‘Doppio sogno’ di Arthur Schnitzler: un cammino iniziatico

Arthur Schnitzler ˗ classe ’62 dell’Ottocento˗ non ha bisogno di presentazioni. La sua arte letteraria, fine come poche altre al mondo, fu il prezioso filo d’oro con cui potè tessere opere di fattura pregevole, godibili da chiunque senza particolari esercizi di raziocinio. La semplicità del linguaggio e della costruzione, dote tipica dei grandi ˗ come ribadito con convinzione in altre sedi ˗ , è la malta perfetta, anche e soprattutto in un libro profondo come Doppio sogno (1926), per legare assieme le preziose pietre grezze dei vari episodi della storia, che divengono pietra d’angolo totale nella realizzazione finale dell’opera.

Copiosa la critica, abbondante la rielaborazione della Doppelnovelle, ai fini cinematografici. Doppio sogno divenne la Dream story di BBC Radio 4, ed un interessante film di Mario Bianchi, oltre che un capolavoro assoluto del cinema mondiale: Eyes Wide Shut  (1999), di Stanley Kubrick, ch’ebbe l’onore di essere l’ultima opera cinematografica del regista più geniale della storia del cinema.

Doppio sogno. Un titolo dal sapore quasi scientifico, psicanalitico. Molti quelli che l’attribuirono ad una forte influenza di Sigmund Freud sull’autore che, nel suo diario, invece, scriveva che «non è nuova la psicanalisi ma Freud. Così come non era nuova l’America ma Colombo».

E certamente, seppe scrutare, indagare e penetrare l’inconscio umano, Schnitzler, componendo il suo breve e potente romanzo. Nella storia, l’autore mette a nudo la realtà, ponendola ad un lettore che, sprovveduto, potrebbe ingannarsi e ritrovarvi dell’irreale, del trascendentale. Se è vero, infatti, che la realtà supera di gran lunga l’immaginazione, chi legge Doppio Sogno si trova a misurarsi con una spirale di accadimenti facilmente riconducibili alla vita reale, ma narrati in un abile stile asciutto e privo di fronzoli, dal forte impatto e dalla potente natura evocativa: qualcosa di molto simile all’in-credibile ed im-possibile mondo onirico.

Tra le pagine si agita una vita piacente e lussureggiante. L’ambiente è quello di una elegante ed accogliente cittadina austriaca. Una realtà fatta di seri cappotti borghesi; caldi caffè, colmi di gente fino a notte fonda; carrozze misteriose; sfarzosi e goliardici balli in maschera; una grottesca società segreta. Fridolin, un bell’e giovane medico con una carriera soddisfacente, ed Albertine, sua degna moglie, tornati a casa da una particolare e sfarzosa mascherata, forse eccessivamente stimolante, ingaggiano una banale discussione che degenera in un velenoso scambio di confessioni taglienti. Gesti, pensieri, desideri peccaminosi, malizie, confluiti di getto in una serata irreale e quasi insana, ed altrimenti non confessabili. Le ammissioni dispettose, fatte quasi prevalentemente per ferire l’altro, fanno scattare in entrambi i coniugi, per tutto il racconto, una serie di pulsioni e tensioni visionarie, che rivelano una sorta di sentimento astioso dell’una e dell’altro protagonista. Una urgente telefonata di lavoro per il dottore interrompe il litigio, costringendolo ad uscire di casa nonostante l’ora tarda. Fridolin si ritrova, così, immerso nell’invernale città notturna, che gli apre un cuore di misfatti, tentazioni, passioni, misteri. Le vicende del protagonista s’intrecciano casualmente con quelle di un’oscura e bizzarra società segreta, il cui nome non è dato sapere, e che si riunisce esclusivamente a notte fonda, protetta da una parola d’ordine. All’alba, al suo rientro, Albertine gli rivelerà uno strano sogno appena fatto, l’analisi del quale farà capire a Fridolin molte più cose di quanto non immaginasse, sulla propria moglie.

