Addio a David Lynch, cacciatore di misteri

Mistero, doppio, mutamento di identità. Il grande risultato dei film di David Lynch risiede nella fascinazione di questi tre aspetti e nella capacità di abbattere la distanza tra spettatore e schermo. Invece di consentire la prossimità immaginaria che domina nel cinema mainstream, i film di Lynch coinvolgono lo spettatore nella loro stessa struttura. La struttura di un film di Lynch altera la situazione di visione cinematografica stessa e priva lo spettatore del senso di fondo di rimanere a una distanza di sicurezza da ciò che accade sullo schermo.

Evitando la questione di cosa costituisca esattamente il “cinema mainstream” e il rapporto di Lynch con esso, ci si deve chiedere come la “situazione di visione” per l’opera di David Lynch sia rimasta abbastanza invariata negli anni trascorsi da Eraserhead. Da allora uno spettatore attento avrebbe potuto imbattersi nell’opera di Lynch in contesti così diversi come nelle proiezioni di mezzanotte negli anni ’70, sui loro schermi televisivi alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, fino allo scaricamento di esperimenti di cortometraggi sul proprio
computer nell’ultimo decennio. Anche se uno spettatore si limitasse solo ai lungometraggi di Lynch, non si può ancora affermare che esista una singolare “situazione di visione cinematografica” in cui li avrebbe guardati tutti.

Il cinema “discontinuo” e perturbante di David Lynch è stato variamente criticato, accolto e interpretato nei più differenti modi da pubblico e critica. I critici e gli appassionati più ferventi non si sono lasciati sfuggire occasione per interpretare i suoi film alla ricerca di analogie e similitudini con pellicole di altri grandi geni del cinema come lo sono stati Buñuel, Hitchcock e Lang.

Già nel 1977, anno di uscita del suo primo lungometraggio, “Ereaserhead – La mente che cancella”, gli viene affibbiata l’etichetta di surrealista perché il film in certi momenti sembrerebbe ricordare “Un Chien Andalou” di L. Buñuel e S. Dalì. Cadere nell’equivoco di considerare David Lynch un surrealista è cosa facile, soprattutto a causa delle atmosfere stranianti ed astratte che pervadono i suoi film, atmosfere che turbano lo spettatore nel profondo.

Per me il mistero è una calamita. Ovunque ci sia qualcosa di ignoto, si sviluppa sempre una grande attrazione. Se ci si trovasse in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si apre e la forte tentazione di precipitarsi giù da quelle scale”. (David Lynch)

Il mistero che interessa Lynch è quello che pretende una spiegazione, quello che genera uno stato di disorientamento percettivo/cognitivo e che coglie lo spettatore – insieme al personaggio – di fronte a eventi inspiegabili o in attesa di risoluzione. Uno “scioglimento” logico dei dubbi spesso non viene raggiunto, come se il cineasta percepisca deludente ogni curva narrativa che si risolva semplicemente nel percorso
“mondo tradizionale > evento perturbante > conflitto > sconfitta dell’irrazionale > ritorno al mondo ricomposto”. Ciò su cui fa leva
è invece la perenne esitazione tra il razionale e l’irrazionale degli avvenimenti narrati, egli preferisce dilatare all’infinito il mistero, mantenendone le caratteristiche iniziali di “rottura” ma rinunciando di fatto a una sua riduzione elementare.

Da una parte l’autore non rinuncia a marche di enunciazione che indichino la presenza di un’attività onirica, dall’altra i film si nutrono di visioni, profezie, apparizioni che non si sa mai a chi o a che cosa attribuire. Di qui, una sensazione diffusa di minaccia
che “possiede” fantasmaticamente anche i luoghi apparentemente pi sicuri, come la casa o la camera da letto.

Il mistero in Lynch si struttura in diverse forme: misteri che muovono l’intera vicenda, misteri occasionali in grado di turbare gli eventi della narrazione e infine misteri nonsense, circoscritti a una sequenza o a un comportamento anomalo. Una delle caratteristiche principali che distingue il racconto cinematografico dalla fiction televisiva è il limite di tempo della narrazione.

Mentre nel cinema la storia è destinata a svilupparsi e concludersi entro un certo arco temporale che mediamente si aggira intorno alle due ore, in televisione si ha la possibilità, almeno in teoria e a pubblico piacendo, di poter raccontare una storia per un tempo illimitato, cambiando di continuo le carte in tavola. La narrazione televisiva consente per esempio di mettere in risalto dettagli che prima sembravano insignificanti e d’improvviso aprono le porte a nuove possibilità di sviluppo del racconto; ancora consente di far evolvere la storia di un
personaggio secondario fino a fargli assumere la stessa importanza dei protagonisti.

‘Gli spiriti dell’isola’ di Martin McDonagh, un film unico nel cinema contemporaneo, tra nero e grottesco

Anni Venti, al largo della costa d’Irlanda. Tra abbondanti pinte di Guinness e sentori di bacon e porridge, “Gli spiriti dell’isola da teatro dell’assurdo si trasforma in tragedia. I volti degli abitanti di Inisherin assomigliano a totem ancestrali, le loro espressioni alle brume del cielo e i loro sentimenti ai fuochi di torba mentre i marosi s’infrangono sulle falesie e gli strapiombi delle montagne fanno da quinta ai paesaggi spazzati dal vento. Il film, che piaccia o respinga, non ha equivalenti nel cinema contemporaneo e anche se avete cercato invano il nome di Inisherin sulle mappe (il luogo è inventato) è escluso che lo possiate dimenticare.

Premiato a Venezia e ai Golden Globes (sempre per il miglior attore e la sceneggiatura) e candidato a nove Oscar (con ottime possibilità di vittoria), il film di Martin McDonagh racconta lo strano legame tra il giovane e ingenuo Pádraic e l’anziano Colm con la passione per la musica.

