Dal best seller al film: la frigidità di Cinquanta sfumature di grigio

Come ha fatto un libro come Cinquanta sfumature di grigio a vendere 100 milioni di copie? Come è possibile che la pellicola omonima, ispirata al romanzo, abbia dominato il box office delle ultime due settimane, in tutto il mondo?

I quesiti posti non vogliono essere provocatori, né fornire un’accezione negativa a un fenomeno che è entrato nella percezione comune, a prescindere dalle opinioni divergenti sullo stesso. Le domande, invece, suggeriscono una semplice riflessione sulle motivazioni alla base del poderoso espandersi di tale “evento”, inizialmente caso letterario, in seguito campione di incassi al cinema.
Ecco alcuni dati: Il romanzo erotico Fifty Shades of Grey (scritto da E.L. James e primo episodio di una trilogia) ha venduto circa 82 milioni di copie negli States, e 27 milioni di copie nel Regno Unito, raggiungendo i vertici di tutte le classifiche letterarie e collocando i tre volumi tra le serie di maggior successo di tutta l’editoria moderna. I diritti di traduzione sono stati acquistati da 37 paesi e il primo libro ha stabilito il record come tascabile di tutti i tempi, superando, addirittura, la saga fantasy di Harry Potter.

Il frigido (aggettivo terribile per un film che vorrebbe e dovrebbe essere erotico) ed esilarante film diretto Sam Taylor Johnson, e che vede nei panni dei protagonisti, gli ormai celeberrimi, Dakota Johnson e Jamie Dornan, (rispettivamente Ana Steele e Christian Grey) ha incassato 280,5 milioni presso i botteghini di tutto il pianeta, e si è confermato come la pellicola più vista in 50 paesi, spesso accompagnata da momenti di isterismo collettivo: al Grosvenor cinema di Glasgow, tre donne sono state portate in questura per aggressione, avrebbero, infatti malmenato un uomo, che aveva intimato loro di fare silenzio durante la proiezione della pellicola.
Tralasciando i giudizi sull’opera cartacea e sul lungometraggio, l’intenzione è quella di capire non solo perché ci sia stato tanto seguito verso un testo che di per sé non mostra nemmeno una trama innovativa, ma anche di porre in luce le ragioni socio-culturali, che hanno determinato una passione globale e sfrenata per Christian Grey e la sua stanza rossa.

Una prima osservazione va fatta riguardo alla funzione sociale della letteratura: i romanzi e le storie in essi raccontate, sovente, rappresentano il barometro dei valori presenti all’interno del tessuto sociale, una sorta di istantanea che racchiude quell’amalgama di etica, trasformazioni e contraddizioni inerenti a un determinato momento storico. La modernità ha generato una profonda trasformazione nei rapporti di coppia. La consolidazione della condizione paritaria tra i due sessi, ha messo a dura prova le relazioni amorose, causando un’estrema confusione dei ruoli. In tal senso, i volumi dell’autrice inglese codificano le incertezze e i dilemmi di tali legami, e ripristinano drasticamente i ruoli predefiniti, attraverso il BDSM (bondage & disciplina, dominazione & sottomissione, sadismo & masochismo): uomo/dominatore, donna/sottomessa.

“Credo che per una certa porzione piuttosto ampia di popolazione Cinquanta sfumature di grigio conservi un gusto semi-pornografico, una pericolosa infrazione di confini, ma allo stesso tempo, fornisca ruoli classicamente romantici”. (Roiphe).

La mirata individuazione delle insicurezze e dei timori di Ana Steele rispetto ai sentimenti che prova per Christian e la raffigurazione delle stesso personaggio femminile, goffo, carente di auto-stima e facile preda, quindi, dell’identificazione di massa, fissano, probabilmente, la linea di confine tra la fama ottenuta dal celebre mommy porn, e la già fiorente industria editoriale a tematica sessuale. D’altronde E.L James si limita a mescolare i generi della storia d’amore erotica e tradizionale, ed è noto che tali temi siano uno dei settori che producono maggior profitto nel mercato dell’editoria. Secondo il sito internet della Romance Writers of America, i romanzi d’amore costituiscono il 46% di tutta la massa del mercato dei tascabili venduti negli Stati Uniti; da una recente statistica, Harlequin ha rilevato che almeno la metà dei suoi clienti compra una media di trenta romanzi al mese. La combinazione tra forme narrative collaudate e il BDSM, sembra essere stata la chiave di volta alla base della rapida diffusione del libro. A questo punto è necessario sviscerare l’argomento principe della trilogia, ovvero il sesso e le pratiche sadomasochiste.

La saga delle sfumature dell’eros contiene una fantasia potente, e quest’ultima giustifica il suo forte impatto emozionale. Il sogno simboleggia un compromesso per l’individuo, poiché contiene e nega, al contempo, un desiderio. Il sogno restringe la realtà e dilata lo spazio delle illusioni, proteggendo l’uomo dalle restrizioni della quotidianità. Fantasticherie che, quasi sempre, sono il riflesso di brame considerate illecite e proibite dalla comunità. I frequenti amplessi sono proposti come bondage, ma sono ben lontani dalla natura di quest’ultimo. Qui, il sesso possiede un’identità, un fine: il matrimonio e i figli consacrati nel finale della serie, di contro il BDSM è puro edonismo individuale, semplice piacere carnale. Sostanzialmente il sadomasochismo è estremizzato ed enfatizzato a utopia romantica. Ana non si sottomette a Christian e rivendica la sua autonomia fin dal principio. Non si tratta di una storia relativa a una succube e al suo dominatore, si tratta bensì di una storia che usa le pratiche del sesso estremo per delineare e risolvere le aporie e i conflitti di un rapporto di coppia del XXI secolo. Ana non possiede il masochismo di Historie d’O, autolesionismo che trascinerà la stessa verso la distruzione e infatti alla fine metterà il mordacchio al marmoreo Christian del film.

Si è davanti quindi a un libro scritto da una donna, per le donne e letto soprattutto da donne. Cosa vuol dire questo? Che il genere femminile odierno agogna a un modello iper mascolino, molto simile negli atteggiamenti a un amante/padrone? Che sussiste una nostalgia verso il passato, verso quei modelli considerati patriarcali, ma che forse nell’immaginario collettivo offrivano protezione? Verosimilmente, i libri, come il film, dispensano alle persone delle “ricette sessuali e romantiche”, qualcosa da portare a casa per migliorare apparentemente la propria routine.

Humphrey Bogart, icona del cinema classico

Al culmine della sua fama, Humphrey Bogart, impresso nella memoria collettiva soprattutto per il ruolo di Rik (manifesto dell’uomo vero) nel capolavoro di Curtiz, Casablanca (1942), diviene un attore riconosciuto e un personaggio seguito, ma la sua storia presenta momenti controversi che rendono l’attore hollywoodiano uno dei miti del cinema americano degli anni Quaranta. Bogart, protagonista di numerosissime pellicole, con i suoi personaggi, dal gangster, all’antieroe, fino cinico romantico diverrà una figura riconoscibile e ammirata del cinema. Ma icona non si nasce, ci vogliono anni prima di creare un’immagine a cui la gente rimarrà legata “per sempre”.

