Cannes 2024: ‘Anora’ vince la Palma d’oro. Se questo è il nuovo cinema americano

La Palma d’oro 2024 va al Sean Baker di Anora, narratore indie dell’America diseredata con una speciale attenzione per gli hustlers, gli spiantati che campano di espedienti, e per i lavoratori del sesso in particolare. Li considera, uomini e donne, il nuovo proletariato. Il suo film-troppo lungo- sembra all’inizio una replica di Pretty Woman, con una Cenerentola lap dancer che lo svitato rampollo di un oligarca sposa per gioco. Ma poi diventa una scorribanda mozzafiato con bodyguards e genitori nababbi impegnati a ricacciare Cenerentola nel fango da cui è venuta. Solo i perdenti possono darsi, tra loro, comprensione e conforto, e questo avverrà. E’ il più bel film del concorso? Naturalmente no.

Emilia Pèrez, il mélo in musical di Jacques Audiard che ha avuto comunque due premi, il Prix di Jury e la Palma collettiva per l’interpretazione femminile al quartetto protagonista: l’attrice transgender Karla Sofìa Gascon, Zoe Saldana, Adriana Paz e Selena Gomez, avrebbe meritato il premio più ambito.

E’ troppo facile premiare le donne perché fa tanto “femminista impegnato”. Il Gran Premio della giuria, secondo in ordine di importanza, è andato a All we imagine as light della documentarista indiana Payal Kapadia, debuttante nella finzione, con le storie intrecciate di tre donne emarginate da una Mumbai caotica e ostile. Altra regista donna, Coralie Fargeat, premiata per la sceneggiatura di The Substance, un body-horror per palati robusti che denuncia l’asservimento delle donne all’imperativo maschile che le vuole belle, giovani e sode e le cestina sopra i 50. Con una impavida Demi Moore.

E’ discutibile anche il premio per la regia a Grand Tour del portoghese Miguel Gòmez: è il film meno originale della sua carriera, mentre il Jesse Plemons miglior attore per Kinds of Kindness di Yorgos Lanthimos risarcisce un film di sottile humour noir massacrato dalla critica. Restano fuori in tanti, a torto o a ragione: il più vicino a noi è Paolo Sorrentino, che racconta una storia di donna ma con sguardo maschile, il più glorioso è Francis Ford Coppola, col suo pirotecnico sogno di una vita, Megalopolis.

Insomma la giuria presieduta da Greta Gerwig ha assegnato il premio per la miglior attrice a ben quattro interpreti a pari merito: Adriana Paz, Zoe Saldana, Karla Sofia Gascon e Selena Gomez, Karla Sofìa Gascòn, che ha iniziato la sua transizione di genere all’età di 46 anni, è la prima attrice transgender a vincere questo premio. Tutto nella norma.

Il film vincitore racconta tuttavia racconta di una ragazza che sogna di diventare una principessa, una prostituta di Brooklyn,  che ha la possibilità di vivere una storia da Cenerentola quando incontra e sposa il figlio di un oligarca russo. Pellicola curiosa e divertente che consente di fare qualche annotazione in relazione:

Una ragazza di oggi sogna la favola, l’agiatezza, la bella vita, e nel frattempo pratica la propria libertà ed emancipazione facendo la sex worker (come direbbero quelli che parlando bene e che non discriminano!);

per fare ciò la ragazza ha bisogno degli uomini;

sempre la ragazza viene dipinta come l’eroina della vicenda, in quanto donna libera che si “autodetermina” e che smaschera le ipocrisie dell’alta società di cui vorrebbe far parte;

I genitori del ragazzo russo non vogliono avere a che fare con una nuora americana ex spogliarellista e prostituta;

il regista americano prende in giro l’oligarca russo e rappresenta la protagonista, un russa americana, come una sex worker in nero (che originalità).

Una rivisitazione senza troppe ambizioni dunque, di Pretty Woman, Anora, film che secondo alcuni rappresenterebbe il nuovo cinema statunitense, lontano da quello dei grandi maestri, un cinema di piccole storie e nella fattispecie una storia con un protagonista maschile ricchissimo ed idiota e una ragazza sveglia, che “deve” muovere il sedere in faccia alla gente per dimostrare di avere potere sugli uomini.

Anora sembra raccontare solo di una generazione che dà per scontato di doversi vendere. Il regista stira allo stremo ogni idea e questo forse indebolisce Anora anziché rafforzarlo, a maggior ragione considerando il fatto che l’intera trama è completamente prevedibile e non presenta nessuno scostamento da quanto uno spettatore minimamente avveduto possa dedurre dal primo quarto d’ora, per quanto riguarda la prima metà, e poi dall’ingresso in scena degli sgherri e soprattutto dell’attento e gentile Igor per quanto riguarda lo sviluppo che porterà alla risoluzione.

La pellicola intrattiene e porta al pubblico anche qualche spunto di riflessione (senza però spremere troppo le meningi, sia chiaro), ma non è così inventivo o creativo da motivare la propria durata. Basti pensare al dialogo pre-fnale tra Igor e Anora, in cui si ribadiscono otto volte due concetti: sebbene l’attrice protagonista abbia lavorato con Tarantino e in ogni frase dica – volutamente – “fuck” o “fucking” in ogni possibile declinazione, Sean Baker non ha la genialità del collega e il suo film non ha forse la brillantezza per reggere ogni singolo minuto di pellicola (è girato in 35mm).

Anora resta una rom-com spassosa che mantiene comunque quel che promette. Non che prometta più di tanto.

