‘Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica’ dal 13 giugno a Verbania

Il Museo del Paesaggio riapre la stagione espositiva con la mostra Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica con opere provenienti dalla collezione del Museo e da una collezione privata milanese, a cura di Elena Pontiggia e di Federica Rabai, direttore artistico e conservatore del Museo.

L’esposizione inaugura presso gli spazi di Palazzo Viani Dugnani a Verbania sabato 12 giugno alle ore 11.30 e resterà aperta fino al 3 Ottobre.

In mostra oltre 90 opere, per lo più di grafica, dei due grandi artisti del Novecento italiano che si sono distinti e affermati proprio grazie all’invenzione di un nuovo linguaggio in pittura e scultura. Completa il percorso dedicato al mito e alla visione una serie di sculture di Arturo Martini, presentate accanto ai bozzetti, ai disegni e alle incisioni.

Carrà. L’opera grafica

In mostra sono esposte circa cinquanta tra acqueforti e litografie a colori, che comprendono tutti i più importanti esiti dell’artista. Si va dagli incantevoli paesaggi dei primi anni venti, tracciati con un disegno essenziale e stupefatto (Case a Belgirate,1922), alla suggestiva Casa dell’amore (1922), fino alle visionarie immagini realizzate nel 1944 per un’edizione di Rimbaud, in cui Carrà, sullo sfondo della guerra mondiale, rappresenta angeli, demoni, creature mitologiche e figure realistiche, segni di morte ma anche di speranza (Angelo, 1944).  Fin dagli inizi, inoltre, Carrà avvia grazie all’incisione un sistematico ripensamento della sua pittura, che lo porta a reinterpretare con acqueforti e litografie i suoi principali capolavori, dalla Simultaneità futurista alle Figlie di Loth, dal metafisico Ovale delle apparizioni al Poeta folle. L’incisione diventa così per l’artista un momento di verifica, ma anche uno struggente album dei ricordi.

Carlo Carrà La casa dell’amore II o Interno o La massaia 1924

La Stagione iniziale (1922-1928)

Le prime incisioni di Carrà – tutte acqueforti, con l’unica eccezione della litografia I saltimbanchi, destinata a una cartella edita a Weimar dal Bauhaus – risalgono al 1922-1923. E’ però nel 1924 che l’artista si dedica sistematicamente all’incisione, grazie agli insegnamenti di Giuseppe Guidi, che quell’anno aveva aperto un laboratorio calcografico nella sua stessa casa, in via Vivaio 16 a Milano. Esegue infatti trentatré acqueforti e stampa i rami che aveva inciso, ma non impresso, nel biennio precedente.

Carrà adotta un segno sintetico, duro, capace di esprimere il suo mondo di figure e luoghi sottratti al tempo. E’ soprattutto il paesaggio ad attrarlo, che vuole trasformare in “un poema pieno di spazio e di sogno”. Fin dagli inizi, però, l’incisione serve a Carrà anche per rielaborare opere precedenti, in un’incontentabile ricerca espressiva. Questa fervida stagione iniziale ha un’appendice nel 1927-1928, quando Carrà, che in quel periodo aderisce al gruppo del “Selvaggio” (la rivista toscana animata da Maccari, a cui sono vicini Soffici, Rosai, Morandi e altri artisti) esegue litografie e acqueforti caratterizzate da un linguaggio più pittoricistico.

La Stagione delle Litografie (1944-1964)

Nel 1944, dopo un intervallo di sedici anni dalle ultime incisioni, Carrà torna a dedicarsi alla grafica. A differenza degli anni Venti, quando aveva praticato soprattutto l’acquaforte, ora è la litografia a impegnarlo, sia in bianco e nero che a colori.

Le tavole di Carrà si raggruppano quasi sempre in progetti articolati. Nel 1944 pubblica la cartella Segreti, in cui prende vita un paesaggio trasognato (il lago di Como, visto da Corenno Plinio dove l’artista era sfollato nel 1943) immerso in una quiete irreale.

Sempre in questo periodo si dedica intensamente all’illustrazione. Nello stesso 1944 esegue dodici tavole per Versi e prose di Rimbaud, dove compare un mondo di angeli, demoni e segni di morte (riflesso dei tragici momenti della guerra). Nel 1947 illustra L’Après-midi et le Monologue d’un Faune di Mallarmé, tradotto da Ungaretti.

A partire dal 1949, ormai alla soglia dei settant’anni, ripensa invece sistematicamente alla propria opera.