Pádraic (Farrell, vincitore della Coppa Volpi per il migliore attore all’ultima Mostra di Venezia) scopre un giorno che Colm (Gleeson), con cui da sempre condivide pub e amicizia, ha deciso che non lo sopporta più, non ha più tempo da perdere con lui e non vuole nemmeno rivolgergli più la parola. Un soggetto nero e grottesco messo in scena con stile minimalistico, illuminato dalla fotografia tersa di Ben Davis, incalzato dalla musica lancinante di Carter Burwell e calibrato sulle incarnazioni “in sottrazione” dei due protagonisti votati a un oscuro conflitto che dopo un disperato ultimatum devasterà le vite di entrambi. Solo Siobhan (Condon), la sorella di Pádraic, ha la forza di capire che si può fuggire, che esiste qualcosa al di là del mare, che il tempo non è quello scandito dai lugubri presagi della stregona. Colm e Pádraic sono tutt’altro che colti, ma ognuno difende una posizione in fin dei conti plausibile: dovremmo vivere per l’arte e la posterità come ha appena scoperto il primo o per i piccoli piaceri quotidiani e l’amore di chi ci è caro come rivendica sbalordito il secondo? Oppure tutto nasce dalla depressione di uomini esentati dal protocollo sociale cosiddetto civilizzato e costretti a interrogarsi sul senso da dare alla propria vita e su cosa fare in attesa della morte?

Questo sottofondo teorico innerva la messinscena degli Spiriti dell’isola, in cui i profili dei personaggi sono spesso ritagliati negli stipiti di porte e finestre o inquadrati nei sentieri stretti tra i muri di pietra; mentre, quando la tensione all’improvviso e solo per pochi istanti si placa, le carrellate non possono che seguire le peregrinazioni dei protagonisti spostandoli come pedine di un gioco di ruolo che ha come punti di riferimento le case, la chiesa, il pub o le spiagge. “Gli spiriti dell’isola” esprime il proprio pessimismo soprattutto per via figurativa, ma il giudizio, se qualcuno ne avvertisse la necessità, è affidato a una metafora di tagliente ironia: il futuro in quest’eremo selvaggio si chiama stagnazione perpetua. Ci si può cogliere anche un climax fordiano (“Un uomo tranquillo” ambientato nel villaggio irlandese di Innisfree) perché i dialoghi mimano la basica ruvidezza dei sentimenti e le dispute sono volentieri risolte con primitiva violenza.

Martin McDonagh, ex ragazzo prodigio del teatro britannico già autore di due grandi film come “In Bruges” e “Tre manifesti a Ebbing”, non cede alla tentazione di romanticizzare la sua ballata né di riciclare le atmosfere gotiche di “Cime tempestose”; piuttosto è importante osservare che il titolo originale de Gli spiriti dell’isola,The Banshees of Inisherin” si riferisce alle banshee, i maligni spiriti femminili dell’aldilà della mitologia celtica e che da uno spunto così estremo e paradossale scaturisce una sensata riflessione sulla fragilità della condizione umana e l’insensatezza di tutte le guerre. Senza distoglierlo dalla suspense o impartirgli prediche, il film offre, infatti, allo spettatore una sottile serie di indizi a cominciare dagli echi delle esplosioni che arrivano dalla terraferma dove all’epoca davvero infuriò la breve ma sanguinosa Guerra civile irlandese.

Le bestie –pecore, mucche, cani, cavalli- che vivono in simbiosi con la comunità appaiono non a caso ben più amichevoli e innocenti degli iconici comprimari (il poliziotto, l’oste, il prete, lo scemo del villaggio) condannati a sbattere in perpetuo contro i muri di una prigione a cielo aperto. E le banshees stanno a guardare.

 

Gli spiriti dell’isola

I migliori e i peggiori film del 2022

In proporzione ai numeri dei biglietti staccati anche nel 2022 un pugno di film belli e brutti potrebbero bastare. Per fortuna o purtroppo ci sono quelli visti in tv e qui il discorso, oltreché allargarsi a dismisura, si farebbe ingarbugliato e per di più superfluo. Infine ci sono da rispettare le categorie: prendersela con i fanti mettendoli in gara con i santi è roba da cinegrilli parlanti. Un minimo di cautela va infine usata con gli interlocutori: tirare fuori dal cilindro titoli cervellotici o invisibili ai comuni mortali è il tipico vizio degli esperti. Per l’agonia delle sale è anche loro un briciolo di colpa.

MIGLIORI. “Ennio”: Tornatore ci tramanda tutto Morricone: l’uomo, la musica, i film, l’empatia tra il regista e il compositore, l’amore degli amici e dei colleghi. Ma soprattutto prorompe dalla sapiente tessitura un amore no limits per l’arte che emoziona e commuove in ogni fotogramma

The Batman”: A partire dai fantasmagorici quindici minuti iniziali, il regista Reeves in stato di grazia riesce a coniugare il mistero con l’orrore, sino a far sì che un film di supereroi non sia più un film di supereroi bensì un’immersione nella paura e il delirio della nostra epoca implosa.

La stranezza”: Andò procede mantenendo vividi il ritmo, la riflessione e lo spasso e facendo risaltare la moderna e acquisita esigenza della fusione tra alto e basso, realismo e metafora, ispirazione e fantasia, attori e spettatori sulla ribalta e nello schermo.

Athena”: Romain Gavras ci regala all’inizio uno dei piani-sequenza più sbalorditivi e memorabili mai visti su uno schermo per poterci immergere nel corso di tutto il film nel caos incontrollabile della banlieue parigina messa a ferro e fuoco dalla guerriglia societaria.

Parigi, 13arr.”: Audiard ambienta nel quartiere di Parigi soprannominato Les Olympiades un triangolo erotico sfrenato e disperato, perfetto per restituire la precarietà della nuova gioventù nel lavoro e i sentimenti.

The Fabelmans”: Nella semi-autobiografia di Spielberg l’epicedio struggente dei passaggi dall’infanzia all’adolescenza e insieme una dichiarazione d’amore al cinema e all’enorme peso epico e simbolico che vi hanno aggiunto i maestri. Truffaut e John Ford prima di tutti.

Maigret”: Depardieu messo in grado d’integrare la propria debordante fisicità nella deriva crepuscolare del personaggio e nella strisciante depressione che conferisce ai suoi movimenti e sguardi la risonanza di un animale morente nella giungla metropolitana. A ben vedere un poliziesco di fantasmi.

Perfetta illusione”: La forma in una brillante, allusiva e maliziosa “tranche de vie” sull’eterno sfasamento degli umani tra l’illusione e la realtà interagisce con il contenuto in linea verticale, cioè facendo affiorare in scioltezza le metafore dai fatti anziché disporle sulla consunta linea etico-sociale orizzontale.

Nostalgia”: Per Martone sulle tracce del romanzo di Rea la ricerca del tempo perduto del protagonista diventa un viaggio re-iniziatico senza uscite di sicurezza napoletaniste, bensì supportato dalla capacità visionaria di illuminare i lati più arcani e infetti del labirinto metropolitano.