Anora

Festival del cinema di Venezia 2023: vince il divertente e furbissimo ‘Poor things!’ di Lanthimos

Sarà stata davvero una gioia per Damien Chazelle, presidente della giura di Venezia 2023, proclamare Povere creature del regista greco Yorgos Lanthimos, il film vincitore del Festival del Cinema di Venezia 2023. Già perché la protagonista di questa surreale e gotica pellicola è Emma Stone, interprete di La la land (7 premi Oscar nel 2016), proprio di Chazelle.

Malizia (ma non tanta) a parte, era previdibile che vincesse un film che ha per protagonista una “Barbie” punk, la versione femminile di Frankenstein, simbolo di emancipazione femminile. Emancipazione che naturalmente passa per la libertà sessuale della donna.

In un mondo fantastico, un chirurgo dall’aspetto mostruoso trova il cadavere di una donna incinta che si è suicidata buttandosi da un ponte. Dal feto preleva il cervello e lo trapianta nella testa della madre, per poi rianimarla. La donna che ne viene fuori, deve crescere (deve sviluppare il suo cervello) e che lo fa assecondando i desideri sessuali di un corpo già adulto e maturo; una formazione strana in cui l’ingenuità infantile si sposa alla rivendicazione del piacere carnale, diversi uomini e la scoperta delle ingiustizie sociali, economiche e sessuali del mondo vittoriano.

Lanthimos racconta una favola dark sulla potenza femminile sugli uomini, ma anche su cosa accade se una donna è consapevole di questo potere e asseconda i propri desideri senza stare a preoccuparsi del posto che la società vuole per lei o di quello che la società potrebbe dire di lei. Attualissimo, furbo, superificiale, ma il regista greco ha fatto di meglio.

A Venezia Lanthimos non ha fatto altro che dirci ancora una vota che la famiglia è una gabbia che contiene in piccolo tutte le forme di prevaricazione sociale e violenza che sono proprie della società; di conseguenza è necessaria una piccola rivoluzione per ribaltare tutto; e la conoscenza del mondo a partire dalla propria vulva porta a questa liberazione, senza paura e pregiudizi. Povere creature! non ha davvero nulla di suo da aggiungere o dire su questi ragionamenti ordinari e l’abuso continuo di scenografie in computer grafica di gusto non sempre impeccabile, unite a costumi che parlano di fantasie surrealiste senza che poi queste si trovino nel film (e allora perché?) gli danno un’aria pomposa che non può permettersi.

Divertente ma superficiale, abbastanza in linea con le proposte festivaliere di questi ultimi anni. A molti uomini piacerà questa “nuova donna” che in realtà nella nostra società progressista e “liberata” esiste già. Sarebbe questo il femminismo rivoluzionario da cui ripartire?  Povere creature sul serio, allora! Uomini e donne.

 

Venezia 2023 Tutti i premiati, oltre Lanthimos

 

MIGLIOR REGIA

Matteo Garrone per Io Capitano

“Un pensiero al Marocco e alla tragedia di oggi. Il nostro film racconta il viaggio che fanno due ragazzi attraverso l’Africa che cercano di arrivare in Europa e lo fa attraverso il loro punto di vista e la loro angolazione. Volevo dirvi che per poter entrare in quella cultura ho realizzato il film con loro, cercando di essere un intermediario e dare voce a chi non ce l’ha. Passo la parola all’attivista Mamadou”. “IL nostro premio è dedicato a tutte le persone che non sono potuto arrivare a Lampedusa. Darci un visto per viaggiare è lo strumento per stroncare il traffico degli esseri umani”.

 

GRAN PREMIO DELLA GIURIA

EVIL DOES NOT EXIST di Ryusuke Hamaguchi. “Era inaspettato che arrivassimo fino a qui, i miei ringraziamenti vanno a tutti coloro che ci hanno concesso”.

COPPA VOLPI

Cailee Spaeny Per Priscilla
“Tutto questo è magico e inaspettato. È un’esperienza che capita una volta nella vita, ho sempre sentito la responsabilità di onorare la complessità di ciò che ha passato la vera Priscilla, va a lei tutta la mia gratitudine”.

Peter Sarsgaard per Memory
“Questo è il momento della condivisione, dobbiamo ricordarci che siamo una entità. Da ragazzo trovavo questo sentimento nella comunità cristiana, più avanti nel teatro ma non sul palco, in quel momento in cui la luce cala e le nostre menti in silenzio sono all’unisono”. Parla poi a favore dello sciopero e contro l’intelligenza artificiale: “Se perdiamo questa battaglia il nostro cinema sarà solo la prima cosa a cadere”.

Premio Speciale della Giuria

GREEN BORDER di Agnieszka Holland
“Non è stato facile realizzare questo film per motivi che potete immaginare, e per alcuni che non potete immaginare. Dal 2014 a oggi la realtà dei rifugiati che racconto nel film non è cambiata: la gente continua a morire ed essere privata dei propri diritti e non aiutata non perché in Europa non possiamo, ma perché non vogliamo. Dedico questo film a tutti gli attivisti, dalla Polonia fino a Lampedusa”.

Miglior sceneggiatura

PABLO LARRAIN e GUILLERMO CALDERON per El Conde
“Voglio parlare degli sceneggiatori in sciopero: spero si arrivi a un accordo con gli studios per la
dignità e il rispetto per tutti gli sceneggiatori del mondo”.

Premio Marcello Mastroianni

SEYDOU SARR per Io, Capitano
“Sono contento e felice. Non ce n’è parole, non ce n’è. Grazie mille”.