Nella cartella Carrà 1912-1921 (Venezia 1950) e nei due album Carrà n. 1 e n. 2 dei primi anni Sessanta riprende opere del periodo futurista, primitivista e metafisico. Tutto il corteo di muse e maschere inquietanti nate quaranta-cinquant’anni prima gli si ripresentano alla memoria con la levità di un dagherrotipo, o con cromatismi leggeri e impalpabili. Come apparizioni.

Arturo Martini. L’opera pittorica e grafica

Alla fine degli anni trenta Martini prende sistematicamente a dipingere, accettando la sfida di un linguaggio per lui quasi nuovo, di cui deve assimilare pazientemente la tecnica.

In pittura non è il maestro celebrato, ma un principiante che parte quasi da zero e conosce imperfezioni, incertezze, fallimenti. Certo, in passato, soprattutto da giovane, aveva eseguito disegni, incisioni e anche qualche quadro, ma quelle prove non bastano a dargli la padronanza del mestiere e nelle sue lettere alla moglie Brigida rivela tutte le sue ansie, insieme alle sue speranze.

“Non mollo l’osso, devo spuntarla, deve nascere la mia pittura” le scrive e più tardi: “Mi par d’aver trovato con questa nuova speranza la vita, perché di scultura non ne potevo più, ero nauseato”.

Il 17 febbraio 1940 alla Galleria Barbaroux di Milano, Martini inaugura la sua prima mostra di pittura. Ventitré quadri, dipinti tutti nel 1939 tra Vago, Burano e Milano.

“E’ certo l’avvenimento maggiore della cronaca artistica dell’annata […] Martini ha raggiunto […] i gradini più alti della pittura contemporanea” aggiungeva euforico Guido Piovene, allora critico d’arte del Corriere della Sera.

“Il risultato è stato inaspettato, la critica entusiasta […] le vendite al modo che si comperasse pane in periodo di carestia” riconosceva anche Martini.

Preceduta in gennaio da un articolo trionfale, sempre di Piovene, sul diffuso supplemento del Corriere (“Martini è un grande scultore, ma da questo momento v’è un grande pittore in più”); governata da una concezione idealistica dell’arte, secondo cui i generi non contano e “i buoni scultori sanno anche disegnare”, la critica non aveva lesinato le lodi per quelle tele che univano il segno approssimativo dell’espressionismo lirico a una solidità appunto da scultore.

Anche un osservatore esigente come Savinio giudicava i quadri di Martini “rapidi, poetici, geniali”.

Arturo Martini La siesta 1946

Le circa quaranta opere in mostra sono comprese tra il 1921 e il 1945 coprendo tutta la carriera dell’artista, a iniziare dal lavoro a matita su carta Il circo del 1921 circa, importate disegno del momento di “Valori plastici” quando Martini è molto prossimo a Carrà e in genere a una personale rivisitazione della congiuntura metafisica.

Ricorda la grafica di Carrà per i corpi bloccati dentro un segno sigillante, e, nel contempo, sembra di cogliervi un’eco di Parade di Picasso, il grandioso sipario eseguito a Roma nella primavera del 1917 quando anche Martini frequentava sporadicamente la capitale.

Segue Carnevale del 1924, incisione pubblicata sulla rivista “Galleria” accompagnata da una breve poesiola non-sense sul “Carne-vale”. Si differenzia per levità di tratto dalle coeve xilografie pubblicate sulla stessa rivista, caratterizzate invece da tratti pesanti e scultorei.

Nel 1942 realizza 11 disegni preparatori – tutti in mostra – del Viaggio d’Europa per l’illustrazione dell’omonimo racconto di Massimo Bontempelli.

Tra questi disegni preparatori e la versione definitiva delle illustrazioni c’è lo stesso rapporto che sussiste tra i bozzetti delle opere monumentali e l’esito finale.

Rigidi e puramente orientativi questi “bozzetti” sono serviti a Martini per un primo approccio al soggetto del racconto bontempelliano e, pur testimoniando la presenza di alcuni topoi martiniani – il dormiente, l’incontro di due figure, gli squarci spaziali – e di un generale clima “metafisico”, è evidente il loro carattere provvisorio e di studio.

Illustrazioni dell’Odissea

Del 1944-45 sono il gruppo di incisioni predisposte da Martini per l’illustrazione della traduzione italiana dell’Odissea a cura di Leone Traverso, poi non pubblicata.

Eseguite a Venezia, rivelano un lato straordinario della versatile fantasia martiniana, anche qui orientata a sperimentare materiali “poveri” e linguaggi poveri, al limite tra immagine e pura suggestione timbrica. Pubblicate postume soltanto nel 1960 sono tra le prove più convincenti della grafica martiniana.

