neorealismo che aveva dato vita ad opere come Cristo si è fermato a Eboli, Uomini e no, Se questo è un uomo) da parte della fenomenologia e dello strutturalismo. È nel campo letterario il riflesso più vistoso del generale impulso alla modernizzazione che ha investito la cultura italiana nella seconda metà degli anni 1950. L’ impulso a favorire l’incontro con nuove discipline e indirizzi di pensiero quali la sociologia, l’antropologia, la linguistica, la psicanalisi e la fenomenologia, apre le porte ad un consistente aggiornamento scientifico nel lavoro dei critici, a cui segui anche il rifiuto della letteratura allora in auge.

Autori come Giorgio Bassani, Carlo Cassola, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini sono accusati di tradizionalismo provinciale e disimpegno intellettuale. La neoavanguardia recupera l’audacia sperimentale delle avanguardie storiche, innanzitutto del futurismo, battendosi per la definitiva consacrazione di Carlo Emilio Gadda. L’ingegnere milanese è assunto a paradigma del nuovo, insieme ad una programmatica rinuncia alla comunicazione e ad uno sconvolgimento dell’ordine linguistico. In una realtà negativa la neoavanguardia vede la poesia come «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato». La tesi della nuova scuola è un nuovo concetto del rapporto ideologia-linguaggio che dà luogo allo sperimentalismo ad oltranza nella lirica e nella narrativa. Tutto per negarsi al consumo promosso dall’industria culturale e per smascherare la falsità dei modelli di comunicazione imposti dallo sviluppo neocapitalistico.

La neoavanguardia vuole contestare il carattere ideologico della comunicazione linguistica e della struttura economica e sociale da cui la comunicazione deriva. Edoardo Sanguineti (1930) genovese, organizzatore teorico della neoavanguardia, in Ideologia e linguaggio (1963) e in Avanguardia, società, impegno (1966), riconosce la mercificazione della comunicazione linguistica e dell’opera d’arte perché esse dipendono dal mercato capitalistico. L’arte dell’avanguardia vive brevemente, rompendo col suo grido la mistificazione capitalistica. Come poeta di neoavanguardia, Sanguineti scompone la collocazione delle parole tenute legate dai segni convenzionali, le allinea in modo mistilingue mescolando latino medievale, greco, neologismi scientifici, cifre alfabetiche e numeriche, rappresentando così il caos schizofrenico, la nevrosi del tempo vissuto. Lo sconvolgimento linguistico é perciò un’omologia strutturale della realtà che sconvolge la coscienza, così come era avvenuto col futurismo o con il surrealismo (come si può notare nell’opera sperimentale Laborintus)

Il principale luogo di elaborazione di tali idee sono le riviste. In particolare <<Il Verri>>, rivista fondata nel 1956 da Luciano Anceschi; importanti contributi provengono anche dalle pagine di <<Menabò>>; e dalle riviste <<Malebolge>>, 1963-67, <<Il Marcatré>>, 1963-72 e <<Grammatica>> del 1964.
La coscienza di aver giocato un ruolo fondamentale nell’aggiornamento della letteratura italiana rispetto la resto della letteratura europea e del mondo è sempre accompagnata dalla consapevolezza che il paradigma culturale con il quale ci si stava mettendo al passo non era esattamente ‘novissimo’. Esemplare è quanto scrive Giorgio Celli parlando del ‘parasurrealismo’ di <<Malebolge>>:

“Il nostro paese non aveva potuto vivere l’esperienza surrealista […] Si poteva far qualcosa per colmare questo gap culturale?” La risposta è chiarissima: “[…] non era più lecito essere dei surrealisti in senso proprio, se negli anni Sessanta Breton era ormai un fossile storico. […] Volevamo, insomma, rivisitare da filologi, e riprodurre da falsari, la poetica e i metodi del surrealismo storico” proponendone “una rilettura, in chiave, per così dire, manierista”.

Angelo Guglielmi scrive:

“Ritenemmo (e lo facemmo), che fosse necessario aprire le nostre lettere, fin lì chiuse in un provincialismo non più pregnante, alle grandi correnti del pensiero moderno, dalla psicanalisi, alla fenomenologia alla teoria della relatività di Einstein, dallo strutturalismo alla semiologia, al formalismo russo, alla Scuola di Praga, alla linguistica che oltralpe, in Francia, in Germania, in Inghilterra, erano da tempo vive e operanti e avevano condizionato e nutrito i grandi capolavori della modernità dalla Waste Land di Eliot, ai Cantos di Pound, all’Ulysses di Joyce, all’Uomo senza qualità di Musil, al Processo di Kafka, alla Ricerca di Proust. Questi e molti altri appartenenti alla stessa temperie culturale erano i testi che allora leggevamo e tenevamo a modello”.