ORIZZONTI

Miglior film

EXPLANATION FOR EVERYTHING Di Gabor Reisz
Vincere un premio da una comunità internazionale significa molto oggi: fare cinema indipendente è particolarmente difficile in Ungheria, vi chiedo di supportarci e seguirci”.

Miglior regia

Mika Gustafson per PARADISE IS BURNING
“Sono sotto choc. Volevo fare qualcosa di nuovo e spingermi oltre ogni confine. Le storie non sono ancora state tutte raccontate, c’è speranza per il futuro”.

Premio Speciale della Giuria

UNA STERMINATA DOMENICA di Alain Parroni
“Realizzare il primo film è un atto doloroso, più che un premio è un patto con le immagini e gli spettatori del futuro. Ringrazio i miei produttori (tra cui Wim Wenders, ndr) per avercela messa tutta per ascoltarmi anche quando non mi capivo da solo”.

Miglior interpretazione femminile

Margarita Rosa de Francisco per El Paraiso.
“Sono molto commossa. Edoardo Pesce, attore possente e straordinario, mio figlio nel film, dice che recitare è un lavoro come tanti altri. Concordo, ma come ogni altro lavoro quando lo fai con amore e dedizione ogni momento diventa un miracolo. Ringrazio poi il mio Paese, la Colombia”.

Miglior interpretazione maschile

Tergel Bold-Erdene per City of Wind.
“Dalla Mongolia mi era difficile arrivare a ritirare il premio, ma vi ringrazio profondamente”.

Miglior sceneggiatura

EL PARAISO di Enrico Maria Artale
“Non mi sono mai considerato uno sceneggiatore, ringrazio Edoardo Pesce, senza il quale e senza la nostra amicizia questo film non esisterebbe. Rassicuro mia madre: i momenti che abbiamo avuto non sono niente in confronto all’amore che mi ha trasmesso in tutta la vita”.

Miglior corto

SHORT TRIP di Erenik Beqiri
“Questo vuol dire molto per me e per il mio Paese (Albania, ndr), spero avremo sempre più modo di esprimerci e raccontare liberamente le nostre storie. E chiedo scusa ai miei genitori per essere stato cattivo qualche volta”.

OPERA PRIMA Luigi de Laurentiis:

LOVE IS A GUN di Lee Hong-Chi
“Nel passato tanti maestri del cinema cinese mi hanno preceduto, io devo imparare ancora molto da loro”.

PREMIO ARMANI BEAUTY per ORIZZONTI EXTRA:

FELICITÀ di Micaela Ramazzotti
“Ci ho messo l’anima per arrivare al vostro cuore. Dedico questo premio a chi sta vivendo un momento difficile ed è nell’infelicità della propria vita: può durare a lungo l’infelicità, ma bisogna lottare tanto, lottare sempre per la felicità, cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno sempre”.

VENICE IMMERSIVE:

SONGS FOR A PASSERBY Di Celine Daemen
“Songs for a Passerby è un viaggio meditativo che ti consente di vederti da fuori come un burattino che si guarda e da emergere il quesito melanconico: sono io ad attraversare la vita o è la vita che sta attraversando me?”

 

Povere creature!, il film di Lanthimos parte da un’idea formidabile ma rimane in superficie | Wired Italia

Oscars 2023. Vince ‘Everything Everywhere All At Once’, ma meritava ‘Gli spiriti dell’isola’. Questione di conscience washing

Al Dolby Theatre di Los Angeles è andata in scena la 95ª edizione dei premi Oscar, la nottata di premiazione più attesa dell’anno. Quest’anno c’è stato un film dominatore in assoluto, Everything Everywhere All at Once che si è aggiudicato ben 7 statuette su 11 candidature.

Il film, costruito su più livelli, intrattiene con il suo montaggio e le scene action esilaranti benché sia ridondante e incontrollato. Everything Everywhere All at Once mescola tutti le vite e i generi possibili: kung-fu, wuxia, mélò, fantasy, commedia. È un film di fantasmi che compaiono e spariscono. Tuttavia sembrava la storia di due amici vestita di echi che sembrano provenire da Brecht, Buzzati e Beckett, quella più meritevole della vittoria. Gli spiriti dell’isola è un film sull’amicizia e le sue contraddizioni, ma è anche un film che parla dell’attesa di qualcosa che forse non verrà mai.

Una storia di sconfitti e reietti che però non hanno la consapevolezza di essere percepiti come tali e che dunque, agli occhi degli spettatori, si traformano in eroi comici che vorremmo facessero parte delle nostre vite.

Gli spiriti dell’isola è un gioiello di regia e sceneggiatura, che racconta l’insensatezza della guerra e del genere umano. Troppo banale e noioso? No, perché nemmeno l’acclamato vincitore sul multiverso che strizza l’occhio a Matrix,  non ha il coraggio di essere elegantemente sovversivo ed originale come questa tragicommedia sulla condizione umana.

Gli Oscars come tutti i premi, valgono quello che valgono, ma l’impressione che l’Academy abbia sfruttato al volo l’occasione per saldare alcuni debiti con la comunità e la cultura asiatiche; è la culture woke che lo chiede. D’altronde anche L’Oscar al bravissimo Brendan Fraser come miglior attore protagonista sa di risarcimento.

Se davvero si avesse voluto premiare il cinema, avrebbero premiato Gli spiriti dell’isola, appunto, o magari il sottovalutato Women Talking che ha vinto un meritatissimo Oscar per la sua sceneggiatura, quella non originale, mentre sempre a proposito di sceneggiature originali è l’Oscar a quella dei Daniels preferita a quella di McDonagh davvero imbarazzante.

