Addio ad Arthur Hiller, regista di ‘Love Story’

Arthur Hiller, regista canadese figli di immigrati ebrei polacchi, si è spento ieri a Los Angeles all’età di 92 anni. Il mondo del cinema piange dunque uno dei suoi registi più romantici, passato alla storia per la pellicola strappalacrime Love Story (1970) con Ali MacGraw (Jim, l’irresistibile detective, La ragazza di Tony, Getaway!) e Ryan O’Neal (Paper moon, Barry Lyndon, Vecchia America, Quell’ultimo ponte). La trama è arcinota: lui, studente di buona famiglia in un college che s’innamora di una ragazza di origine italiana e non benestante. Convolano a nozze contro la volontà dei genitori di lui. La ragazza muore di leucemia su un letto d’ospedale pronunciando le celeberrime ed indimenticabili parole rivolte al suo amato: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”.

Alla sua uscita Love Story (1 Oscar e 6 nominations) venne bollato da gran parte della critica come uno dei momenti più convenzionali e retrivi del sentimentalismo cinematografico, ma agli spettatori il film piacque molto e riscosse un grande successo al botteghino e probabilmente Arthur Hiller è stato molto più profondo e sensibile di quanto si possa pensare, intendendo raccontare l’amore vero, senza tattiche, tra due giovani universitari che si amano e basta e l’ottusità di una ricca famiglia piena di pregiudizi, cui importa solo la reputazione e l’apparenza. Senza dubbio Love Story poggia su una narrazione poco consistente e stereotipata che la rendono un prodotto ben confenzionato, per qualcuno ricattatorio (data la malattia di lei), farcito di frasi ad effetto, con lo scopo di commuovere e far piangere. E ci riesce, a meno che non si abbia un cuore di pietra.

Arthur Hiller ha diretto più di 70 film dal 1957 fino al 2006 spaziando da commedie, a film drammatici, passando per storie di guerra, satire e musical, tra cui meritano particolare menzione Non guardarmi, non ti sento, Le ali della notte, una strana coppia di suoceri, Un provinciale a New York, e portando cinque diversi attori alla nomination per l’Oscar: O’Neal, MacGraw, George C. Scott, Maximilian Schell e John Marley. Il regista ha vinto per volte l’ambita statuetta dorata.

Arthur Hiller ha avuto i primi contatti con il mondo dello spettacolo proprio grazie ai suoi genitori, che avevano fondato un’organizzazione teatrale per spettacoli in Yiddish. Sua moglie Gwen Hiller, conosciuta sui banchi di scuola, se n’era andata lo scorso giugno all’eta di 92 anni. Il romantico Hiller le aveva chiesto di sposarlo quando aveva otto anni e la loro unione è durata ben 68 anni.

L’eredità di Michael Cimino, genio anarchico

Michael Cimino, anarchico e visionario regista italo-americano passato alla storia del cinema per il capolavoro Il cacciatore, si è spento il 2 luglio scorso all’età di 77 anni a Los Angeles circondato dai suoi cari. Una morte inaspettata soprattutto se si pensa che in occasione dello scorso Festival di Locarno ad agosto, il regista era apparso sereno ed entusiasta della calda accoglienza da parte del pubblico.

Michael Cimino: genio visionario, da regista di successo a reietto

Nato a New York da genitori laziali, il cinefilo appassionato di architettura e laureato in Arti Grafiche a Yale Michael Cimino, durante la sua tribolata carriera ha girato solo 7 film più un cortometraggio, tra i quali si ricordano maggiormente il cult-movie premiato con 5 Oscar Il cacciatore (1978), I cancelli del cielo (1980), passato alla storia per aver portato la United Artist al fallimento e L’anno del dragone (1984). Il suo aspetto estetico, da anni oggetto dei più disparati commenti, era quello di un uomo magrissimo, fragile, efebico e pallido, dal viso deturpato da diversi interventi di lifting, coperto dagli inseparabili occhiali scuri. Probabilmente Cimino non ha mai superato del tutto il torto subito ai tempi dell’epico e prolisso I cancelli del cielo, flop di incassi che lo ha condannato all’isolamento da parte degli addetti ai lavori e degli amici, trasformandolo da genio osannato a reietto.

Per la realizzazione de I cancelli del cielo, pellicola oggi rivalutata e considerata da molti un capolavoro, Michael Cimino aveva avuto carta bianca dalla United Artists, na aveva sforato il budget passando da 12 a 36 milioni. La produzione navigava già in cattive acque ma un libro incolpò Cimino e la sua megalomania (addirittura si narra che facesse i provini persino ai cavalli) il fallimento della United. Una falsità, dato che il film uscì per una settimana a New York, stroncato ferocemente dalla critica perché il regista raccontava un’America violenta, venne tagliato da 220 a 140 minuti e fu giustamente un fiasco. Raccontava lo stesso Cimino: “Quando entravo in un posto pubblico tra quelli che fino a ieri erano amici, collaboratori, calava il gelo, tutti mi voltavano le spalle”. Dopo averne sfruttato la creatività, ora lo condannavano a scrivere nell’indifferenza perpetua”.