Nato in una famiglia benestante, in seguito al conseguimento del diploma superiore delude le aspettative familiari rifiutando di accedere ai college prestigiosi ai quali era destinato, per arruolarsi in marina proprio a ridosso del primo conflitto mondiale. Al suo rientro riesce ad ottenere dei ruoli a Brodway e dal 1922 al 1929 reciterà in più di venti produzioni. È grazie a La foresta pietrificata, prima a teatro con lo spettacolo diretto da Robert E. Sherwwod, dove interpreta un killer evaso (Duke Mantee), poi al cinema con l’omonimo film del 1936 diretto da Archie L. Mayo, che Bogart entra nel circuito dell’industria cinematografica.

Sul grande schermo, già dal 1936 Bogart aveva forgiato la sua immagina da duro, dando così un taglio netto alle sue origini aristocratiche. Il suo viso, reso noto dall’evidente cicatrice sul labbro superiore, cui storia è avvolta nella nebbia del mito e del mistero, diviene riconoscibile e associabile agli stessi personaggi da lui interpretati, cinici uomini a sangue freddo, gangster della malavita americana degli anni Trenta che rincorrono il proprio sogno di potere e desiderio di conquista. Insieme a lui anche altri attori donano il loro volto e la loro coinvolgente espressività alle grandi “icone” gangster come James Cagney o Paul Muni.

Nonostante il successo di pubblico con il ruolo di Duke Mantee, la Warner Bros. lo relega a ruoli piatti di cattivo (I ruggenti anni Venti (1939); Il Vendicatore (1940); Gli angeli con la faccia sporca (1938). Per i primi vent’anni della sua carriera cinematografica, Bogart o chi per lui, non ha alcun controllo sui ruoli che gli son stati assegnati. Luise Booke addirittura paragona il contratto con le major di quel periodo ad un contratto di schiavitù, dove l’attore anche dotato di consenso pubblico, deve sottomettersi alle decisioni di produzione. Ma, come afferma lo stesso Bogart in uno dei suoi film più famosi, Il mistero del falco (1941), “A volte è necessario fare buon viso a cattivo gioco”.

L’attore attinge dalla sua frustrazione come attore e dalla sua nota combattività per costruire i suoi personaggi, quasi sempre in bilico fra violenza e depressione e il cui tormento interiore si riflette nei gesti e nei tic del suo volto (1). Questi che sembrano dei compromessi, sono però condizione necessaria che permettono in un secondo momento a Bogart di recitare nei ruoli che più gli confacevano. L’apice della sua carriera arriva negli anni Quaranta. Grazie alla sua tenacia e alla sua astuzia, riesce a capovolgere la sua posizione e rendere possibile lo svincolarsi dalla posizione limitante che le major imponevano. Come avviene nelle pellicole cinematografiche, quando interpreta astuti detective privati, Bogart è riuscito a sovvertire le regole anche nella sua vita privata. In quest’ultimo caso è ovvio che è necessario l’aiuto esterno. Il completo individualismo che caratterizza i suoi più celebri personaggi (Sam Spade, il detective Marlowe) non lo accompagna nella vita privata che è invece caratterizzata prepotentemente dalle persone con qui l’attore entra in contatto. La sua vita è infatti popolata da diverse figure che insieme a lui lavorano e lo assistono: scrittori, registi, fotografi. Alcuni non hanno grandi intuizioni sulle sue doti, altri non arrivano a conoscerlo profondamente, mentre alcuni addirittura lo comprendono più di quanto riesca  lui stesso. È stato sposato quattro volte. Prima con Helen Menken, con cui rimane per poco più di un anno, poi due matrimoni turbolenti prima con Mary Phillips, in seguito con Mayo Methot e in ultimo con la giovane Lauren Bacall conosciuta sul set di Acque del sud (1944).

Un altro grande amore dell’attore oltre quello rivolto alle belle donne, è quello verso il fumo, che lo ha portato alla fine degli anni Cinquanta alla morte e l’alcool. La figura stessa del Bogart reale viene spesso confusa con la stessa dei personaggi che come lui aspirano sigarette una dietro l’altra. La sua espressione scavata, la sua voce roca, la sua struttura fisica esile si contrappone al modello di uomo che veniva propinato in quel periodo dai media, ma questa differenza è ciò che lo rende il mito riconosciuto del cinema classico. Il biografo inglese Jonathan Coe, a scapito della figura mitica che avvolge Bogart, nel suo testo Caro Bogart edito da Feltrinelli, afferma che aldilà del mito, Bogart era anche un uomo comune, ricco di difetti, passioni, amori, matrimoni e furibondi litigi. La vita cinematografica si incastra con quella personale. Il suo carattere entra nei personaggi che interpreta. Da Una pallottola per Roy (1941) a Il mistero del falco e Casablanca (1942), Bogart  ha cercato di ridefinire il suo suolo di duro tormentato ponendo anche le basi per i protagonisti dei film noir di quell’epoca.

Per il resto della sua carriera l’attore ha cercato in ogni modo di apportare dei cambiamenti al suo personaggio noir anche grazie alla moglie Bacall con la quale ha girato tre grandi classici come il già citato Acque del sud, Il grande sonno (1946) e La fuga (1947). Entrambi riescono anche a riunire un gruppo di personalità del cinema che si reca a Washington per protestare contra la caccia alle streghe promossa dal senatore Joseph McCarthy. Questi anni che lo hanno messo nella posizione di avere diversi nemici nell’ambito della timorosa industria cinematografica hollywoodiana, contribuirono alla formazione dello status di icona di Bogart “iconoclasta che difendeva i perdenti”(2).

L’attrice Mary Astor si è espressa in questi termini: «Eccolo lì, proprio lì, sullo schermo, mentre dice a gran voce quello che tutti cercano di dire oggigiorno: “Odio l’ipocrisia. Non credo nella parole, alle etichette e a molto altro. Non sono un eroe. Sono un essere umano».

 

 

(1) Bogart, a cura di Paul Duncan, James Ursini, Taschen, Kolh, 2007

(2) Ibidem

Magia ed ignoto in “The Prestige”, di C. Nolan

“Ogni numero di magia è composto da 3 parti o atti. La prima parte è chiamata “La Promessa”. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: un mazzo di carte, un uccellino, o un uomo. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare se sia davvero reale, sia inalterato, normale. Ma ovviamente… è probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato “La Svolta”. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario. Ma ancora non applaudite. Perché far sparire qualcosa non è sufficiente; bisogna anche farla riapparire. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Per questo ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo Il Prestigio”.