La cultura dei ‘Novissimi’ si fonda in larga misura su opere di filosofia, di etnologia, di antropologia culturale, di psicoanalisi, di linguistica, di semiotica e perfino di fisica e di economia; fra gli autori più frequentati ci sono Marx, Freud, Jung, Saussure, Gramsci, Husserl, Heidegger, Wittgenstein, Lévi-Strauss, Foucault, Althusser, Derrida.
Con la “scoperta” della centralità del linguaggio e con la questione della “riduzione del soggetto” i Novissimi hanno toccato un punto centrale dell’arte contemporanea. Tuttavia, hanno probabilmente scelto soluzioni difettose, che ne limitano il campo d’azione, basti pensare all’elaborazione di un linguaggio incomprensibile, incapace di comunicare ai più, ma appannaggio degli specialisti della letteratura.

Alberto Arbasino, massimo interprete di Gadda

L’ingegnere in blu

Alberto Arbasino nasce a Voghera il 24 gennaio 1930 è scrittore, saggista, giornalista italiano, critico teatrale e musicale. Tra i protagonisti del Gruppo 63 , la sua produzione letteraria ha spaziato appunto dal romanzo alla saggistica. Definito l’enfant terrible dell’avanguardia letterario è anche giornalista di costume, critico teatrale e musicale, intellettuale. Si laurea in giurisprudenza e si specializza in diritto internazionale all’Università degli studi di Milano. Si fa conoscere al grande pubblico con alcuni scritti pubblicati su riviste importanti come <<L’illustrazione italiana>>, <<Officina e Paragone>> rivista questa che, nel 1955, pubblica uno dei suoi primi racconti, Destino d’estate” che racchiude già molto della sua tematica futura: la provincia italiana del periodo post-bellico chiusa nel suo mondo ristretto e la critica di una società pettegola e ristretta delle ville e dei salotti.

La sua carriera letteraria inizia con i reportage per il settimanale <<Il Mondo>> da Parigi e Londra, raccolti nei libri <<Parigi, o cara>> e <<Lettere da Londra>>. Importante anche la sua collaborazione con i quotidiani Il Giorno e Il corriere della sera e La Repubblica dove scrive con frequenza quasi settimanale per denunciare con lettere brevi ironiche e puntuali i mali della società italiana. Recentemente ha pubblicato con Feltrinelli Rap”! e Rap 2″ invettive poetiche e satire. Nel 2004 gli è stato assegnato il Premio Chiara alla carriera. Nel 2012 è stato insignito del Premio Scanno per la Letteratura. Nel 2013 riceve il Premio Campiello alla carriera. Nel corso del 1977 si è dedicato anche alla televisione conducendo su Rai 2 il programma Match. È stato anche deputato al Parlamento italiano come indipendente per il Partito Repubblicano Italiano fra il 1983 e il 1987.

Carlo Emilio Gadda

Grande estimatore di Emilio Gadda ne ha analizzato la scrittura in diversi saggi: Genius Loci”, in I nipotini dell’ingegnere” (1960), in Sessanta posizioni”,in L’ingegnere e i poeti”: “Colloquio con C. E. Gadda” e in L’ingegnere in blu”, con il quale ha vinto l’anti-premio Pen Club nel 2008. Contravviene ai canoni crociani e costituisce motivo di polemiche e di imbarazzo sia a destra che a sinistra come “I nipotini di Gadda” (una vera e propria categoria critica), ovvero Testori e Pasolini, che rifiutano lo status quo intellettuale e i cui personaggi delle loro opere hanno molte cose in comune gli uni con gli altri, in primis quella brama di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Come Gadda, Arbasino vive un isolamento, incomprensioni; sono delle pecore nere  da snobbare o osteggiare.