Cimino era un’anima sensibile e vulnerabile vittima delle spietatezza e della stupidità della macchina hollywoodiana, di cui il regista italo-americano ha sfidato il bigottismo, prendendosi insulti raccontando storie con grande umiltà e rifiutando il politicamente corretto sin dagli esordi quando, nel 1974 scrive e dirige per Clint Eastwood il feroce noir Una calibro 20 per lo specialista. La fama di Cimino è ovviamente legata a Il cacciatore, tra i primissimi film a raccontare il dramma della guerra in Vietman, di quei giovani mandati al macello, e attraversato da un lirismo straziato e straziante che è stato purtroppo oggetto di pregiudizi politici prima e rivalutato poi. Il cacciatore non è foriero di un messaggio pacifico e di giudizi storico-politici, è un film attraversato da un profondo senso di morte e smarrimento, che è stampato nei volti degli straordinari protagonisti, volti alla ricerca di se stessi e di uno spiraglio di speranza per sopravvivere non della gloria o di riconoscimenti civili. In questo senso Michael, interpretato da un indimenticabile Robert De Niro, è un eroe proletario inconsapevole che, tornato in patria, non si compiace delle sue numerose medaglie ma cerca di salvare il suo amico Nick, rimasto a Saigon a rischiare ogni sera la vita nell’assurdo gioco della roulette russa.

Cimino, in diverse interviste, ha affermato che la lunga scena della tortura del gioco della roulette russa nella capanna-prigione compiuta dai vietcong ai danni dei loro prigionieri non è altro che la sintesi di quello che fu la guerra. Al regista non interessava raccontare la guerra del Vietnam in sé, ma trasmettere al pubblico l’emozione crudele di quello che doveva essere stato, la roulette russa è il simbolo del suicido dell’America. In questo senso la roulette russa diviene una metafora del suicidio di un intero popolo e Nick rappresenta la reiterazione di chi è incapace di superare un trauma. Solo Michael ci riesce, ma non potrà più riuscire a cacciare un cervo (spara il suo colpo in aria), ed ecco l’altra grande metafora esistenziale del film, la caccia: la filosofia di vita di Michael si basa sul “colpo solo” durante la caccia al cervo poiché l’animale non può difendersi e quindi al cacciatore spetta un solo colpo per abbatterlo.

Il cacciatore non è un film reazionario come fu tacciato all’epoca della sua uscita e come alcuni pensano ancora oggi, è un romanzo epico e malinconico che ritrae la vita degli operai della Pennsylvania per i quali la guerra del Vietnam rappresenta l’occasione per uscire dalla loro vita provinciale e periferica. Lascia parlare emotivamente il paesaggio Cimino grazie al grande lavoro realizzato sul colore e sulla luce e che incute nello spettatore un profondo senso di solitudine che si riscontra anche nel cinema di Visconti e di Kurosawa.

Il grande successo del Cacciatore rese Cimino uno dei registi più desiderati di Hollywood egli permise di avere a disposizione un budget altissimo per la realizzazione de I cancelli del cielo, un western eccesivamente lungo e vertiginoso ma anticonformista ed emozionante che getta ombre sulla storia della conquista della democrazia americana attraverso la storia della guerra nella contea di Johnson nel Wyoming che vede scontrarsi i grandi allevatori contro i contadini. Da quel punto in poi la strada per il regista diventò tortuosa: tra il 1985 e il 1990 il reietto d’America può esprimersi solo con il thriller nichilista L’anno del dragone, che riesce ad unire violenza (non gratuita) ed eleganza; Il siciliano, che racconta delle gesta di Salvatore Giuliano che nasce da un’ossessiva inverosimiglianza storica, unita a una rilettura del romanzo di Mario Puzo alquanto originale e il remake di Ore disperate, pellicola claustrofobica ma nel complesso poco riuscita. Dopo anni di silenzio, Cimino si presentò nel 1996 nel concorso di Cannes con Verso il sole, disuguale road movie che porta con sé un pizzico di mitologia.

Cosa rimarrà dell’ambizioso Michael Cimino? Un ampio respiro teso vero il tutto, verso il mondo: le inquadrature di Cimino, i suoi onnicomprensivi piani-sequenza per raccontare la fine del sogno americano, la sua fragilità, il suo anticonformismo, l’impeccabile direzione di attori come De Niro, Streep, Cazale (tra i protagonisti de Il cacciatore, e fidanzato di Meryl Streep morto di tumore prima che potesse vedere, ultimo simbolo della scuola newyorkese e del metodo Strasberg), Savage, Rourke, Bridges, Kristofferson, Huppert, Walken, il suo genio visionario e anarchico, la sua affascinante e al contempo triste parabola esistenziale e artistica.

5 frasi per amare Terrence Malick

Una filmografia scarna quella del regista Terrence Malick ma ricca di contenuti spietati, che non possono non far riflettere lo spettatore. Si potrebbe definire Malick un esistenzialista che ha sperimentato tecniche non convenzionali con i suoi ormai celebri montaggi e voci fuori campo, richiamandosi spesso a tematiche bibliche. Strenuo difensore della sua vita privata, il texano Terrence Malick non partecipa ad eveneti mondani né alle produzioni dei film, né concede interviste. Nella sua lunga carriera ha diretto solo nove film: La rabbia giovane (1973), basato sulla storia vera di due giovani serial killer, I giorni del cielo (1978), tragedia da Vecchio Testamento sul mito della terra promessa premiato per la regia al Festival di Cannes, La sottile linea rossa (1998), sulla battaglia più complicata della guerra del Pacifico, o meglio sulla disillusione umana, sui fenomeni della natura e sull’inevitabile legame dell’uomo con il male, premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Tematiche presenti anche in The new world-Il nuovo mondo (2006), storia della nascita di una nazione e della leggendaria principessa Pocahontas (nel film però è chiamata Rebecca), che ci  fa riscoprire una nuova America, senza pregiudizi; L’albero della vita (2011), affascinante e commovente opera mistica sul mistero della vita, probabilmente un capolavoro mancato, data la sovrabbondanza di parentesi filosofiche, scientifiche e religiose; To the Wonder (2012), visionario inno alla vita che ragiona sul rapporto uomo-donna e fede; Project (2013), non uscito in Italia come le pellicole Knight of Cups (2013) e il documentario Vojage of time (2014).