Accanto a queste prove dell’artista sono esposte dieci sculture come La famiglia degli acrobati, Can can, Adamo ed Eva, Ulisse e il cane, Testa di ragazza, Busto di ragazza e tre tele: Sansone e Dalila, La siesta e Paesaggio verde per rafforzare il tema della differenza tra disegno e realizzazione finale delle opere, pezzi unici di grande valore storico e artistico.

 

Profetico Boccioni, movimentista, fulcro propositivo dell’indirizzo futurista nel poderoso studio di Roberto Floreani ‘Umberto Boccioni Arte-Vita’

«Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana. L’occhio dell’uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi, e le opere pittoriche saranno emanazioni luminose, gas colorati, che sulla scena d’un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l’anima complessa d’una folla che non possiamo ancora concepire». Questa precisa raffigurazione dello scenario artistico moderno viene da un nostro eccellente contemporaneo: Umberto Boccioni. Un contemporaneo dello spirito, un autore postumo a se stesso, per dirla con l’amato Nietzsche, una cartina tornasole della modernità e delle sue contraddizioni. A offrire una lucida esegesi di questo gigante dell’Avanguardia interviene il poderoso studio di Roberto Floreani, Umberto Boccioni Arte-Vita (Electa Mondadori, Milano 2017).

Una ricerca che è, di fatto, un viaggio nella potenza dissidente e dissacrante di un dinamitardo del Novecento, un anello di congiunzione fra artisti, prospettive, visioni del mondo e, insieme, foriero di un’insanabile frattura: quella delle categorie stesse dell’Occidente tradizionalmente inteso. Sì, perché a emergere dalla prosa di Floreani è un Boccioni sfaccettato, complesso, mai riconducibile a un principio d’individuazione univoco. È il Boccioni privato, scisso nella sua interiorità di moderno, tormentato dal rapporto col mondo femminile e con la propria stessa autopercezione; è il Boccioni movimentista, fulcro propositivo dell’indirizzo futurista, inesausto autore di Manifesti, raffinato e profetico teorico dell’estetica moderna; è il Boccioni pittore, genio capace di oltrepassare il retaggio divisionista per giungere a un’astrazione matura ed espressiva, incentrata sulla dinamicità delle forme, nonché l’eccellente scultore, creatore di opere, perlopiù andate distrutte, in cui sono raggiunti risultati sperimentali destinati a ripresentarsi solamente negli anni Sessanta; è il Boccioni-simbolo, l’incarnazione corporea di uno Zeitgeist, la congiunzione fra virulenza, sensualità carnale e sensibilità spirituale, ricerca introspettiva, incessante labor limae; è, infine, il Boccioni avanguardista, raffinato cartografo della coscienza occidentale e preveggente anticipatore di un indicibile e misterioso afflato che sarà pervasivo delle principali espressioni artistiche del Secondo dopoguerra: dall’anti-teatro di Carmelo Bene alle istanze spazialiste e spiritualiste di Lucio Fontana, dall’attitudine ribelle dell’Arte Povera allo stile comunicativo di Andy Warhol, sino ad approdare all’anticonformismo di Mario Schifano.

Le considerazioni di Floreani sull’eredità boccioniana sono indubbiamente mature: non si tratta di leggere l’intero percorso della contemporaneità come consapevole, diretta emanazione dell’Arte-Vita futurista, bensì di comprendere all’inverso come tante istanze delle poetiche più spregiudicate degli ultimi decenni siano già presenti in nuce nell’anticipatrice prassi estetica di Boccioni. Il Futurismo ha concluso il suo percorso storico nel 1944, con la morte di Filippo Tommaso Marinetti, ma le sue travolgenti cariche eccentriche e antisistemiche riemergono progressivamente, come un fiume carsico, nello scenario artistico occidentale – lo stesso titolo della Biennale Arte di Venezia del 2017, Viva Arte Viva, non strizza forse l’occhio all’indimenticabile formulazione boccioniana?
Che poi spesso la sintassi autenticamente rivoluzionaria del Futurismo sia stata convertita a posteriori in una significazione annacquata, funzionale allo status quo, fuorviata da una rilettura progressista e democratica della stessa nozione di Avanguardia, è un fatto indubbio. Rimane la testimonianza di Boccioni, di questa leggenda giovane ma non affetta da giovanilismo, di cui Floreani offre un quadro a tutto tondo. Vi riesce, non a caso, in quanto egli stesso pittore.