 

Oscars 2023: i vincitori

 

Miglior film
Niente di nuovo sul fronte occidentale
Avatar: La via dell’acqua
Gli spiriti dell’isola
Elvis
Everything Everywhere All at Once
The Fabelmans
Tár
Top Gun: Maverick
Triangle of Sadness
Women Talking

Miglior regia
Martin McDonagh, Gli spiriti dell’isola
Daniel Scheinert e Daniel Kwan, Everything Everywhere All at Once
Steven Spielberg, The Fabelmans
Todd Field, Tár
Ruben Ostlund, Triangle of Sadness

Cannes 2021: vince il cyberpunk ‘Titane’ di Julia Ducournau

Era partito bene Cannes 2021, con “Annette” di Leos Carax, folle musical di passione e tormento, con Adam Driver e Marion Cotillard. Lui è un cabarettista, sempre di cattivo umore, che finge di strozzarsi con il microfono mentre è sul palco. E anche sul tappeto rosso era imbronciato.

Non poteva durare. Infatti era arrivato François Ozon con “Tout c’est bien passé“. Amore e morte, qui con tanti rancori, tra un padre testardo che dopo un ictus chiede alla figlia di essere aiutato a morire.

L’attrice è Sophie Marceau. Lo svolgimento ha le sue lentezze: troppe docce, troppe palestre. Un genero che si occupa di cinema, e quindi fa la parte del idiota. Si riprende, con gusto per la commedia nera, verso il finale, quando per esempio il giovane musulmano che guida l’ambulanza verso la Svizzera si ferma a un Autogrill e rifiuta di andare avanti: il suicidio è contrario alla sua religione.

“Tra due mondi”, diretto da Emmanuel Carrère, racconta la triste sorte delle donne che puliscono a tempi da cottimo le cabine dei traghetti sulla Manica, ma non è un documentario: adatta per il cinema il libro di Florence Aubenas.

Una scrittrice francese che ha finto di essere una di loro. Dietro c’è il solito interrogativo che tormenta Emmanuel Carrère: quanto si può occupare delle vite degli altri per diventare scrittore di successo? E se poi le vere donne delle pulizie si sentono tradite da chi si è finta povera e invece firma copie in una elegante libreria di Parigi? Cinema poco. Anzi nulla.

Titane, un film tra horror e fantascienza

A vincere Cannes 2021 è Titane, pellicola di Julia Ducournau premiato come miglior film. Non accadeva dal 1993, quando Jane Campion si aggiudicò la Palma d’oro per il capolavoro Lezioni di piano. Ed era la prima ed unica volta, finora. Oggi accade che per la seconda volta la Palma d’oro finisce nelle mani di una donna, Julia Ducournau, che ha portato sulla Croisette un film esplosivo, letteralmente, seppure da lei stesso definito “imperfetto”.

Si tratta di un fantasy-horror che racconta solitudini che si incontrano, un romanzo di formazione di una ragazza “diversa” tra i “diversi”, un film popolato “di mostri” come ancora la regista ha sottolineato.  Titane parte come un thriller ma poi concentra tutta la sua attenzione sul controverso personaggio di Alexia attraverso la quale può esplorare i temi della metamorfosi, dell’inadeguatezza e tutto il complesso rapporto con il corpo di cui oggi tanto si parla. Un’opera cyberpunk che tuttavia strizza l’occhio a tematiche attualissime, sociali, politiche, oggetto di ddl. E naturalmente ha inciso il fatto che la regista fosse una donna. Insomma nulla di nuovo.

E la giuria guidata dal coloratissimo e pasticcione Spike Lee, si è mostrata decisamente divisa nell’attribuzione dei premi a giudicare anzitutto da un doppio ex-aequo: sia per il Gran Prix, andato allo splendido Ghahreman (A Hero) di Asghar Farhadi e al buon Hytti n. 6 (Compartment n. 6) del finlandese Juho Kuosmanen, sia per il Prix du Jury, assegnato sia al deludente Ha’Berech (Ahed’s Knee) dell’israeliano Navid Lapid che al magnifico Memoria di Apichatpong Weerasethakul, il quale ha approfittato del premio per tributare un un saluto speciale alla sua nuova musa Tilda Swinton, protagonista e produttrice esecutiva di questo suo nuovo lavoro.

Cannes 2021: tutti i premiati

La Palma d’oro per la miglior regia è andata a Leos Carax per il musical Annette, l’opera che ha aperto questa edizione del Festival di Cannes.

Il premio alla sceneggiatura  è andato al film più bello del concorso, e che forse meritava la Palma d’oro, ovvero Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi, ispirato a una novella di Murakami.

Ultimi ma non di importanza, i riconoscimenti alle interpretazioni: quello femminile assegnato alla norvegese Renate Reinsve, protagonista di Verdens verste menneske (The Worst Person in the World) di Joachim Trier e quello maschile al giovane statunitense Caleb Landry Jones, protagonista di Nitram dell’australiano Justin Kurzel.

 

Fonte https://www.ilfoglio.it/cinema/2021/07/08/video/cannes-era-partito-in-grande-non-poteva-durare-2643029/

Ricordando Romy Schneider. ‘L’importante è amare’

Il 29 maggio 1989, a soli 43 anni, moriva una delle più belle e talentuose attrici del mondo, l’austriaca, naturalizzata francese Romy Schneider, resa famosa dal ruolo dell’indimenticabile principessa Sissi dove appariva come una ragazza dolce e promettente. Ma con il passare degli anni Romy diventa più bella, il suo sguardo si fa magnetico, la sua recitazione intensa, il suo stile più raffinato grazie alla stilista Chanel che valorizza il suo corpo sinuoso.