PEGGIORI “Il paradiso del pavone”: Lungi dall’accostarsi alle satire antiborghesi bunueliane, il film suscita l’impressione di un’immane pretensione soprattutto nei momenti top come quelli dell’outing lesbico dell’arcigna decana o delle spregevoli performance di (tutti) gli spregevoli maschi. Il colmo del grottesco si raggiunge, però, nella scena del funerale dello stolido pavone Paco fracassatosi al suolo perché ha le ali ma non sa volare. Afferrata la metafora?

Il colibrì”: “Hai letto il libro?”. “No e mi dispiace”. “Hai visto il film?”. “Sì e mi dispiace”. La trasposizione dell’Archibugi sembra l’emblema del cinema italiano più decorativo, un compendio snervante di pretensioni artistiche e iperboli melodrammatiche inanellate con un parossismo che farebbe fatica ad accreditarsi persino nei saggi di Eco sul romanzo rosa di Liala e Carolina Invernizio.

Triangle of Sadness”: Ostlund scivola senza ammortizzatori nel limbo di una satira vecchia e stantia grazie a cui si rivela al mondo che i ricchi sono cinici e il liberismo è una schifezza. Fin qui ci sono arrivati in tanti e tutti – da Bunuel a Ferreri, da Von Trier a i Monty Pyton- più incisivamente di lui; ma il problema sta nel fatto che l’overdose inficia l’allegoria grottesca. Come se il divertimento consistesse nell’umiliare personaggi indifendibili in partenza e nel richiedere al pubblico una gongolante complicità mostrandogli i più odiosi annegare nel loro vomito e la cacca.

Chiara”: La voglia matta di riportare il Duecento alle polemiche odierne, a una modernità da collettivo liceale rende impraticabile l’intento sia di cogliere la pregnanza storica degli eventi, sia di valorizzare la messinscena tra il realistico, lo ieratico e il sacrale. È proprio la premeditazione che raffredda e rende imbarazzanti i balletti in stile Figli dei Fiori o la canzone finale trendy del contemporaneo Cosmo.

 

10 Migliori e 4 peggiori film dell’anno solare 2022

Arte, cinema letteratura: storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini. Giovedì 20 Ottobre alla Suor Orsola Benincasa

“Nella travolgente parabola intellettuale, artistica e umana di Pier Paolo Pasolini l’amore appassionato per l’Italia, la sua storia, la sua unicità rappresenta una stella polare costante”. Così lo storico Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa, presenta la giornata di studi che l’Ateneo napoletano ha scelto di dedicare giovedì 20 Ottobre a partire dalle 10 a Pier Paolo Pasolini (1922-1975) nell’anno del centenario della sua nascita.

Per celebrare lo straordinario eclettismo culturale di uno dei più apprezzati intellettuali del Novecento l’Università Suor Orsola Benincasa, con il patrocino del Comitato Nazionale per il Centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha pensato ad una giornata di studi multidisciplinare che proverà a ricostruire il sentimento identitario nazionale di Pasolini dalle diverse angolazioni in cui si è dispiegata la sua enorme produzione artistica e culturale.

In ogni aspetto naturale, sociale, artistico, letterario dell’Italia – evidenzia Capozzi – Pasolini ha cercato avidamente l’eredità di quella cultura contadina e popolare che voleva salvare dalla distruzione ad opera della società di massa e ritrovava nei borghi diroccati così come nelle borgate e periferie delle metropoli. Ecco che allora la giornata di studi organizzata dall’Università Suor Orsola in occasione del centenario della sua nascita, riprendendo la storica citazione (“questa è l’Italia e non è questa l’Italia”) della sua poesia “L’umile Italia”, punta ad evidenziare alcuni nuclei fondamentali in cui quella passione prende forma nell’opera pasoliniana, tra poesia, narrativa, cinema, teatro, scritti critici e politici”.

Giovedì 20 ottobre alle ore 10 nella Biblioteca Pagliara dell’Università Suor Orsola Benincasa (ed in diretta streaming su www.facebook.com/unisob) per discutere di “Storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini” si confronteranno, quindi, studiosi di varie discipline con relazioni che spazieranno dalla storia (L’abisso tra corpo e storia. Croce, Gramsci e i conti con l’ideologia) alla letteratura (L’anti-grand tour pasoliniano), dalla storia dell’arte (Roberto Longhi e Pasolini: Masaccio, i manieristi, Caravaggio e un’idea dell’Italia) al cinema (L’Italia ‘profonda’ al cinema: da Accattone a La ricotta).

Al tavolo dei relatori, coordinato da Alfonso Amendola, docente di Sociologia dei processi culturali all’Università di Salerno, dopo l’introduzione del Rettore del Suor Orsola, Lucio d’Alessandro, si alterneranno dalle 10 alle 17 lo storico dell’arte Stefano Causa, lo storico del cinema Augusto Sainati, gli italianisti Guido Cappelli, Nunzio Ruggiero, Carlo Vecce e Paola Villani e i giornalisti Alessandro Gnocchi ed Antonio Tricomi. Programma completo degli interventi (www.unisob.na.it/eventi).

Alle 17.30 la giornata dedicata a Pasolini dall’Università Suor Orsola Benincasa proseguirà con la proiezione di uno dei suoi film più noti, Il Decameron, nel Salotto culturale “Le Zifere”, fondato dallo storico dell’arte, Roberto Nicolucci, all’interno di uno dei palazzo storici più prestigiosi della città di Napoli: il Palazzo De Sangro di Vietri in piazzetta Nilo.

Venezia 2022. Vince il documentario “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras

Il vincitore del Leone d’Oro alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia è il documentario, All the Beauty and the Bloodshed  della regista americana Laura Poitras.

Nel 2018, insieme all’associazione da lei fondata, PAIN (acronimo di Prescription Addiction Intervention Now), la nota fotografa Nan Goldin è protagonista di un’azione di protesta presso il MET di New York. È la prima di una serie di contestazioni plateali che puntano alla cancellazione del nome della famiglia Sackler (fondatrice e proprietaria di una delle più importanti case farmaceutiche statunitensi) dall’elenco dei nomi dei sostenitori e dalle sale o donazioni a loro intitolate. Il primo passo simbolico per denunciare le micidiali ricadute del fenomeno noto come “epidemia degli oppioidi”, il consumo massiccio e indotto di farmaci a base di ossicodone (che provocano una forte dipendenza e portano a dipendenze maggiori): cento settemila morti per overdose negli Stati Uniti solo nel 2021, con tutte le conseguenze sociali ed economiche derivanti.