La sua penna è considerata espressionista per le descrizioni oniriche e deliranti ( si spiega la sua ammirazione nei confronti del visionario e nevrotico Gadda). Romanziere sperimentale, sofisticato costruisce infatti trame estremamente rarefatte, intermezzate da lunghe digressioni metaletterarie in diverse lingue; le  numerose opere si dividono tra romanzi nei quali vaga alla ricerca di mondi borghesi desiderosi di essere ritrovati e, i saggi nei quali la brillante vena critica e il suo pungente ritrattiamo esplode:

Giovanni Testori

Le piccole vacanze (1957) , L’Anonimo lombardo (1959), Fratelli d’Italia (1963), sono invece del 1964 La narcisata, in La narcisata e La controra: due storie romane e Certi romanzi; pubblicati nel 1966 sono: Grazie per le magnifiche rose, La maleducazione teatrale: strutturalismo e drammaturgia; Off-Off, (1968), Due orfanelle: Venezia e Firenze (1968); il romanzo Super Eliogabalo del 1969; Sessanta posizioni (1971), Il principe costante (1972), La bella di Lodi sempre del 1972, Prefazione a Franz von Bayros, Il giardino di Afrodite, Sugar (1973). Tutti del 1974 sono: Amate sponde: commedia italiana, Introduzione a Ivy Compton-Burnett, Più donne che uomini, Introduzione a Oscar Wilde, Salomé; Specchio delle mie brame;  Favole su favole: fiabe e leggende, tradotte, trascritte e trasformate da Alberto Arbasino e altri; premessa di Walter Pedullà, (1975),  Le interviste impossibili (1975) che contengono le interviste impossibili di Alberto Arbasino a Ludwig II di Baviera e Giovanni Pascoli. Dell’anno dopo sono le Nuove interviste impossibili con l’intervista immaginaria a Giacomo Puccini. E ancora Introduzione a Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, Fantasmi italiani, Cooperativa scrittori (1977), In questo Stato è del 1978 come Luisa col vestito di carta. Presentazione a Jorge Luis Borges, Antologia personale (1979),  Un paese senza (1980), Trans-Pacific Express (1981), Matinee: un concerto di poesia (1983), Il meraviglioso, anzi (1985), I viaggi perduti (1986), La caduta dei tiranni (1990), Mekong (1994), Passeggiando tra i draghi addormentati (1997), Paesaggi italiani con zombi (1998); nel 1999 sono usciti Introduzione e scelta di Carlo Dossi e Saggio critico in Truman Capote; Le muse a Los Angeles (2000), Prefazione a Cesare Brandi, Budda sorride del 200 e Marescialle e libertini del 2004 con il quale vince il Premio Viareggio.  Dall’Ellade a Bisanzio (2006 ), La vita bassa e Su Correggio nel 2008. America amore nel 2011 e Pensieri selvaggi a Buenos Aires, nel 2012.

Pier Paolo Pasolini

Tra tutte le definizioni date sul critico, quella di Roberto Cotroneo è la più calzante: «Curiosissimo, poliedrico, osservatore del bel mondo, cronista mondano a suo modo, narratore incapace di pensare ai suoi libri come qualcosa di dato, di intoccabile. Ne sanno qualcosa alla Adelphi cosa voglia dire mandare in tipografia le bozze corrette da Arbasino. Vere e proprie riscritture di centinaia di pagine. Ha cancellato il tempo, avvicinando il passato e il presente, schiacciandoli in una dimensione stilistica scarnamente barocca. Continua a girare il mondo da un museo all’altro, da un concerto all’altro, come a perdersi in un tour intellettuale che non ha inizio e fine, a sublime disprezzo di un mondo di grammatiche perdute, di ignoranze indotte, di sciocchezzai ripresi ovunque. Compreso quello stracitato “signora mia”: giochetto diventato l’icona di tutte le volgarità del mondo».

Nessuno come Arbasino ha saputo raccontarci il fiammeggiante Gadda e la sua identità, il suo disagio che colmava con l’ironia, la sua angoscia esistenziale, le sue fissazioni, il suo sfuggire alla società e al mondo.

Indimenticabile il suo abbandono della cerimonia del premio letterario Boccaccio prima ancora della sua conclusione il 10 settembre 2011, affermando: “Sono qui da due giorni a sentire fanfaluche e convenevoli. Io questo premio non lo voglio, tenetevelo, me ne vado”. Abbiamo un vago motivo di credere che personalità come la sua farebbe non poca fatica in uno dei tanti  sterili e rissosi dibattiti televisivi di oggi.