Romy: una vita segnata dal successo e dalla sofferenza

Ma la vita di Romy Schneider fu senz’altro segnata da un destino crudele, fatto di dolorosi abbandoni, amori falliti, e un incolmabile dolore, la perdita di suo figlio David a 14 anni in un incidente, dopo aver perso l’ex compagno, morto suicida.

La vita di Romy Schneider viene spesso paragonata al destino infelice della principessa Sissi, ruolo che l’ha vista impegnata anche nella cugina di Ludwig, re di Baviera, per la regia di Luchino Visconti, il quale la pungolava continuamente, ovvero sempre Sissi, stavolta più matura e consapevole della propria infelicità.

L’importante è amare, un’avvincente riflessione sul mito e sull’arte

Tuttavia per celebrare l’anniversario della scomparsa di questa attrice magnetica e fragile, probabilmente la pellicola del 1975, che le si addice di più, in cui Romy ha tirato fuori tutta se stessa, porta un titolo che certamente è stato il suo “motto” nella sua parabola esistenziale: L’importante è amare del regista polacco Zulawski.

Film che si muove tra melodramma e noir, L’importante è amare, mette su un’appassionata e toccante riflessione sull’arte come atto dicotomico di violenza e amore che ha per protagonista un’attrice sul viale del tramonto, per citare un altro celebre film di Wilder, Nadine Chevalier, la quale è finita a lavorare nei film hard per guadagnarsi da vivere.

Sposata con il malinconico ed inconcludente Jacques, Nadine conosce sul set del suo ultimo film il fotografo Servais Mont, che si muove nel sottobosco di produzioni porno al soldo dell’usuraio Mazelli. Affascinato dalla donna, Servais cerca di aiutarla a lavorare finanziando a sua insaputa una rappresentazione teatrale del “Riccardo III” di Shakespeare e pretendendo un ruolo per la donna nell’opera. Ma, per portare a termine questa “missione”, Servais contrae un debito ancora più vincolante con Mazelli, che lo obbliga a lavorare per lui su set pornografici sempre più estremi.

Un film disturbante e sincero con una straordinaria Romy Schneider

Per il regista polacco, autore di pellicole disturbanti e atroci come Diabel e Possession, l’arte è un atto pornografico: la macchina da presa, noi spettatori, gli addetti ai lavori che presenziano sul set costituiscono lo sguardo che in qualsiasi forma di arte visiva deve mettersi in relazione con l’oggetto-corpo, violando l’integrità dell’altro, perché lo mette a nudo, lo sfrutta per il proprio piacere di creazione/fruizione, lo manipola.

Romy/Nadine rappresenta il cinema classico, un cinema da dimenticare per molti, ma non per Servais che ama tanto visceralmente la donna e la diva da buttarsi in un progetto cinematografico velleitario sorretto dal suo amore necessario, atto a creare miti, ma senza mai consumare l’amore con Nadine in questa pellicola sincerissima, tendente alla follia, delicata e intellettualistica.

In tal senso Romy è stata osannata e celebrata in quanto diva del cinema, immagine di una donna regale dalla vita tumultuosa, ricca di successi, disgrazie e delusioni, spezzata troppo presto.

Ha vissuto a voce alta Romy, ma se ne è andata dalla vita terrena silenziosamente, dopo aver intrapreso un lavoro inizialmente controvoglia, su incitazione della madre Magda, anche lei attrice, perché alla recitazione Romy preferiva il disegno e la pittura.

Cinema e amore

Su di lei è stato scritto dell’amore tormentato con Alain Delon, del rapporto con la madre, degli altri suoi amori, della lettera che stava scrivendo prima di morire, ma su Romy Schneider ci importa soprattutto far emergere il suo talento di attrice, ciò che vuol dire essere attrice e diva dimenticata attraverso il film di Zulawski.

Romy non è stata dimenticata ma, come qualcun altro attore e attrice, ha sperimentato anche nella sua vita l’autodistruzione, una distruzione colma d’amore come l’atto di riprenderla nelle sue scene da protagonista, proprio come l’arte, protagonista della sua vita, che si attesta maggiormente dalle parti dell’ossessione.

La diva e il suo cultore

La vita, come l’arte, può essere (e forse deve) essere tragica e mortifera, desidera il corpo ma lo trasla, facendolo diventare oggetto nel mito, che crea e distrugge, trasferendo fuori dalla percezione umana, in un terreno che ci sfugge, quasi fosse una prigione metafisica. Cosa tiene insieme la diva che diventa mito nel film come nella vita e i cultori dell’Arte?

L’amore. Perché l’importante è amare in uno spazio prima dell’apocalisse, dove valgono ancora i sentimenti, l’uomo, la donna e la loro dedizione all’Arte; perché sotto il degrado pulsa ancora una seppur balbettante, verità. E Romy Schneider era una donna vera.

 

Fonte

https://zeitblatt.com/art_culture/remembering-romy-schneider-the-important-thing-is-to-love/

 

 

 

 

Venezia 2020: vince prevedibilmente ‘Nomadland’ di Chloé Zhao, tra i film italiani si salva ‘Notturno’ di Rosi

Come da previsione, “Nomadland”, film pieno di cose giuste, come tanto va di moda adesso vince come miglior film Venezia 2020. Una regista donna, Chloé Zhao, nata a Pechino con studi di cinema a New York. Un’attrice con il carisma di Frances McDormand. Gli americani che vivono nei camper, parcheggiandoli al ritmo dei lavori stagionali: perché sono poveri, e perché – suggerisce il film – sono gli eredi dei pionieri con i carri. Un Leone d’oro impeccabile, dal punto di vista della politica festivaliera.