Nel film arte e vita si rincorrono e si nutrono l’una dell’altra, lo sentiamo direttamente dalla voce rauca di Goldin, che riflette con lucidità sulle proprie immagini, la loro risonanza nel tempo, il loro odore, le esperienze collegate. È questo – molto oltre la denuncia dell’avidità del gruppo farmaceutico, clamorosamente scampato a processo penale, o la cronaca degli attivisti di PAIN – il solido pregio di un film stratificato e compatto: associare, tramite la forza delle immagini, il fare artistico a una presa di posizione politica. Identificare cioè nell’ipocrisia di famiglia e società le radici del suicidio di una nazione che censura, vittimizza e stigmatizza chi diventa dipendente e non chi vive del profitto di quella dipendenza.

La guerra americana in Iraq (My Country, My Country), il terrorismo islamico e Guantanamo (The Oath), Julian Assange e Wikileaks (Risk), Edward Snowden (Citizenfour): con la stessa intraprendenza e sprezzo del pericolo, per questo ultimo film di Poitras, la quale continua a scegliere contesti e individui di eccezionale resistenza e anticonformismo. Ma in All the Beauty and the Bloodshed (“tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”, una citazione che ha a che fare con “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, il cui senso è svelato nel finale) la traccia investigativa, giornalistica, caratteristica suoi lavori precedenti, ha uno spazio meno preponderante.

I premiati

Leone d’Argento e Gran Premio della Giuria per “Saint Omer“, opera prima della regista francese Alice Diop. La storia emozionante del processo per un infanticidio commesso da una migrante disperata.

Un successo anche per l’Italia: Leone d’Argento, Premio per la Miglior Regia, a Luca Guadagnino (51 anni) per il suo film italo-americano “Bones and all“.

L’attrice australiana Cate Blanchett (53 anni) ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile nei panni di una direttrice d’orchestra in “Tár” di Todd Field.

Miglior attore, l’irlandese Colin Farrell (46 anni), per aver interpretato un uomo che ha rotto con il suo miglior amico di lunga data in “The Banshees of Inisherin” (“Gli spiriti dell’isola”) di Martin McDonagh, che ha vinto anche il premio per la Miglior Sceneggiatura.

13 minuti di applausi, per il film, durante la proiezione a Venezia.

Un film tutto irlandese, ambientato in Irlanda, con tradizioni e scontri familiari tipicamente irlandesi.

Il premio speciale della giuria – presieduta dall’attrice Julianne Moore – è stato assegnato al regista Jafar Panahi, attualmente in carcere in Iran, per il suo nuovo film “No Bears” (“Gli orsi non esistono”).

Il regista iraniano è stato condannato a luglio ad una pena detentiva di sei anni.

Il mondo del cinema, anche a Venezia, si è rivolto nuovamente al regime di Teheran, chiedendo la liberazione di Jafar Panahi.

Fonte https://www.mymovies.it/film/2022/all-the-beauty-and-the-bloodshed/

Il neorealismo di Pasolini, tra letteratura e cinema

Il Neorealismo è una corrente letteraria di particolare spessore che ha creato nel corso degli anni un vero e proprio “filone” critico o semplicemente di analisi, da parte di studiosi, letterati, linguistici ma anche storici.

Attraverso la letteratura neorealista si mette in scena la quotidianità, con una serie di elementi negativi o positivi che siano e che indiscutibilmente la caratterizzano. Una rappresentazione oggettiva, che può scuotere gli animi. In questa situazione la più evidente testimonianza dei tempi, proprio per le sue contraddizioni, è offerta da Pier Paolo Pasolini1.

Il Neorealismo in Italia fu contraddistinto da una serie di “voci” impastate nella lingua letteraria ma anche artistica. La visione ed il modo critico-razionale di intervenire sulla quotidianità, propri di Pier Paolo Pasolini, si oppongono al cosiddetto sistema borghese, ma anche al capitalismo.

Quella di Pasolini è una forma di opposizione che sfocia in un vero e proprio dissenso ideologico ed oggettivo; lo scrittore bolognese prende le distanze, grazie al Neorealismo dalla tradizione lirica del Novecento, promuovendo un filone sperimentale diverso, lontano dai canoni della tradizione, vero, in cui chiunque avrebbe potuto riflettersi e riconoscersi. Da tutto ciò nasce quella che è stata definita la demistificazione che lo scrittore fa del non-civile neocapitalismo, l’ipotesi sempre più ostinata di rapporti umani nel quadro di una natura immutabile, la ricerca delle ragioni essenziali di vita al di fuori dell’ambito letterario, la negazione attiva come vitalità, l’impossibilità di mutare il sistema, una sorta di fatalismo astorico, le regressioni e il ritorno alle mitologie.

In questo modo, il Neorealismo di Pasolini diventa la forma più alta di comunicazione con quel mondo fatto di una propria psicologia e cultura due identità strettamente collegate tra loro e spesso dimenticate. Non solo in ambito prettamente letterario, ma anche dal punto di vista cinematografico, gli attori scelti da Pasolini si discostano dal ruolo reale di attori professionisti, sono persone scelte a caso, prese dalla strada, nei quartieri malfamati, casalinghe, padri di famiglia, bambini. I corpi, i volti, le posture di chi ha interpretato i personaggi dei film di Pasolini non sono prodotti di un artificio illusionistico che fa capo al sistema-cinema, poiché gli “attori” riportavano sulla pellicola ciò che erano nella vita reale, senza dover fingere in nulla.

Probabilmente è in questo che risiede la chiave di lettura del Neorealismo inteso come strumento di rappresentazione della verità. Rappresentare tutto ciò che circonda l’uomo ma senza artefatti, in modo naturale e spontaneo.

Una visione che si oppone al Capitalismo, dunque al quale prima si faceva menzione e che presuppone l’abolizione delle classi sociali a favore di un’identità che sappia far parlare di sé per ciò che si è.

L’orda capitalistica che ha invaso la società italiana era stata scorta nella sua più cruda totalità. Era scomparso quel sottoproletariato incontaminato, che trovava come alternativa alla cultura borghese la propria cultura, vera e autentica, basata su una scala di valori “altra”, come sosteneva lo stesso autore. Quella di Pier Paolo Pasolini è stata infatti definita una lotta contro l’universo consumistico.