Carlo Emilio Gadda: l’ingegnere “aggrovigliato”

Nato a Milano in una famiglia borghese, la vita di Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) è stravolta dalla morte del padre, nel 1909, poiché la madre costringe i propri figli a durissimi sacrifici per mantenere un regime di vita adeguato alle apparenze della borghesia lombarda. Simbolo di questo desiderio sociale è la Villa di Longone, costruita dal padre con investimenti folli, per ostentare l’alto tenore di vita borghese. Ogni decisione familiare è subordinata alla ricerca di persistere in quello status symbol: è per questo che Gadda è costretto ad abbandonare le vocazioni letterarie per iscriversi a ingegneria. Tali elementi biografici sono alla base della nevrosi dell’autore, diviso tra l’amore per la propria madre, e l’odio per la stessa.

Gli studi universitari furono interrotti nel 1915 per la chiamata alle armi. Le esperienze della guerra in trincea e della prigionia si rivelano decisive per la formazione della personalità gaddiana, aggravando la sua depressione già resa insostenibile dalla morte del fratello Enrico, visto da sempre come un vero e proprio mito personale contro il quale misurare la propria impotenza e inutilità. Ottenuta la laurea in ingegneria, si guadagna da vivere facendo l’ingegnere, lavoro che lo porta a viaggiare molto, sino a Firenze, dove entrerà in contatto con l’ambiente di “Solaria” e con Montale, da sempre considerato un mito verso il quale si considera “goffo”. È l’inizio dell’esperienza letteraria di Gadda, pubblicando le sue prime prose narrative. Alla morte della madre,  lo scrittore vende la villa di Longone e avrà i soldi e il tempo per dedicarsi a un’opera rimasta incompiuta, che ripercorre la sua giovinezza e i difficili rapporti con la madre. Tra il 1940 e il ’50 vive stabilmente a Firenze, dove trascorre uno dei periodi più fertili e creativi della sua vita, infatti tra il ’46 e il ’47 pubblica a puntate su <<Letteratura>> la prima edizione di “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”, ripubblicato poi in un volume unico nel 1957.

Nel 1950 si trasferisce a Roma, dove inizia a lavorare come responsabile culturale nei programmi Rai. Dedica gli ultimi anni della sua vita a un intenso lavoro di risistemazione e pubblicazione delle sue opere, sempre avvolto nell’isolamento e nella sofferenza causata dalla nevrosi. Muore nel 1973.

La formazione culturale di Gadda è influenzata dall’illuminismo, imperniata sull’amore per la razionalità e l’ordine tipico della borghesia imprenditoriale, in contrasto con l’intricata situazione familiare e sociale del giovane  scrittore. Tuttavia, dopo la delusione bellica, l’autore si scaglia contro la borghesia che, ai suoi occhi, assume le sembianze di un’inetta attrice di un tradimento storico: in ogni opera critica i ceti dominanti e ogni modello concreto di ordine con parodia e sarcasmo, in favore di modelli e valori del passato, riprendendo il concetto di stato di Cesare. Da qui la celebrazione di tutte le forme di vitalità (per di più adolescenziali e femminili) orientate contro la morale repressiva borghese: benché Gadda fosse spaventato da ogni forma di disordine si trova alla fine a patteggiare per chi sovverte ogni sistema. In conclusione, tanto l’ordine quanto il disordine spaventano l’autore in egual misura.  Egli si fa portavoce del declino degli intellettuali tra la prima guerra mondiale e il fascismo, rifiutando con disprezzo l’idea del poeta vate dannunziano. Scrivere rappresenta la dura lotta con la realtà esterna con cui l’io deve misurarsi.

per lui il mondo è un groviglio caotico di cose e fenomeni che rende impossibile e ridicolo ogni tentativo dell’io di fondare giudizi sulla propria soggettività, dato che è lo stesso soggetto ad essere elemento di disordine e irrazionalità all’interno di un caos infinito. Se, dunque la scrittura è conoscenza del reale, l’unica realtà conoscibile per mezzo della lingua è proprio la realtà linguistica, per questo Gadda, attraverso un linguaggio sia tecnico che gergale, aspira a ricostruire le innumerevoli relazioni della realtà, mescolando i codici linguistici, abbandonando la lingua unica, in favore della frammentarietà linguistica che serve per rappresentare la frammentazione caotica della realtà e delle sue possibili chiavi interpretative.

Contini  ha definito la scrittura di Gadda con il termine francese <<pastiche>>. Infatti, l’effetto artificiale della lingua gaddiana ha la funzione di mettere in rilievo, grazie allo straniamento linguistico, il non senso della normalità.