 

The Prestige è un film diretto da Christopher Nolan, presentato al Festival internazionale del Cinema di Roma nell’Ottobre del 2006. La trama è ambientata a fine ‘800, in un clima in cui gli spettacoli di magia, i circhi itineranti e i freakshow rappresentavano la maggiore attrattiva per la popolazione, sedotta da tutto ciò che va oltre la normalità e le spiegazioni razionali. Si racconta la storia di due illusionisti, amici fin dall’adolescenza e compagni nello studio della magia, legati da un rapporto che si trasformerà col tempo in rivalità, per poi terminare in un’ossessione distruttiva. Il film comincia dalle battute finali: Alfred Border (C. Bale) è rinchiuso in prigione accusato dell’omicidio dell’illusionista Robert Angier (H. Jackman), meglio conosciuto con il nome de “Il grande Dantòn”, un tempo suo migliore amico. Con una tecnica narrativa che alterna flashback a flashforward viene raccontata l’origine del loro scontro: la morte accidentale di Julia, moglie di Angier, durante un numero di magia, incidente per il quale il marito ha sempre ritenuto responsabile Alfred Border, a quel tempo aiutante di scena. Da quel momento le strade dei due amici si dividono, intersecandosi occasionalmente solo a colpi di illusioni sul palcoscenico.

Il numero di magia più famoso di Border, conosciuto con lo pseudonimo de “Il Professore”, è Il trasporto umano, che consiste nello scomparire dietro una porta a lato del palco per ricomparire in meno di un secondo dall’altra parte del teatro. Angier tenterà di scoprire il segreto del trucco del suo acerrimo nemico rubandogli il diario e falsamente crederà di  aver trovato la soluzione in Nikola Tesla (David Bowie), ingegnere elettrico rivale di Thomas Edison, che costruisce per lui una macchina per lo sdoppiamento della materia, capace di creare dei cloni di ogni cosa. Ma l’invenzione gli procurerà più oscurità che altro, portandolo a compiere la sua vendetta ai danni di Border e a scoprire il segreto del suo rivale, ma condannandolo anche ad una tragica fine.

The Prestige prende il nome dalla terza ed ultima parte di uno spettacolo di magia: la prima è La promessa, la presentazione di qualcosa di ordinario come una colomba, ad esempio; la seconda è La svolta, il colpo di scena, la scomparsa della colomba sotto un telo; la terza è Il prestigio, l’inaspettato, la ricomparsa della colomba tra le mani dell’illusionista. Christopher Nolan ha realizzato un film su questa struttura, quella di uno spettacolo di illusionismo. Lo spettatore sa di per sé che non si tratta di magiae che è presente un trucco, ma raramente se ne accorge perché è consapevole dell’inganno, non sta realmente osservando perché vuole essere raggirato. È questo lo scopo di uno spettacolo di illusionismo, ed è questa la struttura di The Prestige. Lo stile diaristico del libro da cui il film è tratto (l’omonimo romanzo di Christopher Priest) viene adattato creando una narrazione spezzata, con diversi archi temporali; ma anche lo stile del regista, che ha diretto Memento, Inception, Il cavaliere oscuro, viene rispettato sia nelle tematiche che nella fotografia e nei costumi prettamente dark. Il tema dell’ossessione è centrale, sia quella di Angier nei confronti dell’amico, il suo desiderio di carpirne i segreti professionali, sia quella di Border nei confronti del suo spettacolo principale, “Il trasporto umano”, che gli costerà anche la riuscita del suo matrimonio; i temi dell’ inganno e del tormento interiore sono presenti dall’inizio alla fine della storia e sono connessi fra loro, prima con l’illusione di Border che nasconde a tutti di avere un fratello gemello, poi con Angier che inganna il pubblico creando dei cloni di se stesso, e in ogni momento la nascita dell’illusione porta i due maghi a vivere con il tormento di dover accettare le conseguenze delle proprie scelte.

La fotografia e le suggestive scenografie fungono da ulteriore mezzo di trasporto verso l’ignoto, e il mago Nolan ci invita a non avere paura di essere travolti da esso, attraverso illusione provocata con trucchi ingegnosi, riuscendo ad ingannare anche noi spettatori.

Nella pellicola sono presenti  dei chiari dualismi, come quello realtà e illusione, che tiene con il fiato sospeso fino alla fine, scienza e magia, caratteristico di quel tempo, vita familiare e ossessione per le proprie ambizioni, che porta a un tragico epilogo in cui i due illusionisti perdono ogni legame affettivo col mondo e periscono a causa delle proprie ossessioni. Nel 2007 The Prestige ottiene due nomination agli Oscar: per la migliore fotografia e per la migliore scenografia.

“The river” di Loretz, un esempio di film retorico

Il regista Pare Lorentz ha realizzato il film documentaristico e retorico The river nel 1938 per conto dell’Ente per la Sicurezza Agricola del governo degli Stati Uniti. Nel 1937 il Paese stava facendo dei progressi per uscire dalla grande crisi e durante il l’amministrazione di Roosevelt, il governo federale aveva dato inizio a lavori pubblici affinché procurassero impiego alla grande quantità di disoccupati. Sebbene sia opinione abbastanza comune che le politiche di Roosevelt fossero giuste, all’epoca vi fu una notevole opposizione nei suoi confronti.

The River ha accolto la Tennessee Valley Authority come soluzione ai problemi locali di sfruttamento agricolo ed inondazioni. Il film ha un taglio ideologico ben definito in quanto è servito a promuovere le politiche di Roosevelt (il quale ovviamente apprezzò il film) attraverso 11 segmenti:

Titoli di testa

1. Un prologo che espone il soggetto del film.

2. Una descrizione dei fiumi che si gettano nel Mississipi e poi nel Golfo del Messico.

3. Una storia del primo utilizzo agricolo del fiume.

4. I problemi del Sud causati dalla guerra civile.

5. Una sezione dedicata alle segherie e alle acciaierie del Nord.

6. Le inondazioni provocate dalla sfruttamento sconsiderato della terra.

7. Gli effetti dell’accumulo di quei problemi sulla gente.

8. Una piantina con la descrizione del progetto TVA.

9. Le dighe della TVA e i loro benefici.

Titoli di coda.

 

The River suggerisce subito al pubblico che i suoi realizzatori sono affidabili e professionali e che questo è un resoconto fondato su fatti storici e geografici. La stessa cartina illustra il prologo nel breve segmento iniziale del film: “Questa è la storia di un fiume”. Tale affermazione dissimula l’intento retorico del film, implicando che il film tratterà di una storia narrata oggettivamente. Il secondo segmento introduce immagini del cielo, dei fiumi e dei monti, la voce del narratore, profonda e autorevole, spiega che l’acqua affluisce al Mississipi dai lontani Idaho e Pennsylvania. Mentre le immagini mostrano i fiumi diventare a mano a mano che confluiscono più grandi, il narratore comincia ad intonare nomi di altri fiumi, facendo appello al patriottismo dello spettatore e implicando che l’intero Paese dovrebbe essere unito e compatto nell’affrontare questo tipo di problemi.

Lo svolgimento del film è rivolto alla restaurazione della bellezza idilliaca dei fiumi e delle montagne. Il terzo segmento è dedicato ai fatti della storia americana relativi ai problemi generati dal Mississipi. Qui, invece delle montagne, possiamo scorgere squadre di muli e carrettieri, balle di cotone caricate sui battelli a vapore che mostrano la potenza originaria degli U.S.A. esportatore di merci.