I film in gara per il Leone d’oro hanno messo a dura prova. L’indiano Chaitanya Tamhane, il nome del regista si dimentica all’istante, butta addosso allo spettatore due ore di musica classica. Indiana naturalmente, come il sitar per accompagnamento. Un giovanotto si esercita moltissimo, ma non riesce a sfondare, non vince nessun concorso di canto, quindi odia e disprezza chi molla la tradizione e va su YouTube per fare un po’ di soldi mentre lui è poverissimo. Di fissati è pieno il mondo, non abbiamo l’esclusiva. Per fortuna ci sono i film Fuori concorso. “La voce umana” di Pedro Almodovar con Tilda Swinton. Almodovar ha avuto i suoi momenti bui. Ma quel che tocca diventa cinema, sempre. Fuori concorso anche dubbio “The Duke” di Roger Mitchell. Il Duca di Wellington, s’intende. Ritratto da Goya in un dipinto comprato per 140.000 dalla National Gallery che incuriosisce un pensionato inglese. Non lo vuole per sé, ma per pagare il canone della BBC ad altri pensionati. Helen Mirren è sua moglie occhialuta e ingolfata in abiti grigi e marroncini da casalinga. Casalinga anni 60, Il film è ben scritto a partire da una storia vera, ben recitato, divertente. Niente di meglio per fare pace con il cinema.

Venezia 2020: i film italiani in concorso

E i film italiani in concorso a Venezia 2020? Belli. Bellissimi. Imperdibili. Fanno tenerezza le autopromozioni che stanno scortando la presentazione nelle sezioni principali e collaterali del festival di Venezia 2020, pilotato con abilità, competenza e un pizzico di spregiudicatezza dal duo Ciccutto-Barbera dei titoli battenti bandiera tricolore.

A dirla chiaramente vi hanno trovato accoglienza, tra le mille difficoltà dell’edizione strappata con le unghie e con i denti (e i 120 milioni del Fondo Unico dello Spettacolo erogati dal ministro gattopardo Franceschini) agli incubi del Covid, tutti quelli disponibili all’inizio di una stagione che avremmo pudore a definire “pubblica”. Se andremo o meno ancora al cinema nelle sale delle nostre città è, infatti, un quiz per ora irrisolvibile, ma Venezia 2020 ce l’ha messa sicuramente tutta per dare visibilità e favorire la promozione della produzione nostrana: strategia sicuramente sensata se non obbligata e pazienza se, specialmente per quanto riguarda la corsa al Leone, non è che i ditirambi mediatici ci abbiano regalato certezze indiscutibili.

Prendiamo “Miss Marx” della quarantacinquenne Susanna Nicchiarelli, un film non banale nelle motivazioni e sceneggiato con un’accuratezza inusuale a Cinecittà e dintorni: ricollegandosi al filone delle vite dei personaggi vissuti all’ombra dei vip, la regista romana vi mette in scena in costumi ottocenteschi, in inglese e senza attori di spicco la sconosciuta al grande pubblico Eleanor Marx, sestogenita del filosofo di Treviri, che fu vicina agli ideali paterni con ardente attivismo e scelte di lotta rivolti alla tutela dei diritti delle donne e l’abolizione dello sfruttamento del lavoro minorile.

La contraddizione che sta alla base della rievocazione, ovvero il suo aspetto, più stimolante sta nella figura del suo, purtroppo veritiero, compagno di vita e d’ideologia, un tale Aveling sedicente darwinista, ateo arrabbiato, dedito soprattutto alle scappatelle coniugali, in definitiva una sinistra figura di socialcomunista ipocrita ed egocentrico: la povera ragazza interpretata da Romola Garai, anche per questo destinata a una fine tragica, sperimenta, insomma, sulla propria pelle lo spegnersi di un’illusione e la precarietà degli stili di vita militanti. Tutto molto, troppo diligente, con tanti quadri fissi e il messaggio proto-femminista e anti-maschilista sempre a bagnomaria nel ritmo, col risultato di fare apparire le scenografie e le musiche “a contrasto” temporale un po’ dimesse, sommesse e lontane dalla pungente brillantezza dei modelli d’ispirazione che svariano dalle atmosfere punk al delizioso “Maria Antonietta” di Sofia Coppola.

Anche “Padrenostro” di Claudio Noce riguarda la Storia o più precisamente la cronaca italiana: infatti il film autobiografico più o meno sottotraccia, ci riporta ai pessimi anni Settanta ricostruendo nel prologo l’agguato a Roma di un gruppo armato rosso a un magistrato dal punto di vista del figlio decenne. Il trauma (anche se l’obiettivo dei criminali si salva) costringerà il piccolo protagonista a rifugiarsi in un mondo immaginario che, ovviamente, stride non poco con la ruvidezza degli adulti e coetanei in carne e ossa: fino a quando un angelico fanciullo sbucato dal nulla non arriverà a riaddestrarlo alla vita vera.

La nobiltà degli intenti è fuori discussione, ma la composizione è piatta, un po’ da fiction della domenica in tv, la musica dilata senza averne bisogno i toni già di per sé iper-drammatici e persino Favino esibisce con inusuale malagrazia le progressive truccature d’epoca.

Come previsto non ha invece deluso “Notturno”, il nuovo film di Gianfranco Rosi, il regista dei premiatissimi “Sacro GRA” e “Fuocoammare”: una sorta di oratorio per immagini rare e preziose intonato dalla cinepresa lungo i confini del Kurdistan, Siria, Iraq e Libano in cui non si cercano lo scoop delle carneficine, bensì il sapore, l’odore, il rumore di un non-luogo dove le persone tentano di ricucire le proprie esistenze perennemente in bilico.

