A Raymond Carver piaceva la marmellata di more?

Nella prefazione all’edizione Einaudi di Cattedrale di Raymond Carver (ahimè ho fatto l’errore di comprare questa edizione e non quella di minimum fax, come molti miei amici mi rinfacciano), Francesco Piccolo scrive di essere rimasto scioccato quando, aprendo la prima pagina del primo racconto “Penne”, ha scoperto che questo iniziava con le parole «Questo amico». Come se il racconto volesse lasciarsi alle spalle – non detto, sottinteso – tutto il trascorso passato fra il narratore e questo suo amico Bud. Ed è vero, leggendo le prime pagine di “Penne” ci ritrova con questa sensazione, sebbene ciò che mi ha lasciato letteralmente senza parole riguardo quel racconto arriva verso la fine. Prendo in considerazione questo breve paragrafo, che arriva dopo la serata a casa di Bud e Olla, dopo l’incontro col figlio e con il pavone; ma prima di «tutta quella storia»:

In seguito, quando le cose tra noi sono cambiate, ed è arrivato nostro figlio, insomma, tutta quella storia, Fran considerava quella serata a casa di Bud come l’inizio del cambiamento. Ma si sbaglia. Il cambiamento è avvenuto più tardi; e quando è successo era come se stesse succedendo ad altri, non come qualcosa che poteva succedere a noi.

I primi tre anni di vita Carver li passò nella piccola cittadina di Clatskanie

Perché sono rimasto senza parole? Perché mi è passato per la mente “cavolo, mi sembra di non aver mai letto nient’altro prima di questa frase”, nonostante quella che posso definire “esperienza Wallace” di qualche giorno fa con La scopa del sistema?

Essenzialmente perché in questo paragrafo si affermano, si sottintendono, si lasciano intravedere cose ed eventi che accadranno ma che non vengono descritti da Carver. Non qui, non ora. Mai, in verità. Cosa ci dice Carver con questo paragrafo? Che la situazione di apparente e stabile felicità del protagonista e della moglie Fran vengono a mutare con una serata; che l’incontro col «bambino brutto» di Bud e Olla ha smosso qualcosa, ha provocato uno scarto minimo nell’esistenza dei due, scarto che ha portato a cambiare le cose e a «tutta quella storia» (non detta).

E poi c’è il disincanto di una frase potente come «quando è successo era come se stesse succedendo ad altri»: accettazione del cambiamento nella prima parte, disincanto nella seconda. Una frase e il mondo cambia; una frase e niente è più come prima. E non importa quale sia questo cambiamento, avverrà ma non è rilevante per il lettore. Non importa neanche quale sia la condizione di partenza dei protagonisti, è avvenuto ma è anch’esso non rilevante per il lettore. È di rilievo piuttosto che un evento attuale, stavolta non rilevante per il protagonista, viene a essere la chiave di volta, l’inizio del cambiamento, il ponte fra il passato e il futuro; e questo evento, invece, che Carver ritiene rilevante per il lettore.

Qualcosa di simile accade in “Febbre”. Per qualche motivo Eileen, la moglie di Carlyle, se n’è andata di casa lasciando il marito con i due figli. Tutta la storia ruota intorno agli sforzi di Carlyle di trovare una baby-sitter e di destreggiarsi fra loro, il lavoro, una sua collega per cui l’uomo prova un’attrazione e l’amore non sopito verso la moglie. Poi all’uomo viene una banale febbre, e gli accade di passare un giorno intero dentro casa insieme alla signora Webster, l’attuale baby-sistter/domestica. Trenta pagine scorrono così, niente accade di rilevante fino all’ultima pagina, quando

La signora Webster [andandosene dalla casa dell’uomo] si girò verso Carlyle e lo salutò con la mano. Fu allora, in piedi alla finestra, che lui sentì che qualcosa era arrivato alla fine. Qualcosa che aveva a che fare con Eileen e la vita prima di allora. L’aveva mai salutata con la mano? Naturalmente doveva averlo fatto, qualche volta, anzi senz’altro, però ora non se lo ricordava proprio. Ma si rese conto che ormai tra loro era finita e si sentì in grado di lasciarla andare.

E dunque le trenta pagine precedenti – tutte le telefonate deliranti di Eileen, la storia delle due precedenti baby-sitter, le preoccupazioni per il lavoro – si dissolvono così, in qualcosa che non è spiegabile ma che accade, prima o poi. Un segno del cambiamento, più che il cambiamento stesso.

Quella inutile, fastidiosa macchia sul muro

È come se, durante un trasloco importante, magari in un altro Stato per questioni di lavoro, ci si concentrasse sulla macchia di muffa presente dietro un quadro appena staccato. La macchia è lì, ci fissa, e ci viene alla mente di quella volta che comprammo il quadro per coprire la macchia appena giunti dentro la nuova casa, e di quel piccolo bisticcio avuto col nostro partner per la scelta del quadro (noi volevamo un dipinto di Van Gogh, il partner un’immagine bucolica). Il trasloco è imminente, la nostra vita sta per cambiare in qualche modo, il rapporto col nostro partner è qualcosa di diverso – di irriconoscibile – rispetto a vent’anni fa, eppure ciò che attira la nostra attenzione è quella macchiolina lì sul muro. Simbolo di un cambiamento avvenuto e che sta per avvenire, ma che non c’è ancora.

Eppure, tutto ruota intorno al dettaglio della macchia.

Ecco, questa è la potenza incontenibile di Raymond Carver.

(Ci sarebbe in effetti da soffermarsi sul racconto che dà il titolo alla raccolta – e che nelle ultime due pagine è stato in grado di tirarmi fuori delle lacrime, cosa che non mi accadeva da anni leggendo un libro –, ma sarebbe decisamente poco carveriano, no?)

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