L’opera si conclude con un compromesso formidabile, pulito, eppure affatto banale, che rivela una certa, geniale concezione psicologica della vita da parte di Arthur Schnitzler; una singolare Weltanschauung, se si vuole, che l’autore pone come una verità alla quale i protagonisti giungono solo alla fine di un tribolato cammino iniziatico. Il mondo non è propriamente del Conscio, né propriamente dell’Inconscio, ma d’un celato Conscio intermedio, quasi del tutto impercettibile, colto raramente dall’uomo comune, e che lo scrittore ha voluto confidare apertamente, in maniera assai alta, ed abilmente codificata.

Sherlock a Shanghai, di Cheng Xiaoqing

Cheng Xiaoqing (1893-1976) è il più famoso autore di detective stories cinesi della prima metà del Novecento. La sua notorietà è determinata non solo dalla vasta produzione letteraria, decisamente prolifica (oltre 30 volumi), ma anche dall’interesse che continua a suscitare in ambito critico e storiografico. Le opere di Xiaoqing infatti offrono un prezioso contributo agli studi letterari comparativi e postcoloniali.

L’autore cinese è stato uno fra gli esponenti più brillanti di quella corrente letteraria meglio nota come ‘Mandarin Ducks and Butterflies’. Il termine rimanda a quella forma di letteratura popolare che caratterizzò la scena cinese nei primi anni del Novecento e che ha indicato il romanzo popolare dai contorni rosa e poco pretenziosi, diffuso soprattutto tra le classi meno abbienti. Tuttavia a cominciare dal 1920 una nuova generazione di giovani scrittori ‘The May Fourth movement’ adottò il termine per tutti i romanzi popolari vecchio stile e che, oltre all’amore, puntavano a provocare il pubblico ben pensante, moralista e convenzionale con trame audaci, d’avventura o poliziesche. Questi romanzi erano ad ogni modo destinati ad un pubblico di massa non certo elitàrio o accademico. La corrente letteraria finì col ricalcare il meno ambizioso stile da soap opera o pulp e pertanto gli autori del ‘May Fourth movement’ furono etichettati, a torto o ragione, come commerciali.

Questa stessa letteratura ben si prestò all’arte cinematografica per il Mingxing Studio che tra gli anni ‘20 e ‘30 costituì un nodo importante per la diffusione di una cultura massificata e che allo stesso tempo fosse in antitesi al cinema americano. Tuttavia Xiaoqing è l’esponente più noto e tradotto all’estero per la capacità di aver dato vita al genere Western detective alla Sherlock Holmes. Il protagonista di Sherlock a Shangai è ben inserito nel contesto orientale che l’autore non tradisce, creando una sinestesia tra Oriente e Occidente, ne evidenzia le tensioni e le atmosfere con un andamento narrativo che è proprio di quello orientale. Un microcosmo meraviglioso, tra due tradizioni importanti che si incontrano e dialogano, offre al lettore una di quelle magie che a volte si concretizzano sulle pagine migliori della letteratura.

Leggere un poliziesco ambientato in Cina, per di più negli anni Venti, rappresenta un inedito piacere per il lettore occidentale, avvezzo a ben altri canoni.

Nei sette racconti che compongono il lavoro di Xiaoqing, il detective Huo Sang e il suo assistente si misurano con altrettanti casi in cui deduzioni affrettate, per quanto logiche, potrebbero ingannare anche la mente più acuta. Il confronto con Conan Doyle è voluto, in quanto l’autore è un grande estimatore del padre di Sherlock Homes. La veste gialla, così, è un’opportunità, quasi un pretesto per mostrare limiti e contraddizioni della natura umana; il tutto inserito in un preciso momento storico, segnato da grandi cambiamenti: la tradizione si scontra con la modernizzazione e Shanghi diviene il teatro ideale per i misteriosi delitti.