Ci prova l’autore e regista friulano, con tutte le sue forze. Nonostante spesso non riesca ad arrivare dove vuole. Nonostante a volte proprio quella realtà dove prova ad agire, si opponga ad ogni cambiamento. Infondo è risaputo che il cambiamento è una costante ed in quanto tale non può essere forzato o richiesto, ma Pasolini, pur essendone consapevole ci prova.

Di conseguenza, Pier Paolo Pasolini problematizza il rapporto tra interiorità singola e oggettività sociale e vede come via d’uscita lo sperimentalismo «sprofondato in un’esperienza interiore» come «lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura».

L’arte che ha portato avanti Pasolini, dunque, sposa in maniera precisa la sua intenzione di dare uno ampio scorcio di una dimensione sociale forzatamente messa da parte. Se precedentemente il Neorealismo di De Sica e Rossellini aveva il compito di porre in evidenza la disperazione mortale e totalizzante dell’uomo del dopo-guerra, quello di Pasolini invece di dare a quei ragazzi di vita la voce che gli era stata tolta e mettere in risalto lo spirito del tempo, veicolato dall’egemonia culturale di una borghesia cattolica e selettiva.

Quel genocidio culturale – a cui si è sempre appellato l’autore – che ha generato quella mutazione antropologica del popolo italiano –  ha visto una variazione dello spirito del tempo che ha invaso anche il sottoproletariato. Il cambiamento generato da una società che stava basando le proprie fondamenta sulla circolazione e sull’accumulo di denaro, ha causato una variazione di ogni relazione sociale.

 

“ […] Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler.

[…] Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato sé stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire con quella voce, quelle battute. Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle: ma addirittura non le capirebbe nemmeno […]”.  

Lettere Luterane 

‘Illusioni perdute’ di Giannoli: le degenerazioni del nostro sistema mediatico

Con “Illusioni perdute” un regista colto e tradizionale come Giannoli (“Marguerite”) offre una versione di tutto rispetto, ancorché ridotta e impoverita, del romanzo pubblicato in tre parti da Honoré de Balzac tra il 1837 e il 1843 e diventato il secondo dei cicli narrativi della monumentale La Comédie Humaine e proprio una “commedia umana” scorre per 141 minuti sullo schermo in cui tutto si compra e si vende, la letteratura come la stampa, la politica come i sentimenti, le reputazioni come le anime.

Jeu de massacre nella Parigi del 1820. Lucien Chardon è un giovane di bell’aspetto che dati gli umili natali deve sopravvivere come umile impiegato della tipografia di famiglia ad Angouleme, capoluogo del dipartimento della Charente; le spropositate ambizioni di poeta dilettante, incoraggiate dalla nobildonna che lo protegge, lo spingono a lasciare la provincia per trasferirsi nella capitale dove viene presto trascinato nel tourbillon mondano, culturale e giornalistico dell’epoca della Restaurazione.

In un quadro figurativo garantito da costumi, scenografie, fotografia, musiche d’alto e (oggi) inusitato livello è piacevole, così, farsi sorprendere dalle ascese e le cadute del brillante e arrivista Lucien autonominatosi de Rubempré tra i comportamenti di personaggi affascinanti o grotteschi, nel frenetico caos delle strade, i teatri, le redazioni, i salotti, nella fluidità delle inquadrature e le sequenze spesso contrappuntata da veri e propri schizzi in stile caricaturistico.

Metodo utilizzato anche dal venerato scrittore, peraltro saccheggiato molto meno di quanto si possa pensare dalle trasposizioni –vengono in mente “Eugenia Grandet”, “Il colonnello Chabert”, “Out 1”, “La bella scontrosa” e “La duchessa di Langeais”- forse perché, come ha scritto acutamente Roberto Manassero, “se è vero com’è vero che il cinema narrativo deriva dal romanzo ottocentesco, non ha bisogno di tradurre Balzac perché nei suoi elementi di base è già naturalmente balzachiano”.

Non volendo o potendo replicare la sottigliezza delle psicologie balzachiane, la complessità del Bildungsroman o romanzo di formazione e neppure la cruda spregiudicatezza dei film di Stone (“Wall Street”) o Scorsese (“The Wolf of Wall Street”) ai quali insieme al co-sceggiatore Fieschi si è sicuramente e astutamente ispirato, Giannoli privilegia la seconda parte del testo originario che sembra anticipare le degenerazioni del sistema mediatico odierno: con la sua chiara concessione agli umori populisti, “Illusioni perdute” insiste sulle comparazioni tra il torbido intreccio delle carriere e la lotta di classe, l’affannosa corsa alle cene, le lusinghe editoriali e le manovre dei precorritori dei tweet e fake news e la segreta voluttà delle alcove amorose, i misteri e i voltafaccia sentimentali e le oscure trattative pubblicitarie, finanziarie e politiche.

 

ILLUSIONI PERDUTE

Guia Zapponi: “Il teatro è un luogo di catarsi e per cercare di capire che cos’è la vita”

Guia Zapponi classe 1977, è una attrice, produttrice e regista milanese. Dopo gli studi teatrali fra la City Lit di Londra e la Scuola del Teatro Stabile di Genova, la vita di Guia si divide fra teatro, cinema e televisione sia sulla scena che dietro le quinte. Artista poliedrica e dal corpus artistico molto nutrito.

Dal 1995 interpreta ruoli principali in teatro tra cui Il postino di Neruda (regia di Memè Perlini), Giulietta e Romeo (regia di Nicolaj Karpov), Olga (regia di Maura Cosenza), La bisbetica domata (regia di Marco Cesobono), Il Rompiballe (regia di Andrea Brambilla), Posta prioritaria (regia di Sara Bertelà),  Tre voli (regia di S. Bertelà), Bash (regia di Marcello Cotugno), Don Chisciotte (regia di Maurizio Scaparro), Theatre Ouvert (progetto teatrale presso il Teatro Stabile di Torino, di Elisabetta Pozzi).

Guia Zapponi nel DON CHISCIOTTE

Dal 2005 al 2012 lavora in televisione per Rai e Mediaset. In Gente di mare è Laura, sempre lo stesso anno in Codice Rosso interpreta Stefania (regia di Riccardo Mosca) e nel 2008 è Lina ne La Squadra (regia di G. Leacche) e nel  2012  partecipa al film tv Il Matrimonio (regia di Pupi Avati). Successivamente interpreta la sorella di Elena Sofia Ricci nel film tv Le due leggi (regia di Luciano Manuzzi 2013) e successivamente partecipa come protagonista nella serie di successo Don Matteo 10 (regia di Jan Michelini 2015).