Nel quarto segmento il film inizia ad introdurre i problemi che la TVA dovrebbe risolvere mostrando le conseguenze della guerra civile e il tono morale diviene molto evidente. Sulle immagini di persone ridotte in miseria scorre una musica triste che si ispira ad una melodia folk, Go Tell Aunt Rhody. Nel quinto segmento viene adoperata di nuovo la narrazione con le ripetizioni poetiche per descrivere la crescita dell’industria del legno dopo la guerra civile. Il sesto segmento cambia tono e dà al via una lunga serie di contrapposizioni alle parti precedenti; viene riproposta  anche un’altra battuta del monologo ma con l’aggiunta di una frase: “Noi abbiamo costruito cento città e mille paesi…ma a che prezzo”. Ora ci viene mostrato come il ghiaccio si stia sciogliendo, erodendo i fianchi rocciosi e gonfiando i fiumi durante le piene. Progressivamente il film ci allontana dalla bellezze naturali per affrontare la questione centrale intorno alla quale è fondata la sua argomentazione: si vedono ora scene di inondazioni, la distruzione, la gente tratta in salvo che vive nelle tendopoli,ecc. Tuttavia il film continua a lasciare in sospeso la soluzione del problema, mostrando  gli effetti delle inondazioni sulle persone.

Veniamo al settimo segmento che descrive gli aiuti che nel 1937 che il governo ha stanziato per le vittime delle inondazioni; esso lascia ancora intendere che il problema di fondo esiste ancora. In questo caso il film usa un sillogismo retorico oscuro: “Le terre povere fanno poveri gli uomini-gli uomini poveri fanno povere le terre”.

Tornando ai segmenti, possiamo notare come nei primi abbiamo visto come la popolazione americana abbia costruito una grande potenza agricola e industriale. Ma questi eventi non sono semplici fatti storici, essi infatti sono cruciali per l’argomentazione del film che racconta in sintesi di come il popolo americano sia in grado di costruire e di distruggere. Si tratta di un caso in cui una soluzione viene presa per la soluzione. Tuttavia, col senno di poi, non si può affermare con certezza che la serie di dighe costruite dalla TVA sia stato il miglior provvedimento adottato per fermare le inondazioni.

The River ha avuto successo nel perseguire i propri obiettivi, come ha scritto, all’epoca, il critico Gilbert Seldes:

“È come se  le immagini catturare dal signor Lorentz si fossero disposte da sole in un ordine tale da servire da se la loro argomentazione, e non come se fosse stata un’argomentazione concepita in anticipo a dettare l’ordine delle immagini”.

 

 

Bibliografia: Cinema come arte, di D. Bordwell e K. Thompson.

 

Il cinema “di conflitto” di Elia Kazan

(Kayseri, 7 settembre 1909 – New York, 28 settembre 2003)

Non si può parlare di Elia Kazan senza il grande drammaturgo Tennessee Williams, fondatore insieme a Kazan del celebre Actor’s Studio e suo sceneggiatore, il primo un ragazzo beffardo che arriva in America dalla Grecia con il sorriso ingannatore di chi è deciso a farcela a tutti i costi, anche con il  rischio di risultare ipocrita e servile, sorriso descritto dallo stesso Kazan in una sua autobiografia e in un suo film che doveva intitolarsi The Anatolian Smile (chiamato poi America America, il ribelle dell’Anatolia), il secondo un ragazzo del Mississippi che non si è mai sentito amato dal padre perché omosessuale, lontano dal prototipo del maschio sano e sportivo americano e dilaniato dalla paura di diventare schizofrenico come sua sorella, ridotta ad un vegetale dopo essere stata lobotomizzata.

Kazan, sostenitore del Metodo, ha avuto il merito di lanciare star mondiali come lo sfacciato e rude Marlon Brando, l’inquieto James Dean (diretto da Kazan nella trasposizione in chiave psicoanalitica della storia di Caino e Abele, La valle dell’Eden e nel cult Gioventù bruciata), icona ribelle negli anni Cinquanta, simbolo di una generazione, morto prematuramente, in un incidente automobilistico e il dolce Warren Beatty (diretto da Kazan in Splendore nell’erba, straziante melodramma sul primo amore e primo film americano che ha posto l’accento sulla sessualità adolescenziale).

Kazan è stato un genio riconosciuto nell’ambito sia cinematografico che teatrale, il traduttore perfetto dei drammi di Williams,un lottatore nato,un narcisista, un uomo sempre in conflitto con sé stesso che ha incontrato l’animo fragile di un altro uomo perseguitato dai suoi fantasmi, che soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita ha dato vita a delle messe in scena innovative e di rara fattura, rubando dalla propria vita e da quella di Kazan. Si portano sul set  le frustrazioni, gli ideali, il conflitto tra amore per la vita e desiderio della morte, le nevrosi, le paure, il vitalismo sessuale, i rimpianti, un certo auto disprezzo soprattutto da parte del regista. Frustrazioni le sue, molto probabilmente collegate alla vita politica: la sua fama infatti è stata segnata da numerose polemiche e critiche per il fatto che Kazan aveva denunciato dei suoi compagni comunisti alla Commissione per le attività antiamericane del senatore  McCarthy.

L’uomo dal sorriso ingannatore che aveva preso d’assalto Hollywood, che pur di arrivare a diffondere la sua arte e le sue idee, si era finto umile, per poi fregare l’America, ha denunciato colleghi, rovinando delle carriere:

«Sono stato membro del partito comunista per un anno e mezzo. Non mi è piaciuto ciò che ho visto in quel periodo, e ho deciso di dire ciò che pensavo. Ero d’accordo con certe cose, ma non con i metodi. Come iscritto al partito, volevo cambiare l’America, renderla migliore: ho lasciato il partito perché, ripeto, non ne condividevo i metodi, ma quell’idea di fondo mi è rimasta. Amo l’America».

Ecco il conflitto interiore, la finzione, e poi finalmente l’espiazione o la furbata a seconda dei punti di vista, attraverso la realizzazione del film Fronte del porto (1954), “l’autodifesa mascherata”: è emblematica la scena in cui Marlon Brando, coraggioso combattente contro un’organizzazione criminale, viene preso a cazzotti. L’apologia del tradimento a fin di bene.Terry Malloy (Brando), è uno scaricatore di porto ed ex pugile, apparentemente senza umanità, che ha come fratello il pezzo grosso di una gang che controlla il sindacato dei portuali di New York; grazie ad una faticosa presa di coscienza, all’amore per la sua ragazza (Eva Marie Saint) e alla Chiesa (rappresentata da un parroco d’assalto), testimonia contro la sua associazione criminale. Kazan mescola le carte ad arte, ed Hollywood gradisce molto, tanto che il film vince meritatamente ben sette Oscar. Fronte del porto è un film coraggioso per l’epoca, un noir con forti connotazioni melodrammatiche girato quasi tutto all’esterno, a New York.

Da questo momento Kazan diviene il regista più corteggiato di Hollywood, del quale sorprende una dichiarazione che però non collima con il suo conflitto interiore mai negato:

“Non ho una vasta gamma, non vado bene con la musica, i classici sono oltre la mia portata … sono un mediocre regista, tranne quando una pièce teatrale o un film tocca una parte delle mia esperienza di vita, ma  ho coraggio, qualche volta anche un po’ di temerarietà. Sono capace di parlare agli attori, di farli lavorare al meglio”.