Quello che più affascina è proprio la descrizione della metropoli e della sua élite raffinata e al contempo cinica. Nonostante gli episodi siano ricalcati sui misteri holmesiani, le azioni sono ridotte al minimo e alla lunga la prosa, minuziosa e disseminata di dettagli che non aggiungono nulla alla trama, si fa pesante.

Diverte, invece, confrontare il divergente punto di vista dei due investigatori, l’uno analitico e l’altro grossolano, vittima di intuizioni scontate e perciò erronee.

Xiaoqing coniuga l’intento narrativo con uno più prettamente didascalico, tipico di molta letteratura orientale, ed è proprio questo a nuocere alla buona riuscita dei racconti. Se da un lato l’autore vuole infatti stimolare un pensiero critico, dall’altro l’agire del suo alter ego desta perplessità e spesso appare fastidioso e saccente.

Il ritmo cadenzato sostiene l’approccio speculativo, ma richiede un po’ di tempo affinché si possa apprezzare in modo adeguato il testo. Per godere appieno di questo libro davvero singolare può quindi risultare opportuna una seconda lettura, contrassegnata da un atteggiamento differente verso una mentalità che non ci appartiene, ma che senza dubbio affascina.

 

 

Il cinema francese tra il 1930 e il 1950, meglio conosciuto come realismo poetico

Il cinema francese tra il 1930 e il 1950 vive un periodo di fasti e splendore, meglio conosciuto come “realismo poetico”, formula suggestiva ma fuorviante in quanto non ci consente di conoscere totalmente uno dei periodi più ricchi culturalmente e linguisticamente del cinema mondiale. Vale la pena, quindi, esaminarlo in maniera approfondita.

Prima di tutto per comprendere meglio un concetto come quello di realismo poetico, è necessario metterlo a confronto non solo con le modalità della realizzazione dei film ma anche con gli atteggiamenti stessi dei registi, con le loro ideologie professate. Il cinema francese non nasce da sperimentazioni di imprenditori improvvisati ma da una profonda cultura, dalla letteratura, da Flaubert, da Balzac, da Simenon.

Dal punto di vista economico quello del realismo poetico non è un tipo di cinema importante, l’industria non brilla, eppure vengono prodotti capolavori; merito in primis di validi sceneggiatori come Prévert, di talentuosi scenografi come Trauner e Meerson, di geniali operatori come Claude Renoir, Courant, Agostini, di musicisti di ottima scuola come Jaubert e soprattutto di strepitosi attori come Jean Gabin, Michèle Morgan, Michel Simon, Charles Boyer.
La Francia attraversa un periodo di crisi da tutti i punti di vista, i sindacati agiscono più volte ma sempre inutilmente, nel 1935 nasce il <<Fronte popolare>> formato dal partito radicale, da quello socialista e da quello comunista, il quale manterrà il potere solo per due anni. In questo clima dove il cinema non può che vivere una condizione divisa, ottimistica e precaria nello stesso tempo, si fanno avanti due registi “intellettuali ribelli”: René Clair e Jean Vigo.

Il primo ama la piccola realtà della Parigi popolare, il secondo descrive con malignità ed ilarità l’ambiente circostante, collocandovi in posizione dominante delle carogne. Vigo sostituisce l’amore alla protesta anarchica, respingendo i vizi della borghesia, Clair, più razionale e si limita a rifugiarsi in un mondo fatto di brava gente che attendono un colpo di fortuna, accogliendo invece quei vizi, basta prendere come esempio due loro film, Sous les toits de Paris di Clair, e L’Atalante di Vigo per capirlo. Vigo scherza con il destino cantando l’amore, Clair lo subisce, il destino. Alla luce di queste considerazioni è alquanto improbabile l’applicazione della definizione di realismo poetico per questi due cineasti d’avanguardia che non hanno nulla in comune.