Guia e Terence Hill in Don Matteo

 

Per quanto riguarda cinema, l’attrice esordisce nel 2004 con il film Non aver paura (regia di Angelo Longoni) successivamente Una talpa al bioparco (regia di Fulvio Ottaviano). Tra i tanti cortometraggi partecipa come Maria Maddalena in Jesus-il Miracolo italiano (regia di Franco Di Pietro). Il suo curriculum è impreziosito da svariati sodalizi artistici: Guia inizia la collaborazione con un maestro del cinema come Pupi Avati partecipando ai film Il figlio più piccolo, Una sconfinata giovinezza, Un ragazzo d’oro e Un Viaggio lungo cent’anni. Lavora con Carlo Verdone nel film Sotto una Buona Stella.

 

 

 

 

 

Guia Zapponi- Sotto una buona stella

Con il regista genovese Ildo Brizi  gira due cortometraggi e un lungometraggio come protagonista assoluta Danza Macabra 2014 che vince quest’anno come miglior film di genere al Terra di Siena International Film Festival. Ha lavorato ad una commedia al femminile in uscita al fianco di Paola Minaccioni, Violante Placido e Claudia Pandolfi dal titolo Alice non lo sa

La sua carriera conta anche alcune esperienze all’estero: Guia è stata protagonista nei  film Sharkskin (regia di Dan Perri 2013)  Nothing like the sun (regia di Nguyen Nguyen) Nine-eleven ( regia di Martin Guigui) Los Angeles 2016 e Zeroville (regia di James Franco 2014).

in Sharkskin

Come regista debutta nel 2007 nel suo primo documentario girato in Mauritania, sostenuto dal Ministero dei Beni Culturali, sui cambiamenti climatici proiettato all’interno della settimana sostenibile dell’UNESCO a Roma.

Guia continua la sua esperienza di regista in teatro firmando la regia teatrale di Cena con Burlesque con ben 200 repliche e produce The Great Carouesel.

Guia Zapponi –The Great Carouesel

Si è cimentata nel cinema con la regia del  suo primo cortometraggio dal titolo Paludi e il suo secondo corto dal titolo Una scatola piena di Luce con Giulia Lazzarini, Sara Bertelà e Ginevra Ghisleni, acquistato da Rai Cinema ha vinto una menzione speciale al Terra di Siena International Film Festival.

Come regista firma tre documentari: Journey To Mauritania, Oman Expedition acquistato da De Agostini e il suo ultimo film Soul Travel prodotto da RS Productions branchia di Rolling Stone Italia è uscito al cinema in tutta italia ad agosto 2021. Proprio con quest’ultimo Guia Zapponi è stata premiata al 25° International Terra di Siena Film Festival nella categoria “Migliore Regia Documentario”.

Nella sua carriera Guia ha prestato il suo volto anche per noti spot pubblicitari e nel corso della sua carriera si preoccupa di curare anche degli aspetti organizzativi e della produzione teatrale e cinetelevisiva. Dal 2008 al 2016 per La Biennale di Venezia si occupata dell’organizzazione del Festival di Venezia nel settore Delegazioni Film.

Guia Zapponi è un’attrice di talento, quel tipo di interprete che lavora non in virtù della popolarità e del successo, ma per amore dell’arte. Un’attrice pensante e generosa, preziosa per il nostro spettacolo.

 

1 Chi sono i maestri del cinema italiano? Quali caratteristiche devono avere secondo lei?

Quando mi viene chiesto chi sono i maestri del cinema italiano mi vengono in mente i grandi del passato De Sica, Fellini, Antonioni, Rossellini e Monicelli. Sono maestri del cinema indiscusso, conosciuti in tutto il mondo. È ovvio che poi ci sono delle persone, comunque, molto in gamba anche oggi e che si potrebbero chiamare maestri. Abbiamo avuto un grande cinema soprattutto in quegli anni. Quello è storia. Ascoltavo proprio l’intervista di un’altra attrice, Monica Vitti appunto, e diceva che in quei tempi spesso i registi non prendevano attori usciti dalle accademie, ma prendevano gente della strada. L’attore era visto come un personaggio non comodo su un set. Per cui non solo erano dei maestri ma, in più avevano una grande creatività. Le caratteristiche che dovrebbero avere secondo me i registi sono sicuramente la creatività, la scrittura- perché il cinema parte dalla scrittura- e una visione, cioè un immaginario. E questi maestri le avevano.  Anzi credo che oggi chiunque faccia cinema deve avere secondo me queste tre caratteristiche.

2 A proposito di maestri, ha lavorato con Pupi Avati, lo trova un cineasta più ruvido o sentimentale? Cosa ha imparato stando a contatto con lui?

Ci sono registi di grande calibro e Pupi Avati è uno di questi. La sua filmografia è abbastanza corposa. Il suo ultimo film, quello su Dante, secondo me è molto interessante. Con lui ho fatto “Una sconfinata giovinezza” un film su una malattia che però non ha avuto a mio avviso il giusto spazio. Lui fa dei film, molto belli, molto difficili ma che magari posso non avere una grande risonanza. Ruvido o sentimentale? Io direi una via di mezzo. La cosa che ho imparato da lui sicuramente il rapporto che ha con gli attori. È molto bravo ad istaurare il rapporto registra-attore. Ha usato persone che non erano attori e li ha trasformati in attori, ad esempio, Katia Ricciarelli. Tanti altri che magari avevano altre professioni. O attori che venivano da tutt’altro cinema, magari, comico, commedia e lui li ha usati nel drammatico. È stato molto bravo da questo punto di vista: sa come parlare agli attori e li conosce. Un aspetto che si dovrebbe tenere conto quando si fa cinema. Perché non è importante solo quale macchina da presa usi o quale luce o qual è il direttore della fotografia o come fai l’inquadratura, ma se  non riesci ad avere una relazione, un rapporto con gli attori, in un certo modo, non riesci a tirar fuori da loro le emozioni, e se non riesci non puoi emozionare il pubblico. È un po’ una catena. Essendo attrice, avendo fatto tanti set, non è solo l’empatia, ma è sapere qual è lo strumento dell’attore, il proprio corpo la propria psicologia. Sapere come parlargli, cosa chiedergli, come chiederglielo. Se sai come parlare e quali emozioni vuoi tirar fuori dall’attore questo cambia il film. Questo l’ho imparato da lui proprio guardandolo e osservandolo. Se avessi fatto più film con lui avrei imparato come usare  al meglio il linguaggio cinematografico. È una persona di grande talento.