1.<<Se non ami, la tua vita passerà in un lampo>>. (L’albero della vita)

2.<<Bisogna preoccuparsi di un soldato solo quando smette di lagnarsi>>. (La sottile linea rossa)

3.<<Dovete amare, che vi piaccia o no. Le emozioni, vanno e vengono come nuvole. L’amore non è solo un sentimento, l’amore dovete dimostrarlo, amare significa correre il rischio del fallimento, il rischio del tradimento, voi pensate che il vostro amore sia morto, forse in attesa di essere trasformato in qualcosa di più alto. Risvegliate la divina presenza che dorme in ogni uomo, in ogni donna, conoscetevi l’uno l’atro nell’amore che non cambia mai>>. (To the Wonder)

4. <<Lei non si sente mai solo? Solo in mezzo alla gente>> (La sottile linea rossa)

5.<<L’amore… lo negheremo quando verrà a trovarci, non prenderemo ciò che ci viene dato>>. (Il nuovo mondo)

 

 

Frank Capra, cantore del New Deal e dell’America fiduciosa

Quando suo padre, povero contadino siciliano di quarantotto anni, emigrò per gli Stati Uniti d’America, Frank Capra (18 Maggio 1897, Bisacquino- 3 Settembre 1991, La Quinta, California), aveva cinque anni e non appena arrivato negli States cominciò a praticare i lavori più duri e di tutta la famiglia fu lui ad andare a scuola, iscrivendosi al Californian Institute of Technology, perché la matematica risultava facile a Capra che non voleva diventare un poeta, un umorista, ma un bravo ingegnere chimico.

Quando si parla di Frank Capra si pensa sempre al Capra degli anni Trenta e Quaranta, quello di E’ arrivata la felicità, de La vita è meravigliosa, di Accadde una notte, non a colui che ha inventato buona parte del cinema americano e internazionale (Pensiamo anche a film come La grande sparata del 1926, e all’Affare Donovan del 1929). Ma Frank Capra inizia per caso a fare il regista: dopo aver conseguito la laurea va soldato dato che gli Stati Uniti erano entrati in guerra e finita la guerra si ritrova senza lavoro, si mette a fare i lavori più disparati per mantenersi sino al giorno in cui si ritrova a San Francisco con un conto d’albergo da pagare e i bagagli chiusi a chiave in camera e in mano un giornale sul quale c’era scritto che a Golden Gate Park giravano un film. Il futuro regista inspiegabilmente si reca sul luogo e domanda ad un uomo che film intedesse girare e questi gli risponde: “Un vero film, con la gente e le cose”. Capra non era mai stato in un teatro di posa, ma sapeva che la pellicola non durava più di quattro minuti perché aveva fatto il fotografo e per dimostrare a quell’uomo che ne sapeva moltissimo, ridacchiando, gli dice che non avrebbero mai potuto fare quello che volevano perché la pellicola durava solo pochi minuti. Tale informazione sconvolge l’uomo chiede a Capra quanto vuole per aiutarlo, il giovane fa un conto dei soldi che avrebbe dovuto dare all’albergo e risponde settantacinque dollari, quanto riceverà dall’uomo per poi tornare in albergo e quindi partire; ma Capra si sente in debito con quell’uomo e torna da lui per girare il film a Calcutta. Da questo momento inizia l’avventura da soggettista e sceneggiatore prima, da regista poi, di Frank Capra.

Benché americano, Capra è fortemente italiano, lo si capisce guardando i suoi film, apparentemente innocui e conformisti, ma scaturiti da un profondo anticonformismo individualista tipicamente italiano: piccola gente che lotta contro la gente grossa, gli ostacoli della vita, le avversità, questo è molto italiano, ma il modo di trarre le conclusione da parte di Capra è americano, la sua piccola gente vince sempre, non viene mai piegata dalle avversità, come invece accade nel neorealismo. Che si tratti di un ottimismo nazionale-storico? Può darsi ma Capra ha girato i suoi film di maggior successo dopo la Depressione del 1929, mostrando come gli americani, popolo spesso incompreso ed equivocato, siano ottimisti, critici di loro stessi, capaci di ridere di loro stessi.

Frank Capra è stato il vero cantore del New Deal e dell’America fiduciosa, cui è stato anche affidato il compito, nel momento dell’entrata in guerra, di spiegare ai connazionali le ragioni del conflitto con la serie di sette film di montaggio Perché combattiamo (1942-45), dopo aver girato successi come La donna del miracolo (1931) satira sulle sette protestanti in America interpretato da Barbara Stanwyck, attrice protagonista anche nel surreale Proibito (1932), il realistico e fiabesco Signora per un giorno (1933), realizza il celeberrimo Accadde una notte (1934), una storia d’amore e dispetto, ma anche un sorridente quadretto delle difficoltà che incontrano le classi medie rovinate dalla crisi del 1929; i ricchi non hanno problemi economici ma familiari come i capricci della viziata ma divertente Ellis (Claudette Colbert) che scappa di casa perché il padre non le consente di sposare uno stupido damerino arrivista. Durante la fuga, Ellis incontra Peter (Clark Gable) un giornalista alla ricerca di uno scoop per salvare il suo posto di lavoro. Si innamoreranno e scapperanno insieme. Per Capra i cattivi non esistono o se esistono non si “esibiscono”. Il film è ricco di trovate spiritose come il celebre autostop di Ellis che alza la gonna.