Il poco considerato Jean Grémillon può rientrare in quella definizione, il suo amore per quel realismo che troppo spesso è soffocato dall’estetismo compensano una certa debolezza nella resa del melodramma. Tuttavia Grémillon non è da annoverare tra i registi più importanti di questo periodo. Julien Duvivier invece conosce benissimo il linguaggio cinematografico e spesso si ispira al realismo della cronaca nera, pensiamo all’intrigante Pepé le Mokò del 1936 (parodiato da Totò), e si lascia affascinare dal dramma sentimentale come si evince da Carnet di ballo del 1937, giudicato miglior film straniero alla Mostra di Venezia.

Jean Renoir

Diversi registi perseguono il pessimismo, e sarebbe interessante capire chi lo fa per gioco o per convinzione, e tra questi spicca il nome di Marcel Carné, il quale comunica un’asprezza sociale che accompagna i personaggi vittime del destino dei suoi film, come i protagonisti de Il porto delle nebbie del 1938 e Alba tragica del 1939 con un grande Jean Gabin che sembra aver scritto in fronte: <<Ecco il destino che mi aspetta e non è dei più belli>>. Dov’è il realismo nei film di Carné? Nell’amore, si direbbe, che sembra concreto, reso dal regista con una progressione lenta e metodica, contrastata dall’ineluttabilità verosimile del destino; ciò rende la poesia non soave, ma arida.

Jean-vigo

Un discorso a parte merita il grandissimo Jean Renoir, il quale ritrae i pregiudizi, le convenzioni, le stupidaggini della borghesia coinvolgendo, nella sua nostalgia per la libertà, anche la natura (pensiamo a Una scampagnata del 1936). Renoir in un certo senso, ha anticipato il neorealismo rappresentando personaggi legati alla propria terra d’origine, come accade in Toni (1934) e in Boudu salvato dalle acque (1932). Ma il cineasta francese dimostra di avere anche uno spiccato spirito libertario e anarchico come dimostra ne Il delitto del signor Lange del 1935.
La grande illusione (1937), capolavoro della cinematografia mondiale, fa emergere il lato romantico di Renoir, La regola del gioco (1939), altro capolavoro, è una summa di tutte le sue opere: ironia tagliente, profondità di campo, personaggi vuoti e frenetici per raccontare la società borghese nella quale ricchi e nobili si confondono per i quali, citando una ricorrente battuta del film, <<è tutta una questione di classe>>.
La Storia incombe: la Francia viene occupata dai Tedeschi e viene divisa in due zone, si forma il governo di Vichy, e poi la Resistenza; Prévert e Cocteau forniscono materiale interessante al cinema che lo assimila senza problemi. Nel 1942 si fa avanti un nuovo regista Stanislas Steeman con un giallo, L’assassino abita al 21, ma oltre al ritmo incalzante a ad un certa predisposizione nel raccontare il male, non vi è null’altro.

Henri-Georges Clouzot invece ha un talento speciale nell’individuare i punti deboli, i disvalori della società e del mondo. Ma al pubblico non va a genio e il regista è messo al bando. Finalmente nel 1947 può dirigere il suo capolavoro, Legittima difesa, pellicola che ci pone alcuni interrogativi riguardo l’egoismo e la sua perfidia che nasconde dei punti oscuri; Clouzot è un”urlatore”, un “consolatore”, secondo lui laddove non è possibile avere la meglio sul destino, si può trovare una consolazione. Il realismo poetico qui è da ricercare nel sentimento e nella psicologia.

Henri-Georges Clouzot

Senza dubbio, pur non essendo l’espressione “realismo poetico” del tutto fondata per questo periodo, essa, coinvolgendo di più lo spettatore, facendolo immedesimare nei protagonisti, (attraverso l’uso della soggettiva) ha influenzato non poco il cinema moderno, basti pensare al Neorealismo alla Nouvelle Vague.

 

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