L’apocalisse mediorientale vi si manifesta, così, nei racconti, gli sguardi e i comportamenti dei bambini passati nell’incubo dei tagliagole islamici dell’Isis, le madri yazide annichilite dal ricordo dei figli torturati e uccisi, dai bracconieri che insidiano le anitre all’ombra dei pozzi di petrolio, delle guerriere peshmerga che non rinunciano alla cura personale e a qualche vezzo femminile nonostante indossino le tute mimetiche e imbraccino i Kalashnikov.

Il mix tipico di Rosi tra osservazione acuminata e artificio creativo non assomiglia a nessun tipo di documentarismo e ribadisce quanto lo stile sui generis di quest’approccio “in trance” sia più importante del giornalismo corrente o il didascalismo sociologico. Chiude il quartetto in tutti i sensi “Le sorelle Macaluso” dell’autorevole regista teatrale Emma Dante, un film per noi pressoché ingiudicabile in quanto tutto interno a una logica artistica pretenziosa, impettita e volutamente incontestabile, accanitamente autoreferenziale. Le cinque sorelle palermitane del titolo -che seguiremo nell’intero percorso di vita da bambine orfane a vegliarde- esprimono, infatti, ai nostri occhi forse non all’altezza di siffatto, perentorio lirismo (che si vorrebbe, invece, carnale e terragno), soltanto un seguito di episodietti, bisticci, salti temporali, appetiti di ogni tipo, flashback saffici, inserti musicali alla chi più ne ha più ne metta. Per chi ne ha voglia seguono metafore.

 

Venezia 2020: tutti i premi

 

LEONE D’ORO per il miglior film a: NOMADLAND di Chloé Zhao (USA)
LEONE D’ARGENTO – Gran Premio della Giuria a: NUEVO ORDEN (NEW ORDER) di Michel Franco (Messico, Francia)
LEONE D’ARGENTO Premio per la migliore regia a: Kiyoshi Kurosawa per il film SPY NO TSUMA (WIFE OF A SPY) (Giappone)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a: DOROGIE TOVARISCHI! (DEAR COMRADES!) di Andrei Konchalovsky (Russia)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a: Chaitanya Tamhane per il film THE DISCIPLE (India)
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a: Vanessa Kirby nel film PIECES OF A WOMAN di Kornél Mundruczó (Canada, Ungheria)
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a: Pierfrancesco Favino (nella foto) nel film PADRENOSTRO di Claudio Noce (Italia)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore emergente a: Rouhollah Zamani nel film KHORSHID (SUN CHILDREN) di Majid Majidi (Iran)
LEONE DEL FUTURO – PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA “LUIGI DE LAURENTIIS” assegnato dalla giuria presieduta da Claudio Giovannesi e composta da Rémi Bonhomme e Dora Bouchoucha a: LISTEN di Ana Rocha de Sousa (Regno Unito, Portogallo)

 

Fonti: https://www.ilfoglio.it/cinema/2020/09/05/video/i-film-in-gara-a-venezia-77-mettono-a-dura-prova-lo-spettatore-332944/

I film italiani a Venezia 2020

Berlino 2020: vince l’iraniano ‘There is no Evil’, miglior attore Elio Germano nei panni del pittore Antonio Ligabue

Si è appena conclusa la 70esima edizione del Festival di Berlino condotta per la prima volta da Carlo Chatrian con il talentuoso attore italiano Luca Marinelli, quest’ultimo anche in giuria insieme a Jeremy Irons, Bérénice Bejo e Kenneth Lonergan per selezionare i migliori film fra i 18 in gara.

L’Orso d’Oro è stato assegnato al film “There Is No Evil” dell’iraniano Mohammad Rasoulof anche se, come affermato fra la commozione generale da chi ha ritirato il premio al posto suo, il regista non è potuto essere presente alla cerimonia, poiché gli è stato impedito di lasciare il Paese.

L’Italia sbanca in questa 70/ma edizione del Festival di Berlino: due film in concorso, due premi. “Favolacce” dei semplici e geniali fratelli d’Innocenzo si porta a casa l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura con questa storia di ignoranza e violenza e “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti vede premiato invece Elio Germano con l’Orso d’argento per il miglior attore per la sua interpretazione attenta di Ligabue, il pittore folle che amava gli animali.

Favolacce è una favola nera che racconta senza filtri le dinamiche che legano i rapporti umani all’interno di una comunità di famiglie, in un mondo apparentemente normale dove si covano rabbia e disperazione, Volevo nascondermi è un biopic intenso che racconta la ricerca di senso di uno dei più importanti pittori del ‘900, Antonio Ligabue, apparentemente abbandonato da tutto e da tutti e che trova finalmente una via per riuscire a esprimere il suo mondo interiore con il disegno e l’arte figurativa.

La genialità artistica di Ligabue risiede nella capacità di trasformare gli incubi in incantate visioni colorate, gli ordinati filari di pioppi in giungle popolate da belve feroci. Tigri con le fauci spalancate, leoni nell’atto di aggredire una gazzella, leopardi assaliti da serpenti, cani in ferma e galli in lotta: predatori e prede, selvatici e domestici, sentiva gli animali come compagni, li comprendeva e li amava più degli uomini: e ad essi più che agli uomini, voleva assomigliare.

Le sue opere figurative, dense e squillanti, traboccano di nostalgia, di una violenza ancestrale, di paura e di eccitazione, di dettagli ugualmente minuziosi nelle scene di vita campestre come in quelle di esotiche foreste, attinti spesso, dalla profondità di un’incredibile memoria visiva, nel secondo da una immaginazione ancora più prodigiosa.