In E’ arrivata la felicità (1936), Longfellow Deeds (Gary Cooper), un giovane semplice, riceve una ricca eredità; a New York finisce nella mani di lestofanti e scrocconi, il giovane si ribella e decide di donare i soldi ai contadini piegati dalla crisi. Lo portano in tribunale per interdirlo ma alla fine vincerà lui. Ne L’eterna illusione (1938) c’è un solo cattivo, un uomo che ha costruito la propria fortuna sulle speculazioni edilizie, i buoni invece sono impersonati dal figlio dello speculatore (James Stewart) e dalla segretaria (Jean Arthur) che si amano. Intorno ruota una tribù di buoni, capeggiata da un capitalista (Lionel Barrymore). Lo scontro è inevitabile e la tribù di buoni riesce a convertire lo speculatore. In Mr Smith va a Washington, contro l’unico buono (James Stewart) è schierato addirittura il Senato statunitense, covo di corruttori. Ancora una volta il regista si rifugia nella soluzione della conversione dei cattivi: il buon esempio è l’antidoto del male.

Arriva John Done (1941) lascia un dubbio, non si sa se il cattivo si convertirà. Gli Stati Uniti sono in guerra e la vicenda del cittadino comune (Gary Cooper) rimane in sospeso. Nel capolavoro che tutti conoscono La vita è meravigliosa (1946), l’ottimismo si rivela per ciò che è: il frutto di una falsa coscienza. Capra non vede più difese di fronte alla forza del male, il tono, brillante e sciolto tipico della migliore screwball comedy, si contrae in lamento che introduce l’angosciosa sequenza del “come se” (come sarebbe stato il mondo se non fosse esistito il buono pronto a sacrificarsi per tutti, ovvero un James Stewart più commovente che mai). La realtà esterna si insinua nel minuscolo mondo piccolo borghese dove si svolge la lotta tra buoni e cattivi e ne altera la verosimiglianza. La vita è meravigliosa è una fiaba che racconta come un goffo angelo, salvando dal suicidio il buono, ottenga le ali. In cielo c’è giustizia quindi, sulla terra al massimo la solidarietà tra gli uomini, ma c’è anche tanta cupezza: il nero predomina e questo rappresenta il lato non consolatorio della fiaba, ma le fiabe in fondo sono crudeli, come sostiene Sergio Leone, meglio di ogni altro tipo di narrazione mostrano il male con schiettezza, senza mezzi termini.

Sembra che sia sempre il solito mondo affollato di tanta brava gente e di qualche mascalzone ma ne La vita è meravigliosa è cambiato qualcosa o forse no ma Capra e il New Deal ci hanno creduto. Qui l’illusione è giunta al termine.

Frank Capra è stato un regista che come pochi si è inserito nel sistema, in una fase peraltro, dove si afferma fortemente l’immagine del verosimile. Eppure la sua parabola artistica, da Accadde una notte a La vita è meravigliosa, mostra quanto siano potenti le pressioni esterni sulla fiducia dell’industria nell’oggettività dell’immagine cinematografica come copia del mondo e persino Capra ritiene difficile credere che sul grande schermo si rifletta la vita.

 

Bibliografia, F. Di Giammatteo, Storia del cinema.

“Emma” di D. Mc Grath: frivolezze e pregiudizi

“Forse sono le nostre imperfezioni a renderci così perfetti l’una per l’altro.”

Ogni stagione cinematografica è attraversata irrimediabilmente da un momento in cui si avverte la necessità di riportare sullo schermo i grandi classici della letteratura, questo impulso viene avvertito dai registi di tutto il mondo all’incirca ogni decennio. Jane Austen è senza dubbio una delle autrici più titolate nelle locandine hollywoodiane e tra le sceneggiature televisive del vecchio e del nuovo continente.

Il 1996 ha visto nascere una delle versioni più famose di sempre di Emma, con Douglas McGrath alla regia che ha ambientato la storia nella tradizionale epoca regency, dopo aver scartato l’idea iniziale di rivisitare la storia ai giorni nostri. Emma Woodhouse, interpretata da Gwyneth Paltrow, è una giovane donna nubile e ricca, frivola e ben integrata nella comunità di Highbury, la cui unica occupazione, oltre il prendersi cura dell’anziano padre, è combinare matrimoni fra i conoscenti del piccolo microcosmo di quell’angolo di Surrey. Dopo aver organizzato le nozze della sua governante con un gentiluomo della zona, Mr Weston, decide di prendere sotto la propria ala la giovane Harriet Smith, interpretata da Toni Collette, e innalzarla dalla sua posizione sociale incerta, essendo illegittima, facendola sposare con il reverendo, Mr Elton.

Emma è l’unica delle eroine della Austen a non destare immediata simpatia, ella infatti appare snob e viziata, profondamente disinteressata al matrimonio, essendo ricca a differenza di Elizabeth Bennet e delle altre figure femminili nate dalla penna della Austen. L’allegria e la frivolezza sono le caratteristiche che la contraddistinguono e Gwineth Paltrow sembra incarnare alla perfezione quella strana combinazione di ingenuità e calcolo che portano lo spettatore a non riuscire a biasimare le sue azioni per più di un paio di sequenze, fino al cambiamento finale in cui si avverte una maturazione nel personaggio, che impara a mettersi in discussione e a cambiare il proprio punto di vista. Emma non è naturalmente il film che l’ha resa nota come attrice, ma di certo ha rappresentato un buon trampolino di lancio per le sue successive interpretazioni più conosciute, come quelle in Sliding Doors e Shakespeare in love. Al suo fianco figura anche Jeremy Northam nel ruolo di Mr Knightley, un gentiluomo amico di famiglia nonché suo cognato, di sedici anni più vecchio di lei e molto più saggio, il suo migliore amico e confidente nonché suo più aspro critico. Ben preso però il suo rapporto con Emma cambierà trasformandosi in un legame più profondo.