 

Il regista va sul torbido insieme a Williams con il film Baby doll, (il meno riuscito della coppia Kazan-Williams), un concentrato di erotismo molto spinto per l’epoca, costruito tutto su sguardi, atmosfera, e suggestioni carnali non su atti espliciti, ricercatissimi invece nel cinema di oggi. Per buona parte della critica moralista è risultato un film irritante; ma senza dubbio si è di fronte ad un qualcosa di mai visto prima e viene da chiedersi: perché i due collaboratori insistono sulle suggestioni suddette, senza tregua? La risposta si può facilmente ricercare nella vita privata di Kazan e nella sua ossessione per la famiglia e per il sesso: ha avuto tre mogli e moltissime amanti tra cui anche la Monroe prima di sposarsi con il drammaturgo Miller, dichiarando di non poter fare a meno di portare via le fidanzate agli amici.

Grande successo invece per La gatta sul tetto che scotta (1958): la gatta in questione è Maggie la bellissima moglie interpretata da Liz Taylor, di Brick (Paul Newman), ex atleta nevrotico che si rifiuta di dormire con la moglie. Ed il tetto scotta per via delle incomprensioni e discussioni, parole celate, menzogne, tra Brick, suo padre, ricco ed autoritario proprietario terriero del Sud, l’avido fratello e la sua odiosa moglie. Qui sono i dialoghi resi a regola d’arte che svelano il vissuto e la psicologia dei personaggi, le loro inquietudini. Memorabile lo scambio di battute tra padre e figlio, la rievocazione dei ricordi, la sensualità misteriosa di Maggie che cerca di squarciare la freddezza sospetta di suo marito. Kazan evoca e rappresenta un mondo in disfacimento materiale e morale, il famoso Sud che in questo film odora di morte, ricoperto da polvere e muffa, ma tenuto ancora in vita da una sensualità esasperata.

Ma già nel 1951 Kazan e Williams avevano messo in scena quei nuovi fermenti del cinema americano ,che vuole accostarsi a temi considerati scottanti, cercando di liberarsi di quell’impalcatura spesso fittizia e perbenista dell’industria cinematografica. In Un tram che si chiama desiderio, la coppia fa sfoggio del dramma di una donna nevrotica e con turbe sessuali, Blanche Dubois (una strepitosa e commovente Vivien Leigh), ma fragile, insicura e dal passato travagliato. Va ad abitare della piovosa e cupa New Orleans, dalla sorella Stella (Kim Hunter) che nel frattempo si è sposata con il rude Stanley (un indimenticabile Marlon Brando). Blanche cerca di farsi sposare da un suo corteggiatore, ma instaura gradualmente un ambiguo e pericoloso rapporto con il cognato che scivolerà nella follia.

Kazan usa la cinepresa come uno strumento di indagine psicologica,volta a filmare, sguardo dopo sguardo, parola dopo parola, il senso di morte presenta nella casa di Stella e di suo marito e la progressiva devastazione interiore di Blanche, la sua paura di invecchiare, di non riuscire a dimenticare il suo passato, pur volendo ricostruirsi una vita. Kazan fa parlare il fisico scultoreo esibito con tracotanza di Brando, fa di lui un cattivo- vincente. La cifra del film è tutta incentrata sulla scenografia scarna, sulla potenza della parola e sull’espressività dei protagonisti.

Il 1951 è stato anche l’anno del dramma La rosa tatuata, divenuto un film nel 1956 diretto da Mann con la nostra italiana Anna Magnani. Un grande successo. Tre anni dopo è la volta della messa in scena di Improvvisamente l’estate scorsa, film ambiguo di  Mankiewicz, incentrato sulla lobotomia, tema caro a Williams, reso con una curiosa contaminazione tra una sorta di giallo americano e dramma europeo. Seguono La dolce ala della giovinezza, con Paul Newman e La notte dell’iguana, girato con Huston, in un periodo di straordinaria prolificità letteraria. E poi Fango sulle stelle, rievocazione degli anni 30 americani, indirettamente autobiografica,che riflette sulla figura dell’intellettuale di fronte ai problemi sociali,che ci consegna un Kazan forse più sereno e contemplativo, nonostante non mancasse mai la polemica contro l’arroganza dei ricchi,la lotta sociale, il garantismo; tutti temi che sono presenti in maniera più forte nei suoi film iniziali come Un albero cresce a Brooklyn (1945), Barriera invisibile (1947), e i successivi Un volto nella folla, Il compromesso, I visitatori, Gli ultimi fuochi.

Elia Kazan ha trasferito sul grande schermo le proprie ansie, i propri conflitti e le proprie frustrazioni, facendo della settimana arte uno strumento di terapia.

 

La comicità muta e caotica di Buster Keaton

Joseph Francis Keaton (1895-1966) in arte Buster Keaton, attore, sceneggiatore e regista statunitense, che vive il suo periodo d’oro negli anni Venti, è ricordato come uno degli attori comici più importanti del cinema muto americano delle origini. Formatosi nel teatro, grazie anche al supporto dei genitori, anch’essi attori, la sua attività è presto interrotta dalla Gerry Society (un ente attivo contro lo sfruttamento del lavoro minorile) che costringe i genitori a tenere il figlioletto lontano dalle scene dello spettacolo The Three Keaton. Ma le potenzialità del piccolo Keaton non sono sottovalutate, così che la sua carriera teatrale è ristabilita per continuare fino al 1917 quando, ventunenne, passa al cinematografo. L’esperienza maturata nelle vaudeville sarà fondamentale per la sua carriera e una delle caratteristiche riconoscibili di Buster Keaton è la sua nota espressione seria. Questa sua peculiarità gli varrà il soprannome di “faccia di pietra”, ma non è stata solo questa caratteristica a renderlo uno degli esponenti più importanti della comicità di quel periodo.

« Ma come la cosidetta “great stone face” è, in sé, un elemento secondario riduttivo e in ultima analisi sviante (l’apparenza più vistosa e neppur rivelatrice di una costellazione ben più complessa e sottile), così i mille fili che legano il cinema al teatro di K. Non possono essere ridotti al cordone un po’ troppo spesso e indifferenziato dell’impassibilità»(1)

Questa definizione di “uomo che non ride mai” è però sorprendente. Se si analizzano le espressioni degli attori comici, la serietà è piuttosto una norma che un’eccezione. Chi ha lo scopo di divertire non ride a sua volta, ma nella maggior parte dei casi mantiene un’espressione seria, come se le situazioni bizzarre che si stanno svolgendo fossero normali. È questo l’elemento scatenante che suscita la risate nel pubblico e che Keaton assorbe e fa suo.

