‘Codice siciliano’, il linguaggio musicale e sinuoso di Stefano D’Arrigo

Una ristampa sembrerebbe il più meccanico dei gesti culturali. Ma quando le circostanze ripropongono situazioni e sentimenti che già avevano trovato una loro forma estetica splendente, un loro suono insostituibile, allora riproporre al pubblico un libro diventa un gesto creativo e insieme un monito a non lasciare indietro qualche parola che ancora ci occorra. Alla fine del 2015 Mesogea ci ha restituito (dopo 37 anni: la prima edizione è del 1957, Scheiwiller, la seconda del 1978, Mondadori) Codice siciliano, il solo libro di poesie di Stefano D’Arrigo (1919-1992), curato e introdotto da Silvio Perrella. È un libriccino color verde acqua, 89 pagine, che in libreria quasi si nasconde sugli scaffali, pur magri, della poesia.

Come scrive Perrella, D’Arrigo, trasferitosi a Roma, «porta con sé il desiderio di forgiare un ‘codice’ della propria origine». Ripercorre così viaggi di emigranti, figure femminili, memorie e simboli della religione, l’infanzia «tesoreggiata di pepe e cannella»; rivive in sé il nostos di Ulisse, ma «in un familiare / odore di mele e fichidindia»; ci ricorda della Sicilia araba, saracena, del canzoniere di Ibn Hamdis, della Sicilia degli svevi, arrivando fino al suo ’900, ai giovani che partono alla guerra, «su questo treno che va sulla luna», guardando l’Italia, il Nord, sull’altra sponda dello Stretto.

Il linguaggio di Stefano D’Arrigo

Nella calura di questa Sicilia antica ritroviamo soprattutto i riti religiosi, ma anche le immagini dei sacri misteri e delle processioni hanno qualcosa di sensuale, fisico, magico: l’ostia che si scioglie «nel roseo palato / delle donne»; il piccolo angelo (forse lo stesso D’Arrigo settenne) che fa la guardia «al fianco flessuoso della Vergine». Per converso, anche la vita materiale, anche i sensi si sacralizzano: nel poemetto Versi per la madre e per la quaglia – dove la madre prega per il migratore tornato dall’Africa, accolto come dono divino
per «ammansire la fame» – il poeta ormai lontano si immagina trasfigurato in quaglia perché «muore per la […] fame» della madre, e nello stesso poemetto la voce della madre si fa nutrimento nel ricordo, davvero quasi Verbo fatto carne.

Come spesso nei siciliani, è una lingua aspra e al contempo sinuosa quella di D’Arrigo, è il primo assetto della lingua di chi ha speso la sua vita d’artista a tentare di dire l’enormità del mare e le angustie eroiche di chi nel mare e del mare vive, viaggiando o pescando, come sa chiunque abbia familiarità col poderoso Horcynus Orca e con i suoi indimenticabili «pellisquadre» in lotta con le «fere».

Nei versi, spesso endecasillabi, la creatività linguistica non sfrutta, come nel romanzo, il dialetto, ma è tutta nel manieristico e suadente gioco di rime e intrecci di suoni, dove le spume dannunziane («per mari d’aria e remare d’anime») stanno accanto a inflessioni ermetiche («le improvvise clessidre del tuo male»).

Sullo sfondo il rimpianto per «l’aurea / semplicità di un poeta che si chiama / Saba» (unico omaggio esplicito, pur essendo «di così estranea indole / all’araba tua e mia»), l’aspirazione alla semplicità della voce materna, che non sa di «rimare, analfabeta» in una lingua diventata ormai irraggiungibile («in una lingua che non so più dire»).

Codice siciliano è testo-testimonianza lirica e umana di un autore che, con spirito omerico, si assume il proprio tempo in linguaggio. Una lettura non facile, affascinante e musicale.

 

Jacopo Galavotti

 

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