Jeremy Northan mostra tutto il fascino pacato che Mr Knightley deve avere, il gentiluomo d’altri tempi che rimane spesso sullo sfondo, non abituato a troneggiare sulla scena, ma che è sempre presente nella vita della protagonista, il pilastro a cui affidarsi, che emana sicurezza e protezione. Nel suo modo di recitare da eterno bravo ragazzo, Northam porta molto di sé nei suoi personaggi, come anche in Possession-Una storia romantica (2002), dove recita ancora insieme alla Paltrow, e interpreta un timido poeta che cerca di nascondere un’insana passione per una donna che non è sua moglie, e ne I Tudors, dove interpreta il saggio e impeccabile Thomas More. Emma risulta una divertente commedia degli equivoci in cui senza molte pretese (la satira di costume è alquanto vaga), anche se la protagonista non riesce a convincere appieno come le altre eroine austeniane, la leggerezza delle situazioni spesso imbarazzanti strappa il sorriso e conquista il favore del pubblico. Si avverte la mancanza di una storia d’amore convincente, ma la falla è rimarginata dai molti intrecci fra gli eterogenei personaggi della comunità di Highbury. Emma ha vinto nel 1997 il Premio Oscar per la migliore colonna sonora, assegnato a Rachel Portman ed è stato nominato, nello stesso anno, anche nella sezione Migliori costumi.

Dal New Deal ai nuovi linguaggi: Ford, Chaplin, Welles

La Grande Depressione e il New Deal fanno aprire gli occhi all’America e al suo cinema. Le statistiche infatti indicavano in un centinaio di milioni alla settimana gli spettatori al cinema e tra loro moltissimi erano bambini, i quali ricavavano dalle storie sul grande schermo, illusioni e conforto. Il moralismo puritano esigeva che il male fosse sempre punito e il bene, se non premiato, quantomeno celebrato, sotto l’egida di un credo industriale ottimista. Ma ecco che giunge la Depressione portando con se caos e smarrimento. Il New Deal di Roosevelt, ripropone l’ottimismo con lo slogan “L’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”.

Il cinema dei generi della Hollywood classica è uno dei mezzi più potenti per arrivare alle masse ma non rappresenta tutto il cinema. L’epoca degli sperimentalismo è finita anche se tornerà più avanti con nuove vesti. In questi anni, la separazione fra l’apparato dei generi e la libertà creativa, riguarda le strutture stesse degli Studios e lo si può capire analizzando i punti in comune che ci sono tra autori più tradizionali a quelli che hanno dato il via ad una rivoluzione linguistica. Le opere di Ford, Chaplin e Welles non sarebbero concepibili se non avessero sempre di fronte i genere che consentono ad Hollywood di avere  successo.

John Ford ha alle spalle il successo Il cavallo d’acciaio (1924) e passa con grande disinvoltura dal dramma marinaro di Uomini senza donne (1930) all’umorismo sulla popolarità de Il giudice, Il battello pazzo, Dr Bull, al film di guerra La pattuglia sperduta (1934), dalla storia irlandese Il traditore (1935), al film d’azione Uragano (1937). Ford analizza il legame di solidarietà dal quale possono scaturire imprese degne di uomini: ci si ritrova uniti per affrontare i pericoli, per essere in pace con se stessi. Con Ombre rosse (1939), il regista giunge alla prima grande affermazione del tema intorno al quale Ford ha sempre lavorato, quello della solidarietà appunto intessendo una vicenda fatta di tutti gli stereotipi della letteratura di frontiera. Ma Ford è il maestro delle cose semplici, anche ingenue, dei piani ravvicinati, tutti in movimento frenetico, nel conferire epicità e letterarietà alle sue pellicole.

Sfidando la retorica del melodramma, Ford dichiara guerra anche alle pressioni politiche. Se il presidente Roosevelt adotta provvedimenti per risollevare l’agricoltura, nulla vieta che se ne parli e il regista lo fa in una delle sequenze più idilliache del suo Furore (1940), storia della migrazione di una famiglia di contadini dall’Oklahoma alla California, tratto dall’omonimo romanzo di Steinbeck. Ford, che incarna un certo spirito americano, dimostra quanto sia sensibile al dolore umano e come sia capace di tradurlo in immagini asciutte. La coesione del gruppo come conquista resta il tema di fondo sul quale Ford struttura il linguaggio, ma quando se ne allontana, per compiacere il produttore che punta sul facile successo, il meccanismo si inceppa e i difetti vengono a galla come dimostrano il film Com’era verde la mia valle (1941).

Dello stesso spirito solidale, anche l’inglese Chaplin, che negli U.S.A. ha trovata una felice patria, incarna l’individualismo di chi affronta ogni ostacolo per realizzare il suo sogno di libertà. Inizialmente respinto da tutti, l’omino inglese non realizza nulla, e le delusioni aumentano come quella che riscatta l’aura dickensiana da cui è avvolta e da lui guarita, che lo scambia per un altro e alla fine lo allontana dopo avergli fatto l’elemosina. Questo accade in Luci della ribalta (1931), film muto in cui Chaplin non polemizza, ma graffia. E graffia ancora di più in Tempi moderni. Questi tempi moderni sono tempi di oppressione dove se nasci operaio non hai altra strada: sarai costretto per tutta la vita a compiere gli stessi gesti idioti, ti ribellerai e sarai punito.