3 Cos’è è per lei il palcoscenico Guia? Un territorio neutrale dove si inventa l’uomo, il luogo ideale per essere se stessi, un modo per sfuggire al destino?

Per me il palcoscenico è un luogo in cui esprimersi, in cui attraverso i personaggi si riescono ad esprimere alcune potenzialità ed emozioni. Il teatro è un luogo di catarsi, nel senso che si va a teatro per cercare di capire che cos’è la vita.

4 Il mondo visibile ed invisibile si toccano di più in teatro o al cinema? Ritiene che il teatro sia più veritiero del cinema, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la messa in scena, la recitazione, ecc?

Il teatro  è presenza. Il cinema è visione. Poi, ovviamente la cosa bella è che non tutto deve essere detto, cioè tu metti gli ingredienti e poi lasci anche spazio al pubblico. Veritiero no, perché veritiero è soltanto il documentario, perché ciò che si vede è vero, forse nemmeno quello perché comunque è montato e quindi si fanno delle scelte, non si vede tutto. In questa prospettiva nulla è veritiero, neanche il teatro e il cinema sono veritieri perché sono rielaborazioni della realtà. Se poi parliamo di autenticità allora può esserci in tutto.

5 Guia è stata la regista del documentario Soul Travel, incentrato sul tema del viaggio. Cos’è per lei il viaggio? Perché ha scelto proprio Il vulcano Kilimanjaro?

Guia Zapponi- Soul Travel

Per me il viaggio è come un percorso interiore, per cui io lo vivo così: si può andare alla ricerca di qualcosa, oppure, avere voglia di un cambiamento, quindi intraprendere un viaggio per cambiare alcune cose o per spostarsi comunque da una realtà e vederla sotto un’altra prospettiva. Il mio documentario inizia proprio con un testo filosofico, scritto da Massimo Cacciari nel quale si legge che ci possono essere tanti modi di viaggiare. Ci può essere l’avventura e ci può essere anche soltanto il percorso per andare a fare la spesa che è una sorta di viaggio. Il viaggio che ho inteso in questo film è l’avventura e il cambiamento, quindi il percorso interiore. Avevo scelto due posti: uno era il Tibet e l’altro era la Tanzania. Purtroppo per via del Covid- perché comunque fortunatamente abbiamo potuto lavorare durante il COVID, il Tibet diventava complicato, proprio logisticamente, anche perché le frontiere erano chiuse. La mia idea era di avere una montagna come simbolo da scalare con trekking e il Kilimanjaro che era la seconda possibilità, è stata quella che abbiamo scelto. Se dovessi tornare indietro direi che è stata la scelta più adatta, soprattutto per quello che è successo durante il film, che ha potuto confermare il messaggio che io volevo mandare e cioè che non è importante la meta, ma appunto il percorso e le persone con cui lo tu fai. Un po’ il parallelismo della vita: cioè non è importante arrivare a chissà quali successi. Ognuno ha le sue mete, i suoi sogni… a volte per arrivare a quelle mete si perde una serie di cose e di bellezze che ti dà la vita tutti i giorni. Magari ecco le piccole cose o magari delle cose che puoi fare nel frattempo e che ti regalano comunque delle belle emozioni o belle sorprese. Ho riscoperto che stare insieme agli altri è bello e piacevole, umanamente ti fa sentire bene e utile. Ecco, il Covid ci ha permesso di capire questo messaggio importante.  La meta non è fondamentale, ma tutto il resto dentro questa vita sì: gli amori, le delusioni, le cose, i figli eccetera. Il viaggio sul Kilimanjaro è stata la stessa cosa. Tutti volevamo arrivare alla nostra cima-non era complicato arrivarci, perché ci arrivano tutti con una preparazione minima- ma c’è stato un incendio: il fumo ci ha bloccato, l’ultimo giorno, proprio ad un giorno dalla cima. Questo ha confermato il mio messaggio iniziale abbiamo potuto ammirare tante bellezze, tante cose che ci hanno cambiato e hanno contribuito alla creazione di un bel gruppo.

6 Cosa pensa del cinema italiano?… E delle fiction? Ravvisa in chi fa teatro e cinema d’autore dei pregiudizi  verso queste ultime?

Mi ricordo quando facevo teatro e volevo fare fiction, non dovevo dire che facevo teatro. Ci sono sicuramente i compartimenti cinema, teatro e fiction. Per me un attore può fare tutto.  Sono linguaggi differenti,  oggi hai più possibilità di lavorare bene anche sulle fiction, ma quando io lavoravo su Gente di mare o Codice rosso era tutto molto veloce. Ciak, scena uno, buona, avanti. Se fai teatro fai un mese di prove, lavori molto sul tuo personaggio e non è mai buona la prima. Io come attrice passerei da un linguaggio all’altro senza problemi. Sono un po’ chiusi come mondi e non sono tanto interscambiabili. Con le serie televisive di oggi, forse c’è un po’ più di possibilità di questo interscambio. Ti dico la verità, sono veramente molto positiva sul cinema italiano. Per me è un bel momento. Vedo autori molto interessanti, vedo registi che riescono comunque a fare dei bei film per cui sono molto fiduciosa.

7 Qual è stato l’ultimo film che ha visto?

Io guardo tantissimo cinema, tantissima televisione, mi piace, amo il cinema. L’ultimo che ho visto è stato A Chiara. Poi la Famiglia Addams, ad Halloween, con mia figlia Ginevra che ha 11 anni. Poi ho visto anche Tenet di Christopher Nolan, poi ho visto La Caja Come dire di Lorenzo Virga, che aveva vinto il Leone d’oro. In tv ho visto Revolutionary road di Sam Mendes. Diciamo che guardo veramente tantissimi film e tantissima televisione perché è anche un modo di studiare gli altri. Adesso voglio andare a vedere sicuramente Freaks out- Un film di Gabriele Mainetti. Ed è stata la mano di dio di Paolo  Sorrentino.

8 Regista- Attore è un sodalizio fondamentale per il successo del film. Eppure tra le due figure chi conquista una popolarità immediata è l’attore che sta sullo schermo rispetto al regista che sta dietro. Da cosa dipende a suo avviso? In più è lapalissiano che ci siano più registi uomini che donne. Perché? Quanto è stato difficile affermarsi rispetto a suoi colleghi uomini e in che tipo di ostacoli e preconcetti si è imbattuta ?