Contro i professori, ancora una volta, tuona potente l’adagio futurista. Il testo può così essere letto come un meta-dipinto, una tessitura linguistica di uno schizzo visivo immaginifico: Boccioni trasfigurato dalla penna di Floreani così come nelle campitura delle sue tele astratte. Al centro, saldo, un perentorio messaggio: «L’Arte deve divenire una funzione della vita», «se non si riesce a rimettere l’Arte nella vita, i posteri rideranno di noi». Tutto lo studio – come la biografia di Boccioni – non è che una danza attorno a questa lirica affermazione. Ecco allora il confronto con l’infanzia e la travagliata giovinezza del futurista, con la sua spontanea vocazione artistica che lo porta a stringere amicizia duratura con Gino Severini.
Floreani ci conduce poi fra i taccuini boccioniani, stretti fra la denuncia del provincialismo italiano e la lacerante tensione spirituale, fra gli accessi nietzscheani e le iperboli amorose, sino alle dichiarazioni programmatiche: l’artista intende procedere

cantando questa nostra epoca moderna, così odiata da quasi tutti gli artisti […] ora il gran cuore e la gran mente dell’umanità va verso una virilità che è fatta di precisione, di esattezza […] il mondo comincia una nuova era e vuole della sostanza, in altre parole l’Arte deve diventare una funzione della vita.

Un’utopia – a tratti ingenua – di una modernità altra da quella storicamente affermatasi. Un’altra modernità futurista, quella immaginata da Boccioni, tradita dagli epigoni del modernismo ma ancora riecheggiante, talvolta, in certe oasi del nostro desertico paesaggio. «All’uomo non resta che lo spirito. Tutto va verso lo spirito» appunta il giovane Boccioni, che, per dirla con Floreani, si va trasformando in una sorta di artista-monaco e, di qui a pochi anni, in artista-monaco-guerriero, come nei templi Shaolin della profonda Cina.
Un’immagine che compendia l’intero arco esistenziale di Boccioni: dall’ascesi artistica individuale all’incontro con altri esteti dell’eccesso – Marinetti, Carrà, Russolo, Balla su tutti –, dalla nascita del movimento futurista, con i Manifesti, le mostre internazionali, le serate futuriste e la ribalta agli onori della cronaca, fino alla partecipazione alla Grande Guerra. Modernolatria, patriottismo, culto della velocità, volontarismo, rifiuto della democrazia, feroce critica alla borghesia. Questo fu il Futurismo. Ma anche, e qui le osservazioni di Floreani vanno molto in profondità, esigenza di senso, ricostruzione mistica dell’universo, consapevolezza – chiarissima in Boccioni – che la vita risiede nell’unità dell’energia, che siamo dei centri che ricevono e trasmettono, cosicché siamo indissolubilmente legati al tutto, che, persino, il nostro trascendentalismo fisico è un […] primo passo verso la percezione di […] fenomeni finora occulti della nostra sensibilità ottusa.

Boccioni, catalizzatore per il coinvolgimento degli artisti nel Futurismo su preciso mandato di Marinetti, riunisce in sé queste diverse componenti. Ne fa polarità feconda, caos da cui partorire la stella danzante evocata da Nietzsche. Un astro che porta primariamente il segno della rivendicazione poliforme dell’opera d’arte totale: «Senza Boccioni – scrive Floreani – il Futurismo non avrebbe probabilmente intrapreso la multidisciplinarietà con tale slancio e qualità intrinseca, in modo così convincente e rivoluzionario». Questa sorta di «alter ego di Marinetti, ma più medianico, più profetico, più rigoroso» segnerà più di ogni altro, con la sua ricerca di una sintesi fra particolare e universale, la storia del Futurismo.
Lo ricordano con efficacia i numerosi pezzi commemorativi pubblicati sull’ormai storica testata «Futurismo-Oggi» negli anni ’70 e ’80: l’amore per le sue «creazioni dinamiche di fuoco, di forza, di fede» (Eva Kuln Amendola/Magamal Futurista) si mostra nei “Comitati W BOCCIONI!” e nei riconoscimenti che la redazione del “Periodico mensile per i giovani futuristi italiani diretto da Enzo Benedetto” frequentemente concede all’artista. Così, nel nuovo millennio, tornare a Boccioni significa tornare a confrontarsi con la scintilla mai sopita del genio italiano ed europeo. Uno stile, quello delle scintille dell’Arte-Vita, con cui infiammare un presente quanto mai fosco.

 

L’intellettuale dissidente

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