 

Chaplin compone una satira anarchica e perfida; parte con l’operaio che avvita i bulloni alla catena di montaggio, lo infila in una manifestazione sindacale senza che lo sappia, lo manda in galera, lo costringe a vivere in una baracca, gli trova lavoro come cameriere in una bettola e fa accadere il finimondo. Ma non importa, alla fine il protagonista si incammina verso il futuro con la sua amata (la celeberrima scena finale che vede i due perdersi all’orizzonte). Ma il film non piacque al pubblico. Il regista mantiene vivo il linguaggio delle immagini mute caricandole di verosimiglianza, opponendogli non parole ma canzoncine. La sfida al sonoro da parte di Chaplin continua, nonostante abbia subito, sino a questo momento, solo sconfitte. Il Grande Dittatore (1940) offre al cineasta inglese un’importante occasione per riscattarsi, scendendo a compromessi con i propri turbamenti espressivi. Il suo cinema, del resto, non ha mai puntato alla specificità (cosa che invece contraddistinguerà Orson Welles), non ha mai imposto la propria sintassi alla realtà ripresa, accettando il linguaggio primitivo. Ma per Il Grande Dittatore, Chaplin si concentra sul suono: affida allo sproloquiante Hitler, interpretato magnificamente da lui stesso, un discorso in un maccheronico anglo-tedesco-spagnolo assolutamente incomprensibile. A parte la presenza del barbiere ebreo che assomiglia ad Hitler e che alla fine, truccato come il dittatore, prende la parola e pronuncia un appassionato discorso per auspicare un futuro di pace tra gli uomini. il film non riserva grandi sorprese: vi sono le solite gag, tra le quali però spicca quella che vede Hitler danzare con il mappamondo che poi gli scoppierà in mano.

Chaplin ha ormai raggiunto la sua maturità e dopo la satira della dittatura, passa ad una sprezzante affermazione di libertà anarchica, la quale, appena terminata la guerra, giustifica perfino il delitto. Si tratta del film Monsierur Verdoux (1947), la cui idea proviene da Welles: la Depressione ha gettato sul lastrico milioni di persone e ogni mezzo è lecito se serve ad assistere la propria famiglia. Il fine giustifica i mezzi, insomma; e il mite bancario Verdoux (interpretato da Chaplin stesso) è un disoccupato con una moglie paralitica e con un figlioletto da mantenere, è giustificabile quindi secondo il regista, ma è un uomo dotato di fascino e astuzia. Verdoux sfrutta le sue doti per approfittarsi di ricche vedove per poi derubarle e ucciderle. Alla fine sarà arrestato e si difenderà con sarcasmo, salendo serenamente al patibolo, dopo aver rifiutato i conforti religiosi del sacerdote, in fondo si considera in pace con Dio; ha fatto ciò che ha fatto per amore e per necessità. Chaplin ha abbandonato il suo omino per deprecare i mali del mondo, scherzando saggiamente.

Orson Welles appartiene alla categoria dei registi che fanno dell’opera il palcoscenico su cui esibirsi e non si tratta di una questione di autobiografismo, poco importa sapere se nei film di Welles c’è traccia della sua vita. Importa invece sapere da dove nasce il titanismo che respira la sua opera. Cosa regge il suo cinema che assicura il successo del cinema americano? L’ideologia di frontiera, la stessa alla quale si è ispirato Roosevelt. Il precoce e provocatorio Welles lavora per il New Deal. A soli 21 anni mette in scena un Macbeth (1936) ambientato ad Haiti ed interpretato da attori di colore. Poco dopo realizza un Giulio Cesare moderno e non si fa mancare delle provocazioni come quella della Guerra dei mondi di H. G. Welles trasmessa alla radio come una radiocronaca.

 

E veniamo al capolavoro Citizien Kane (Quarto potere) del 1941, una prova di orgoglio democratico sottolineato dal termine citizien del titolo. Lo spirito della frontiera si incarna per il regista, nell’arroganza del protagonista, uomo infelice, del suo film, che vuole conquistare tutto. Welles ha ritratto l’America che rifiuta. E c’è un segreto da scoprire in Quarto potere: chi è questo Kane che muore solo nel suo castello? Cos’è l’allusione contenuta nella parola “rosebud”? Un giornalista indaga…

Welles forza i limiti della visività come nessun altro ha mai fatto prima: le inquadrature in profondità dilatano sia lo spazio che il tempo, vi sono lunghe pause, personaggi che entrano in grandi spazi, che indugiano e a Kane sfugge sempre tutto. E il segreto è minuscolo a dispetto della titanicità del protagonista, e si scoprirà per caso. La “specificità cinematografica” di Welles non ha nulla di americano: è una forma di ribellione ai luoghi comuni, uno sforzo a rompere con le regole imposte dai pregiudizi culturali, dalle attese del pubblico, dall’economia.

Welles ha toccato un tasto sensibile per l’America: il suo orgoglio nazionale, sovvertendo i principi della drammaturgia americana. Chaplin ha affrontano lo stesso tema nel 1936 mettendo sotto accusa il taylorismo ma pagando con l’insuccesso.

 

Bibliografia: F. Di Giammatteo, Storia del cinema.

The big eyes, il film più anomalo di Burton

The big eyes (2015) di Tim Burton ha vinto il Golden Globe per la miglior attrice protagonista (Amy Adams) ed è stato candidato ad altre due statuette, tra le quali quella per la miglior colonna sonora, affidata alla voce di Lana del Ray. Il film è un biopic che non è piaciuto agli adepti burtoniani, ha deluso gli affezionati e la critica ma ha conquistato il pubblico “contrario”, quello cioè che non ama il Burton gotico ed espressionista. Una pellicola anomala questa, che ha ottenuto il favore di quella parte di pubblico che gli è sempre stata ostile. Un buon lavoro, dunque. In effetti un artista non dovrebbe fare proprio questo? Muoversi contro-corrente, spaziare laddove non si è mai spinto? Oltre i limiti del conforme a…? Conforme a chi poi? A quello che è già stato? Un regista è ciò che che non è mai stato, può creare microcosmi e mondi paralleli, ma a volte decide di scendere a fumare una sigaretta con i comuni mortali. Non significa fallire ma sperimentare, sviscerare, svuotare un baule pieno di quel che è già stato visto.