Approdato nel cinema, Keaton ha già assunto questo atteggiamento in automatico. Ma non è solo la sua espressione impassibile a renderlo celebre. Un altro elemento caratterizzante dell’attore, che verrà enfatizzato poi nel cinema, è la sua incredibile atleticità. Già nel teatro Keaton, anche in tenera età, è sottoposto a sforzi fisici e acrobazie non indifferenti, che in seguito, nel cinematografo diventano sempre più spettacolari. La capacità di dominare il proprio corpo e usarlo a suo piacere permetterà al comico gli incredibili exploit acrobatici che lo resero famoso. L’epoca d’oro degli slapstick è caratterizzata da attori dotati di elevate capacità acrobatiche. Ricordiamo Roscoe Arbuckle (Fatty), che a scapito della sua “possenza” è incredibilmente agile, Charlot, che anche se non famoso precisamente per questa dote, non è certo legnoso nei movimenti. Ma Keaton, a differenza dei suoi colleghi non costruisce un “tipo”. Charlot  ha bastone e bombetta, Harol Lloyd i suoi occhiali; Keaton, in un periodo dove i suoi colleghi girano pellicole che costituiscono una continuità episodica, produce opere diverse tra di loro e protagonisti diversi. Tra queste pellicole vanno ricordate Our Ospitality, The navigator, Neighbors. Come negli spettacoli teatrali, anche nei film non è mai lo stesso, ogni volta modifica i clichè prima che questi si cristallizzino, così la gente ritorna a vedere le novità. Ma nel cinema per Keaton la regola d’oro è quella di strappare una risata senza risultare eccessivamente ridicoli, rispettando le leggi drammatiche e psicologiche dell’opera e dei personaggi e anche della realtà. Questo elemento si aggiunge agli altri che lo differenziano dai suoi colleghi, ad eccezione di Chaplin che è estremamente attento a questi aspetti.

«Ma forse, la differenza è così grande perché il termine comicità è compromesso; un’etichetta troppo riduttiva per essere applicata, sola, all’arte di Keaton. […] i suoi film più riusciti possono far ridere fino alle lacrime, ma non sono né ridicoli, né tantomeno risibili.»(2)

Nel 1917 l’incontro con Fatty Arbuckle avviene casualmente e con lui Keaton partecipa, come spalla, a circa quindici two reels (le “due bobine” che erano la lunghezza standard di questo genere). Con lui Keaton muove i primi passi nel cinema e impara ad adattare le sue abilità e capacità a questa nuova espressione. L’attore mostra subito la sua rilevanza scenica e inizia a far sentire la sua personalità. All’epoca non si lavorava con una sceneggiatura scritta, quindi tutti gli attori comici di quel periodo non seguivano uno schema tecnico, ma si iniziava a girare il film seguendo un’idea e si cercava di trovare rapidamente  il risvolto finale. Questo modo di lavorare lascia liberi gli attori di rapportarsi con l’ambiente e gli altri personaggi. Erano quindi fondamentali le capacità d’improvvisazione. Un elemento caratterizzate di questi attori e in questo caso di Keaton, è  proprio l’abilità di manipolare e reinventare gli oggetti di uso comune donando loro un nuovo significato. Ma Keaton, nel fare ciò, non sottovaluta mai il rapporto con il pubblico e nella costruzione delle scene tiene conto della loro probabili interpretazione ed analisi.

Cinematograficamente parlando, il periodo tra il 1920 e il 1929 si può dividere in due parti. Il 1923 viene considerato uno spartiacque in quanto anno di passaggio dalle two reels al lungometraggio. Tra i suoi lungometraggi più conosciuti ricordiamo Sherlock Junior, The Cameraman, Spite Marrige.

Keaton diventa regista quando si trova nella sua piena maturità cinematografica, elaborando un suo mondo tragico in cui il gag diventa uno strumento che trascende il suo significato abituale. Le scene di Keaton, oltre ad essere molto “fisiche” mettono in scena un percorso che fa partire il personaggio da un punto A per farlo arrivare in un punto B, attraversando piccole sequenze una dietro l’altra. Questa viene chiamata gag-traiettoria e nel suo sviluppo Keaton percorre strade, attraversa edifici, manipolando e utilizzando oggetti in piccole sequenze comiche che susseguendosi una dopo l’altra formano un unico percorso. Gag-macchina invece indica il modo il cui Keaton si approccia ad un elemento macchina, case, oggetti, mezzi di trasporto. In questo rapporto il personaggio di Keaton non si fa inglobare dagli oggetti e dagli spazi, ma li manipola a suo piacimento, li reinventa, li adatta allo scopo da raggiungere.

Il confronto con Charlie Chaplin appare inevitabile. I due attori si conoscevano e si scambiavano idee di gag per adattarle poi al loro differente modo di interpretare e vedere il mondo. Chaplin, nella sua grandiosità oltre ad un uso degli oggetti e dell’ambiente, ha caratterizzato i suoi film rendendoli anche molto sociali. Ha trattato dell’alienazione sociale, della povertà, della discriminazione e lo ha fatto attraverso l’empatia trasmessa al pubblico, il pathos, la centralità del personaggio che sovrasta, a livello di importanza scenica, sull’ambiente che lo circonda. Questo gli ha permesso di avere successo anche dopo l’avvento del sonoro, una novità nel cinema che invece metterà in crisi Keaton, che non è riuscito ad adattarsi come invece ha fatto il suo collega. Keaton è poco psicologico, poco empatico e non cede mai al pathos e ciò non  gli ha permesso di avere la stesso successo di Chaplin. La sua imperturbabilità non si è adattata al progresso che stava investendo il cinematografo.

Tuttavia i film di Keaton, ancora oggi, sebbene muti, riescono ad esprimere molto profondamente l’illusione del lieto fine. Il suo cinema è caratterizzato dalla sopraffazione e dal caos espressi nel dramma della realtà.  Questa visione tragica si contrappone alla comicità degli eventi, ma l’attore non è riuscito a sfruttare le potenzialità del sonoro, che mal si adattavano alla sua pratica. Tutti questi elementi lo hanno reso meno famoso, meno popolare del collega Charlie Chaplin, ma è indubbio che la figura di Buster Keaton è importante per descrivere la storia del cinema delle origini. A livello teorico il merito principale è il rifiuto, sia della consolatoria sovrapposizione dell’ideale al reale, sia della reazionaria impossibilità dell’ideale, mentre a livello poetico il merito più grande di  Keaton è l’aver espresso angosce e incubi nella reale concretezza di geniali gag.

 

(1)Il cinema di Buster Keaton, a cura di Piero Arlorio, La Nuova Sinistra Edizioni Samonà e Savelli, Roma, 1972, p. 8

(2) Ivi, p. 12

Il cupo noir de “La scala a chiocciola”, di Siodmak

Quando sentiamo parlare di noir, probabilmente ciò che viene in mente sono immagini cupe dei vecchi film in bianco e nero della vecchia Hollywood. Ma dietro il concetto stesso di noir si nasconde, più che una definizione teorica e definitiva, un insieme di caratteristiche stilistiche che comprendono elementi tecnici e tematici ricchi di sfumature.