Lo stesso corpus dell’opera gaddiana si presenta come un caotico groviglio, anche i racconti più importanti sono spesso definiti porzioni di scritture più vaste, parti di un tutto che manca. Accade così che anche l’insieme dell’opera gaddiana partecipi alla rappresentazione del caos e l’impossibilità di dominarlo, proprio come accade in ogni singola sua composizione. Questi elementi hanno fatto accostare Gadda a scrittori come Rabelais e Joyce.

OPERE

 

la cognizione del dolore

 Morta la madre nel 1936, Gadda affronta la propria nevrosi familiare scrivendo nel 1937 “La cognizione del dolore”. Il libro si apre con una immaginaria conversazione tra Autore ed Editore e si chiude con la poesia Autunno, definito il testamento di Gadda. La mancata adesione alla struttura tradizionale del giallo, fa si che al lettore sia consegnato un testo lirico anziché l’assassino. La vicenda è ambientata in un immaginario paese del sud America (facilmente identificabile con l’Italia) uscito vincitore dalla guerra contro un paese confinante (evidentemente l’Austria). I protagonisti della vicenda sono Gonzalo ingegnere nevrotico e depresso (doppio di Gadda) e sua madre, chiamata “La signora”. Questi dopo la perdita del capofamiglia e di un fratello di Gonzalo vanno a vivere in una villa (chiaro richiamo alla biografia dell’autore milanese e alla villa di Longone).

La madre intende aprire le porte della propria villa per impartire lezioni di francese alla gente del posto, per colmare il vuoto lasciato dalla morte precoce degli altri componenti della famiglia, Gonzalo è del tutto restio a questa apertura, e intende lo spazio domestico come il luogo chiuso nel quale trova protezione dall’orrore e dalla volgarità del mondo esterno. In questo desiderio nevrotico di chiusura convergono: il timore che la madre vecchia e ammalata, possa aggravarsi e una gelosia evidentemente edipica. L’uccisione della madre avviene in situazioni misteriose e Gadda non ci fornisce la risoluzione del caso. Una delle probabili soluzioni è il matricidio: l’uccisione della madre si presenta come folle possibilità di liberazione dal vincolo nevrotico. La nevrosi di Gonzalo denuncia i limiti della società borghese e i suoi malati rapporti d’affetto. Questa condizione pare alludere a quella del ceto intellettuale nel ventennio fascista, con un pessimismo senza riscatto: se la letteratura è forma di conoscenza (e quindi di cognizione) l’unica realtà da essa conoscibile sarà quella del dolore.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

 Nel 1946 Gadda decide di lavorare a un racconto giallo, “Quer paticciaccio brutto di via Merulana” prendendo spunto da un fatto di cronaca: l’omicidio ad opera di un ex-domestica, di due vecchie signore romane. Nello stesso anno l’opera esce sulla rivista <<Letteratura>> in 5 puntate per poi uscire nel 1957 in un edizione unica priva di conclusione. Sebbene Gadda avesse promesso un continuo dell’opera con un altro libro, vi rinuncia dichiarando che l’opera è letterariamente compiuta, poiché essa è espressione di quel pasticciaccio cui allude il titolo: il nodo, groviglio o gnommero (gomitolo in romanesco) degli eventi fortemente correlati e privi di una risoluzione. “Il pasticciaccio” è il delitto di via Merulana emblema del caos e della terribilità delle cose.

La vicenda si svolge a Roma, nel febbraio del 1927, anno in cui Mussolini instaura il regime fascista: l’ordine deve regnare ovunque. Il commissario Ciccio Ingravallo, 35enne dai capelli neri arruffati, simbolo di quel garbuglio si occupa di un furto ai danni della Contessa Menegazzi avvenuto in Via Merulana, zona ricca e borghese. Pochi giorni dopo si consuma un orrendo delitto nell’appartamento di fronte a quello del furto: l’uccisione di Liliana Balducci, amica di Ingravallo per la quale egli prova ammirazione e amore quasi viscerale.

“Il pasticciaccio” è stato un vero e proprio caso letterario, incentrato soprattutto sull’utilizzo del dialetto. Da quel momento qualsiasi esperimento linguistico doveva fare i conti con Gadda e i continuatori di questa scuola furono chiamati da Alberto Arbasino i nipotini dell’ingegnere”.

Molte sue opere  inedite vengono pubblicate durante la Neoavanguardia : “I viaggi e la morte”, “Verso la certosa”,   “Eros e Priapo”, “La meccanica”.

 

Exit mobile version