Partiamo dalla trama. The big eyes, almeno  in superficie- narra la storia del pittore Walter Keane che negli anni 50-60 ebbe un sonoro successo con dei dipinti che ritraggono bambini dagli occhi a forma di “frittelle”, grandi ed espressivi. Peccato, però, che Walter non sia il vero autore dei cosiddetti “occhioni”; è invece sua moglie Margaret, vittima di una frode progettata dal marito entro le mura domestiche, a dare vita a queste opere intrise di sentimentalismo in un momento storico dove dominano la pop art e l’astrattismo. Inizia così una sequela di affermazioni, comportamenti che suggellano Walter Keane come l’artista kitsch del secolo scorso, fino a quando la donna non confessa.

Fu uno scossone, un allagamento, un’invasione di cavallette per la critica ufficiale e spinse a riflettere: l’arte è ciò che piace al pubblico o ciò che la critica definisce bello? Diatriba millenaria. I quadri di Keane ritraevano piccoli, melanconici orfanelli. L’unica caratteristica permanente in essi erano gli occhi: grandi ed innocenti che fanno pensare quasi ad un pesce palla, bagnati di lacrime spesse e cocenti. I bambini si “sparsero”ovunque. Divennero stampe, poster, cartoline: la riproduzione seriale segnò la fine dell’esclusività di ogni singola opera e afflosciamento creativo di Margaret che, a un certo punto, perse la sua verve e realizzò un autoritratto riecheggiando lo stile di Modigliani. Margaret per anni continuò a firmare le sue opere con il cognome del marito. La donna, innamorata del secondo marito, non si accorse però che quella concessione si sarebbe trasformata in un vero e proprio crimine, e non solo dal punto di vista penale. Ma come mai i dipinti ebbero tutto questo successo? Se guardiamo i dipinti ci accorgiamo che non è vero che siano tutti uguali, (come gran parte della critica sostiene) ripetitivi e asemantici. Sono molto più di quello che è stato superficialmente etichettato come kitsch. Emozionano. Fanno riflettere. Commuovono. Fanno ridere. Stimolano la fantasia, proprio come il film di Burton che può essere letto in tre modi: Il primo è relativo alla storia di due pittori: da una parte c’è quella del presunto, affascinante barattiere di intenti che frodò la sua compagna per la mania di “diventare artista a tutti i costi”, e dall’altra c’è la storia di lei, Margaret, ingenua e romantica madre degli orfanelli. La seconda storia che il regista visionario racconta è quella di una donna ferita, umiliata, depauperata. Privata della proprietà intellettuale dei dipinti, ma non solo. Obbligata a chiudere ogni rapporto con la sua migliore amica e con la figlia e vittima della propria fragilità. Costretta a vivere in una condizione quasi di prigionia, a custodire un segreto ignominioso più della frode stessa. Alcuni si sono chiesti perché il regista abbia sbilanciato tutto il peso della sceneggiatura su Walter Keane.

The big eyes è anche la storia di una donna suo malgrado sottomessa per amore; e veniamo alla “terza storia” che vede protagonisti assoluti proprio gli occhi. Ovviamente nessuno può dire con certezza che cosa Burton abbia voluto comunicare a critica e pubblico. Il regista sta attraversando un periodo sentimentalmente deludente e non di rado ciò influenza l’ispirazione; si può azzardare nel dire che egli abbia trovato un alibi alla nebulosità mortifera dei contrasti di film come La sposa cadavere Dark shadows, un’alternativa che coniughi i colori (già riscontrati in Big Fish), la vitalità dei primi piani, la sobrietà del vero, la semplicità della cronaca, il kitsch come giusto antidoto al canone, il ritmo allegro da (tragi)commedia tutti ospiti del quadro cinematografico. Forse in questo Burton c’è poca bizzarria: il regista lascia agire lo spettatore. E’ lui a decidere perché Margaret ha deciso di tacere, e si chiede, che cosa sono quegli occhi neri? La firma d’autore, ma di quale autore? Di Burton o di Margaret? O di entrambi? Si potrebbe ipotizzare perciò un processo di immedesimazione del regista nella persona di M. Keane che non riesce e a liberarsi da una crisi che la soffoca, fino al momento della sua conversione al nuovo. Burton è in crisi? Probabile. Ma è anche possibile che questo sia il punto più significativo della sua carriera cinematografica. Un passo in là dalla paura, si aspetta il capolavoro.

 

di Donatella Conte

Dal best seller al film: la frigidità di Cinquanta sfumature di grigio

Come ha fatto un libro come Cinquanta sfumature di grigio a vendere 100 milioni di copie? Come è possibile che la pellicola omonima, ispirata al romanzo, abbia dominato il box office delle ultime due settimane, in tutto il mondo?

I quesiti posti non vogliono essere provocatori, né fornire un’accezione negativa a un fenomeno che è entrato nella percezione comune, a prescindere dalle opinioni divergenti sullo stesso. Le domande, invece, suggeriscono una semplice riflessione sulle motivazioni alla base del poderoso espandersi di tale “evento”, inizialmente caso letterario, in seguito campione di incassi al cinema.
Ecco alcuni dati: Il romanzo erotico Fifty Shades of Grey (scritto da E.L. James e primo episodio di una trilogia) ha venduto circa 82 milioni di copie negli States, e 27 milioni di copie nel Regno Unito, raggiungendo i vertici di tutte le classifiche letterarie e collocando i tre volumi tra le serie di maggior successo di tutta l’editoria moderna. I diritti di traduzione sono stati acquistati da 37 paesi e il primo libro ha stabilito il record come tascabile di tutti i tempi, superando, addirittura, la saga fantasy di Harry Potter.