Il noir è proprio questo, una sfumatura. Ci sono diversi dibattiti in corso che portano avanti argomentazioni sulla definizione più o meno precisa di cosa sia o come inquadrare questo genere cinematografico e  quasi tutte si ritrovano a dare al noir più una definizione di stile che di genere. Una delle particolarità che rende questo stile cinematografico riconoscibile tra gli altri è data dall’influenza derivata dall’espressionismo tedesco e quindi da quei registi che a causa del nazismo decidono di lasciare l’Europa, per approdare negli Stati Uniti. Tra questi Robert Siodmak, insieme a registi come Fritz Lang, Billy Wilder, Edgar G. Ulmer, Otto Priminger ed altri ancora, grazie alla continuità della sua produzione ha dato un fortissimo contributo al noir degli anni Quaranta in America. I caratteri predominati sono un uso predominante del contrasto bianco/nero, la presenza nella trama  di un atto criminoso, che spesso riguarda l’omicidio di uno dei protagonisti, l’uso del flash-back e la chiara ambientazione urbana. Le vicende si svolgono, nella maggior parte dei casi in grandi metropoli americane come New York, Chicago, San Francisco, ma alcuni registi hanno preferito spostarsi e focalizzare la loro attenzione su uno spazio in netto contrasto con quello urbano, la casa.

Tra le pellicole più conosciute che identificano la casa come un organismo che vive una propria autonomia e che nasconde tra i corridoi e gli antri oscuri il male, La scala a chiocciola (The spiral Staircase; USA, 1945) di Robert Siodmak, è tra i film più rappresentativi dello stile cupo del noir, che hanno come caratteristica fondamentale l’ambientazione domestica che assume questo carattere claustrofobico.

 

La pellicola è ambientata in un’America dei primi del Novecento e racconta la storia di una giovane donna, Helen, colpita da afasia che vive in una grande casa come ragazza alla pari presso la famiglia Warren. La proprietà che viene presentata è un grande maniero neogotico sperduto nelle campagne inglesi. Gli abitanti del luogo sono terrorizzati dalla presenza di un manico seriale che colpisce le ragazze affette da malformazioni, per cui Helen, rientrando nella categoria, potrebbe essere la prossima vittima. La casa raffigura il luogo in cui i personaggi si sentono protetti dal male che vive al di fuori di essa, ma il noir ha modificato spesso questa visione, affidando alla casa un ruolo da protagonista e trasformandola da luogo sicuro a trappola mortale. Il film prosegue mostrando al pubblico piccoli indizi che portano ad intuire che l’assassino è proprio un abitante della casa.

Siodmak, grazie anche all’importante contributo di Nicholas Musuraca che cura la fotografia, riesce immergere lo spettatore all’interno di questa violenta sensazione claustrofobica, che indirizza l’intero film. La vera protagonista della pellicola è quindi la casa, che è di per se un archetipo “con la sua solenne vetustà, gli spazi vasti e tortuosi, le ali abbandonate o fatiscenti, i corridoi umidi, le malsane catacombe segrete e una costellazione di fantasmi e leggende terrificanti, rappresentava il nucleo centrale da cui si irradiavano ansia e paura demoniaca”(1). Siodmak infatti riesce, grazie ad un importante uso della tecnica del chiaroscuro, a dare all’ambientazione domestica una forte autonomia, animata poi dalla presenza dei suoi abitanti.

 

Robert Siodmak

Con questo film Siodmak ha realizzato uno dei migliori noir desuet, che secondo la definizione di Borde e Chaumenton indica quei noir che sono ambientati in periodo tardo vittoriano, fatto di case gotiche, donne in crinoline e assassini che si nascondono e scompaiono dietro la nebbia inglese.

La grande tenuta dei Warren è popolata da diverse personalità. I servi, che con Helen dividono gli ambienti quotidiani e che si dimostrano protettivi nei suoi confronti. I due padroni di casa, due fratelli in perenne tensione tra di loro: Albert, lo stimato e serio professore, e Steve, dongiovanni, da poco rientrato dall’Europa. Bianca, la giovane assistente di Albert e la signora Warren, un’anziana donna dalla forte personalità, ma malata e quindi  costretta a letto.

I personaggi che vivono in casa sono intrappolate in essa. La Signora Warren è lei stessa imprigionata nella sua stanza, incapace di muoversi dal letto, ha un’infermiera che non sopporta che sorveglia la sua stanza. La camera da letto è inserita nel contesto gotico della villa con il suo arredamento eccentrico caratterizzato dalla presenza di animali imbalsamati, un tappeto ricavato dalla pelle di una tigre, farfalle appese alle pareti. Tutti animali che in vita rappresentano la forza, la libertà adesso sono presentati dopo la loro morte in completa immobilità e debolezza. Si presenta quindi un altro carattere del noir che propone spesso l’analogia tra il personaggio e la stanza che abita. La donna esattamente come i suoi animali impagliati, parla sempre, forse troppo, vede tutto, sa tutto, ma fatica ad attivarsi fisicamente, è intrappolata.

L’altra donna della casa è Bianca, contesa tra i due fratelli, anche lei desidera scappare dalla casa e quando deciderà di farlo, verrà uccisa. Come afferma la Signora Warren, i rami degli alberi intorno alla villa sono come scheletriche braccia che avvolgono la casa soffocandola. Chiunque vi rimanga rischia di morire. Perfino l’infermiera decide di andar via. La casa rimarrà in balia delle volontà dell’assassino.

La scala è l’arteria principale di questo grande organismo, sui grandini avvengono alcune delle situazioni più importanti ed emozionanti del film divenendo l’elemento fondamentale di questo noir. La casa, appare anche in altre pellicole nella sua forma predominante. Notorius (1946), Psyco (1960) del maestro del brivido Alfred Hitchcock, sono solo un paio di esempi in cui la casa diviene funzionale alla suspense, in termini di dilatazione del tempo e frammentazione dello spazio. La scala è un’immagine della paura che aumenta costantemente più si scende verso la cantina. Diviene tramite per gli inferi, luogo del rimosso dove “nel buio accadono tante cose”. Antro lovecraftiano di orrori indicibili la cantina della casa ha anche una sua voce, un soffio di vento che spira inoltrandosi tra le porte.

La protagonista Dorothy McGuire (Elena) in una scena del film

Siodmak mette inoltre in atto quella “poetica degli oggetti” tanto cara ad Hitchcock. Secondo questa prospettiva infatti anche le cose più semplici e di uso quotidiano  possono assumere degli aspetti e delle prospettive cupe e mostruose.

“La fotografia di Musuraca sottolinea la claustrofobia attraverso la presenza di forti caratterizzazioni delle due scale principali della casa. Quella di rappresentanza, è interamente decorata e attraverso le sue forme crea intorno alla protagonista il motivo a sbarre che intrappola la figura. La scala a chiocciola, da cui il film prende il nome, è quella di servizio che porta verso la cantina. A differenza di quella principale è scarna, essenziale, ma la sua forma a spirale non la rende meno ossessiva della prima. Lo spazio che viene racchiusa dalla spirale della scala introduce Helen nelle spire della paura” (2). E questa gabbia viene costruita dalle ombre dei passamano delle scale sulle mura della cantina e della villa. Queste intrappolano e letteralmente segregano tutti gli abitanti in questi spazi. La grande casa ha stanze imponenti, areose, che comunicano le une con le altre, ma questo non basta per eliminare l’angoscia che la pervade.