L’attore ci mette la faccia e quindi ha una popolarità immediata, il regista ci mette il nome, ma poi dipende anche da paese a paese. Da noi in Italia non so quanta gente esca per vedere un regista o un attore. In America, ad esempio, c’è chi va vedere un film di Nolan anche se molti non sanno che faccia abbia, altri invece scelgono il film perché c’è ad esempio Tom Cruise, Clooney o di Caprio, che sono mondialmente conosciuti.  L’attore tendenzialmente si promuove, si fa vedere anche perché è scelto in base alla sua immagine, corpo e fisicità. Il regista invece deve vendere ai produttori un suo contenuto. Purtroppo, sì ci sono più registi uomini che donne, come in tante professioni. Ci sono anni da convertire perché non abbiamo proprio lavorato come donne, partendo dall’Ottocento e avanti con i secoli. Mentre gli uomini hanno sempre lavorato, si sono create delle posizioni.

Noi ce le stiamo creando adesso e la Rai come altri broadcaster dovrebbe tener presente questo aspetto e dare un pochino più di spazio a registe donne. Ad esempio, quando vado a parlare con i produttori sono tutti uomini, così come le reti sono tutti uomini. La mia idea, quindi, deve valere almeno il doppio rispetto quella dell’uomo, a mio avviso, devi essere molto brava. Se io da donna un giorno dovessi avere una produzione avviata e c’è una donna incita che lavora con me tendenzialmente troverei un modo o comunque spererei che lo stato ci supporti perché queste persone possano lavorare. Io ho lavorato fino quando ero all’ottavo mese e ti dico la verità la Mostra del cinema di Venezia me lo ha permesso e io ne sono stata felice. A me piace lavorare. Noi per di più facciamo lavori per periodo. Io ho scelto per 3 anni di non lavorare e stare con mia figlia. Ma quella è stata una mia scelta ma dopo per rientrare ho fatto e sto facendo tanta fatica. Per di più sono una mamma single, per cui faccio tre volte la fatica che fanno gli altri però ti assicuro mi alzo la mattina e dico anche questa volta ce la faccio a fare questo film. E poi ci sono persone con cui collaboro che sono felici di collaborare con me.

Sono stata a Confindustria per ritirare il magazine in cui ero presente una mia intervista, scritta da Stefano Rudilosso, un grande professionista con cui mi piacerebbe collaborare sul mio prossimo film ambientato nel territorio comasco. Ci sono molte persone con cui sto collaborando al mio prossimo film soprattutto voglio ringraziare Flavio Artusi, produer e assistente alla regia, Giovanni Stilo, per la parte di scrittura iniziale e Lucio Montecchio e Dario Sonetti, professori universitari collaborazioni scientifiche per la scrittura del prossimo film. Ci sono tanti uomini e poche donne che hanno ruoli importanti. Secondo me l’involuzione di marcia ci sarà ed è una questione cultura. Dovremmo affermare i nostri diritti con determinazione. Ci sono molte registe donne brave. Anche attrici che stanno facendo film come registe, la Gerini, la Golino che li fa già. Da questo punto di vista sono molto fiduciosa, perché se ci possono essere registi uomini ci possono essere anche registe donne. La cosa migliore è essere considerati essere umani qualsiasi sia il genere, la razza ecc. I preconcetti in cui mi sono imbattuta sono tanti. Una donna deve sempre stare attenta a tante cose, perché si deve promuovere, deve essere piacente, ma dall’altra parte c’è la tua vita, le tue cose, le relazioni con chi vuoi tu. Sono fili molto labili. Non mi interessa né della fama né dei soldi se poi io mi guardo allo specchio e sono felice con me stessa quello che ho fatto va bene. È faticoso come attrici, non è una cosa solo mia, l’abbiamo vista con il Me too e non è solo nel cinema ma ovunque dall’azienda, alla musica, in qualsiasi settore. Ognuno dentro ha i suoi valori e fa delle scelte. Quando hai la possibilità di scegliere è già una grande cosa.  Quando avevo 19 anni e sono andata a Roma avevo per fortuna al mio fianco avevo il mio ex compagno che credeva in me: mi disse che sarei diventata una brava attrice, di studiare e che il resto lo avrebbe fatto la vita Non entrare in certe spirali perché potresti pentirtene. Io l’ho seguito, per fortuna avevo lui. Una ragazza potrebbe anche perdersi. Invece a volte bisogna avere la forza di dire no.

Ho fatto lo stabile di Genova poi sono passata al cinema con una consapevolezza differente. Magari non sono diventata famosa a vent’anni ma non so neanche se certi escamotage possano portare alla fama, forse sì o forse no. Alla fine, ognuno fa i conti con se stesso e la cosa più importante è conoscere se stessi e fare ciò che è nella tua natura, ciò che ti dice la tua voce interiore in modo tale che tu vivi serena con te stessa. Io, Guia, non giudico e non mi interessa. Voglio essere una persona onesta, pulita e leale. Ho combattuto con le mie paure, con le mie fatiche. Ognuno fa un suo percorso, che è unico, ognuno ha il suo modo di crescere ed imparare le cose, di fare gli errori. L’80% della mia vita è il mio lavoro. Quella è una parte importante e quindi devi condividerla con una persona che magari ha fatto un percorso simile oppure lo comprende. Ma se due persone si supportano in qualsiasi caso, lavorativo o sentimentale, è una bella relazione. Tornando alla questione lavorativa, dico che ci sono molti produttori a credere nelle donne per cui si deve provare e se una strada non va bene chiuderla e intraprenderne un’altra.

9 A cosa sta lavorando e quali sono i suoi progetti futuri? 

Sto lavorando ad un film ed è una storia stupenda secondo me. È il mio primo lungometraggio ed è la mia prima esperienza come regista in questo senso. È una storia pazzesca che ho inventato e parla della relazione tra essere umano e piante. Anche su temi di attualità come ambiente e sostenibilità. Poi c’è una parte di invenzione perché non è scientificamente provato quello che andremmo a raccontare nel film. La storia parte da un continente straniero: la Costa Rica e poi giriamo il film tra Milano e Como. E’ un thriller, ci sarà all’inizio una bella scena in Costa Rica per proseguire poi Italia. Il Film mi piace molto, ci sto lavorando da un po’ e dovremmo a dicembre finire la prima stesura della sceneggiatura e iniziare la produzione l’anno prossimo.

 

 

 

 

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