C’è molto di Antonio Ligabue, in Volevo nascondermi. Ci sono la Svizzera e l’Italia, l’Emilia e Roma; ci sono la follia, la stramberia, la libertà del reietto e la condanna alla solitudine; ci sono le tante lingue della sua vita, lo svizzero-tedesco delle origini, l’italiano dei medici e dei podestà, il dialetto emiliano.

Berlino 2020: tutti i premi

Orso d’Oro: There Is No Evil by Mohammed Rasouof
Orso d’Argento Gran premio della Giuria: Never Rarely Sometimes Always by Eliza Hittman
Orso d’Argento per la Regia: Hong Sang-soo con The Woman Who Ran
Orso d’Argento miglior attrice: Paula Beer per Undine
Orso d’Argento miglior attore: Elio Germano con Volevo Nascondermi
Orso d’Argento miglior sceneggiatura: Damiano D’Innocenzo, Fabio D’Innocenzo per Favolacce
Orso d’Argento Miglior contributo artistico: Jürgen Jürges con DAU. Natascha
Orso d’Argento premio Speciale: Delete History by Benoit Delepine, Gustave Kervern
Orso d’Argento miglior corto: T by Keisha Rae Witherspoon
Orso d’Argento alla carriera: Helen Mirren
Orso miglior esordio: Naked Animals by Melanie Waelde

‘La favorita’ di Lanthimos: un distillato di piacevole perfidia ancestrale candidato agli Oscar

I sentimenti umani più inestirpabili e ancestrali, la lotta per la sopravvivenza, il sesso e il potere, la cinica consapevolezza di un gioco al massacro che non è maschile o femminile bensì l’essenza ultima delle vite, delle società, del mondo. “La favorita” distilla un concentrato degli elementi basici di quella particolare forma d’arte che nonostante i collassi epocali continuiamo a definire “cinema”: una sceneggiatura dalla scintillante affilatura (tratta da una pièce di Deborah Davis scritta per la Bbc Radio e rielaborata da Tony McNamara), un’ambientazione in costume magistrale (grazie soprattutto alla sintonia tra il direttore della fotografia Robbie Ryan e la costumista Sandy Powell), tre protagoniste in stato di grazia e la regia del quarantacinquenne greco Lanthimos (“The Lobster”, “Il sacrificio del cervo sacro”) che riesce nell’impresa di mantenersi fedele alla vocazione per un cinema disturbante, feroce e provocatorio realizzando, invece, un film universale e accessibile, molto divertente ma di una piacevolezza striata di perfidia, autoriale eppure carico di candidature all’istituzionale pantomima degli Oscar.

Affermare che si tratta della rivisitazione del breve regno di Anna Stuart (1665-1714), ultima della casata scozzese a regnare sui britannici, sarebbe, in effetti, giusto e insieme fuorviante: “La favorita” anima scorci storici veridici concedendosi pochi e mirati flash anacronistici, lanciando battute come frecce avvelenate e lacerando l’involucro dei soliti film biografico-agiografici sia grazie allo stile sincopato e stilizzato, sia indirizzando lo sguardo nei meandri più oscuri del Palazzo reale e nei recessi più intimi e distorti del comportamento dei suoi frequentatori ai vari livelli della gerarchia (non a caso le riprese abbondano d’inquadrature realizzate con l’obiettivo grandangolare a occhio di pesce).

Parliamo di un film che non ha bisogno del riassuntino della trama e di cui, una volta tanto, sarà avvincente continuare a discutere a schermo spento. Il motivo sta nel fatto che i significati o per meglio dire i cortocircuiti moderni risultano ficcanti e a pieno titolo artistico invece d’essere spiattellati sullo schermo col solito, brutale didascalismo politicamente (femministicamente) corretto. Infatti alla corte inglese d’inizio Settecento due donne si contendono i favori, anche sessuali, della capricciosa e influenzabile regina (Colman, sublime), devastata dalla gotta e dalla frustrata voglia di maternità: la potente lady Sarah (Weisz) e l’ambiziosa sguattera ex aristocratica Abigail (Stone) che danno il loro peggio e il loro meglio in un combattimento sottotraccia di manipolazioni e/o seduzioni con la partecipazione ancora più subdola degli uomini ovvero ministri, cortigiani e politici di governo e opposizione imbellettati e imparruccati, dunque artefatti, molto più di loro.

Lanthimos è geniale nel confondere continuamente l’emotività degli spettatori, impossibilitati di fatto a parteggiare una volta per tutte per l’una o l’altra delle antieroine affamate di piacere e potere al di là di ogni “giustificata” ragione di ruoli, ranghi o diritti. Gli animali, una costante metaforica della sua filmografia, rappresentano il versante innocente dell’autentica bestialità di un microcosmo dedito a trastulli crudeli o peggio idioti, mentre i massacri guerreschi restano fuori campo in balia delle spregiudicate macchinazioni umane. A queste icone di una femminilità nobile e ignobile, ma in ogni caso emancipata dalla supremazia dei maschi non di rado ridotti a mero strumento per raggiungere uno scopo, la critica e i cinefili affibbiano molti padri, dal Kubrick di “Barry Lyndon” ai puzzle di Greenaway, da “Il servo” di Losey al cult movie “Eva contro Eva”. Abbandonatevi, piuttosto, al piacere del testo dando casomai un’occhiata ai libri e pamphlet del misantropo e nichilista Swift dei “Viaggi di Gulliver” e “Una modesta proposta”.

 

La favorita

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