Questa pellicola, dalla trama avvincente, permette quindi di fare una riflessione sull’importanza dello spazio in cui avvengono le azioni, soprattutto quando questo spazio non si limita ad accoglierle, ma diventa esso stesso protagonista principale agendo sui personaggi. Paura, ansia, angoscia sono solo alcune delle sensazioni che vengono strasmesse.

Con La scala a chiocciola, Siodmak è riuscito a dare alla casa un’immagine che nel noir verrà utilizzata soprattutto quando vi è l’intenzione di destabilizzare il protagonista dalle sue certezze. Generalmente  la casa del noir, simboleggia sicurezza e protezione dal male che vive per le strade della città, ma questa come altre pellicole dimostrano che non sempre è così.

 

(1)Robert Siodmak. Il re del noir, a cura di Emanuela Martini, Fondazione Cineteca Italiana, Bergamo, 2000, pag. 90

(2)  Alberto Guerri, Film noir. Storie americane, Gremese Editore, Roma, 1998

 

 

 

Narrazione e stile in “Quarto Potere” di Orson Welles

“Soffre di gigantismo, di pedanteria, di tedio. Non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e più tedesco di questa parola”. Sono le parole quanto mai azzeccate, del grande scrittore Jorge Luis Borges a proposito del capolavoro firmato da Orson Welles, Quarto potere (Citizen Kane), del 1941.

Quarto potere narra della straordinaria carriera di Charles Foster Kane, magnate della stampa scandalistica ed erede di una colossale fortuna, candidato politico battuto e infine, bislacco marito di una falsa cantante lirica, per il cui successo spende un patrimonio, ma inutilmente. Ritiratosi nel castello da favola di Xanadu, muore in solitudine, pronunciando una parola di cui nessuno comprende il significato: “Rosebud”. Un giornalista cercherà di scoprirne il significato, indagando nell’ infanzia di Kane e intervistando suoi amici e dipendenti. Da sempre in testa alla lista dei 10 migliori film del mondo, Quarto potere ha avuto 8 nominations agli Oscar: film, regia, Welles attore, fotografia, musica , scene, montaggio, ma ha vinto solo quello della sceneggiatura (Herman J. Mankiewicz, O. Welles).

Orson Welles ha rivoluzionato la calligrafia tradizionale, riassumendo in un solo film tutte le esperienza tecniche e artistiche ai fini della sua riflessioni sul capitalismo nordamericano e sulla caduta del sogno americano di cui Kane è l’emblema. Ciò che è importante prendere in considerazione è lo stile di questo masterpiece e come spiegano Bordwell e Thompson in Cinema come arte, teoria e prassi del film, scopriamo così che il film è organizzato come una ricerca: il giornalista Thompson è una sorta di investigatore che cerca di trovare il significato dell’ultima parola pronunciata da Kane prima di morire; l’inizio del film genera un mistero: dopo che una dissolvenza d’apertura ha rivelato il cartello di divieto d’ingresso nella proprietà, la macchina da presa oltrepassa alcune cancellate per poi indugiare sulla grande tenuta, mentre la casa (che in realtà consiste in una serie di dipinti combinati con la tecnica matte con i modellini tridimensionali ripresi in primo piano), resta sempre sullo sfondo. Il film, dominato da una luce fosca e una musica funerea, è attraversato da un’atmosfera sovrannaturale propria dei racconti del mistero.

La macchina da presa continua a muoversi verso le cose potrebbero rivelare i segreti della personalità del magnate Kane, seguendo uno schema di penetrazione nello spazio e di ingresso graduale nella storia, creando suspence e curiosità nello spettatore. Nei flashback, Welles evita il montaggio alternato, girando in piani sequenza lunghi e statici, limitandosi a mostrare ciò a cui hanno potuto assistere i partecipanti della scena. Welles si avvale di una fotografia focale profonda, la quale produce una prospettiva esterna sull’azione, rinunciando agli stacchi di montaggio, usando la messa in scena nello spazio profondo e il suono.

La narrazione di quarto potere colloca in contesti più ampli le visioni oggettive dei narratori: l’inchiesta di Thompson si riferisce a diversi racconti e noi sappiamo quanto ne sa lui, ma il protagonista del film è e rimane Kane; attraverso l’uso del chiaroscuro, Thompson viene reso irriconoscibile: volta le spalle allo spettatore e di solito è al buio in un angolo. Tutto questo per rendere il giornalista un investigatore neutrale. Tuttavia tale indagine giornalistica è posta in una narrazione onnisciente come si può subito notare dalla sequenza di apertura di Xanadu: quando entriamo nella camera del moribondo Kane, “lo stile suggerisce di tuffarsi nella mente dei personaggi”. In questo modo abbiamo una visione soggettiva delle cose.

Osservando lo sviluppo narrativo di Quarto potere, possiamo notare come Kane da giovane idealista si trasformi nel corso della vita in un uomo solitario, senza amici. Questo contrasto è visibile nella messa in scena  e in particola modo negli allestimenti degli uffici di Xanadu e nella redazione dell’ “Inquirer”. La transizione dalla vita del protagonista all'”Inquirer” alla reclusione finale a Xanadu è anticipata da un cambio di messa in scena all'”Inquirer”, mentre Kane è in Europa, le statue che spedisce in patria iniziano a riempire il piccolo ufficio e ciò indica la crescente ambizione di Kane. Ma quando le ambizioni politiche vengono spazzate via, il magnate cerca di sostituirle creando una carriera pubblica per la moglie, priva di talento artistico.

Quella del cinegiornale è una sequenza fondamentale, in quanto funge come una sorta di mappa degi fatti dell’intreccio; in primo luogo il regista ci fa credere che si tratta davvero di un cinegiornale per stabilire il potere e la ricchezza di Kane, usando diverse tecniche per ottenere l’aspetto e il suono di un cinegiornale dell’epoca: la musica è quella dei cinegiornali, e le didascalie ne sono una convenzione.

Un altro importante aspetto da rilevare in Quarto potere è il modo in cui l’intreccio manipola il tempo storico: il passaggio dal presente del narratore agli eventi passato che spesso racconta è intensificato da uno stacco “traumatico” che crea una contrapposizione stridente come dimostrano l’inizio del cinegiornale dopo la sequenza del letto di morte o il passaggio dalla pacata conversazione  nella sala di proiezione del cinegiornale ai tuoni e fulmini fuori dal nightclub El Rancho. Anche la musica rafforza lo sviluppo dello sequenza: la cena iniziale è accompagnata da un valzer; ad ogni passaggio, la musica cambia, ad esempio la scena finale, dominata dal silenzio della coppia, è accompagnata da una lente e lugubre variazione del tema iniziale. Vi sono diversi motivi musicali: quello associato al potere di Kane, il modo in cui l’arredamento della stanza della cantante Susan rivela il comportamento di Kane nei suoi confronti, le foto che si animano e le sovraimpressioni durante le sequenze di montaggio.

 

 

 

Exit mobile version