Il frigido (aggettivo terribile per un film che vorrebbe e dovrebbe essere erotico) ed esilarante film diretto Sam Taylor Johnson, e che vede nei panni dei protagonisti, gli ormai celeberrimi, Dakota Johnson e Jamie Dornan, (rispettivamente Ana Steele e Christian Grey) ha incassato 280,5 milioni presso i botteghini di tutto il pianeta, e si è confermato come la pellicola più vista in 50 paesi, spesso accompagnata da momenti di isterismo collettivo: al Grosvenor cinema di Glasgow, tre donne sono state portate in questura per aggressione, avrebbero, infatti malmenato un uomo, che aveva intimato loro di fare silenzio durante la proiezione della pellicola.
Tralasciando i giudizi sull’opera cartacea e sul lungometraggio, l’intenzione è quella di capire non solo perché ci sia stato tanto seguito verso un testo che di per sé non mostra nemmeno una trama innovativa, ma anche di porre in luce le ragioni socio-culturali, che hanno determinato una passione globale e sfrenata per Christian Grey e la sua stanza rossa.

Una prima osservazione va fatta riguardo alla funzione sociale della letteratura: i romanzi e le storie in essi raccontate, sovente, rappresentano il barometro dei valori presenti all’interno del tessuto sociale, una sorta di istantanea che racchiude quell’amalgama di etica, trasformazioni e contraddizioni inerenti a un determinato momento storico. La modernità ha generato una profonda trasformazione nei rapporti di coppia. La consolidazione della condizione paritaria tra i due sessi, ha messo a dura prova le relazioni amorose, causando un’estrema confusione dei ruoli. In tal senso, i volumi dell’autrice inglese codificano le incertezze e i dilemmi di tali legami, e ripristinano drasticamente i ruoli predefiniti, attraverso il BDSM (bondage & disciplina, dominazione & sottomissione, sadismo & masochismo): uomo/dominatore, donna/sottomessa.

“Credo che per una certa porzione piuttosto ampia di popolazione Cinquanta sfumature di grigio conservi un gusto semi-pornografico, una pericolosa infrazione di confini, ma allo stesso tempo, fornisca ruoli classicamente romantici”. (Roiphe).

La mirata individuazione delle insicurezze e dei timori di Ana Steele rispetto ai sentimenti che prova per Christian e la raffigurazione delle stesso personaggio femminile, goffo, carente di auto-stima e facile preda, quindi, dell’identificazione di massa, fissano, probabilmente, la linea di confine tra la fama ottenuta dal celebre mommy porn, e la già fiorente industria editoriale a tematica sessuale. D’altronde E.L James si limita a mescolare i generi della storia d’amore erotica e tradizionale, ed è noto che tali temi siano uno dei settori che producono maggior profitto nel mercato dell’editoria. Secondo il sito internet della Romance Writers of America, i romanzi d’amore costituiscono il 46% di tutta la massa del mercato dei tascabili venduti negli Stati Uniti; da una recente statistica, Harlequin ha rilevato che almeno la metà dei suoi clienti compra una media di trenta romanzi al mese. La combinazione tra forme narrative collaudate e il BDSM, sembra essere stata la chiave di volta alla base della rapida diffusione del libro. A questo punto è necessario sviscerare l’argomento principe della trilogia, ovvero il sesso e le pratiche sadomasochiste.

La saga delle sfumature dell’eros contiene una fantasia potente, e quest’ultima giustifica il suo forte impatto emozionale. Il sogno simboleggia un compromesso per l’individuo, poiché contiene e nega, al contempo, un desiderio. Il sogno restringe la realtà e dilata lo spazio delle illusioni, proteggendo l’uomo dalle restrizioni della quotidianità. Fantasticherie che, quasi sempre, sono il riflesso di brame considerate illecite e proibite dalla comunità. I frequenti amplessi sono proposti come bondage, ma sono ben lontani dalla natura di quest’ultimo. Qui, il sesso possiede un’identità, un fine: il matrimonio e i figli consacrati nel finale della serie, di contro il BDSM è puro edonismo individuale, semplice piacere carnale. Sostanzialmente il sadomasochismo è estremizzato ed enfatizzato a utopia romantica. Ana non si sottomette a Christian e rivendica la sua autonomia fin dal principio. Non si tratta di una storia relativa a una succube e al suo dominatore, si tratta bensì di una storia che usa le pratiche del sesso estremo per delineare e risolvere le aporie e i conflitti di un rapporto di coppia del XXI secolo. Ana non possiede il masochismo di Historie d’O, autolesionismo che trascinerà la stessa verso la distruzione e infatti alla fine metterà il mordacchio al marmoreo Christian del film.

Si è davanti quindi a un libro scritto da una donna, per le donne e letto soprattutto da donne. Cosa vuol dire questo? Che il genere femminile odierno agogna a un modello iper mascolino, molto simile negli atteggiamenti a un amante/padrone? Che sussiste una nostalgia verso il passato, verso quei modelli considerati patriarcali, ma che forse nell’immaginario collettivo offrivano protezione? Verosimilmente, i libri, come il film, dispensano alle persone delle “ricette sessuali e romantiche”, qualcosa da portare a casa per migliorare apparentemente la propria routine.

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