‘Cold war’ di Pawlikowski: l’amore incandescente tra un pianista e una cantante dentro un blocco di ghiaccio

Il soggetto è antico quanto il mondo, ma Cold War suscita sentimenti così intensi da fare sì che irrompano nel cuore dello spettatore nel preciso momento in cui lo sta vedendo. L’aspetto più stupefacente, però, del poetico e struggente film del polacco emigrato a Londra Pale Pawlikowski -già gratificato dal meritato successo mondiale di “Ida”– sta nel fatto che sembra sia riuscito a scolpire un’incandescente storia d’amore all’interno di un blocco di ghiaccio: girato in 16mm, nel desueto formato dell’1,33:1 e in un prezioso bianco e nero che si rimodella continuamente eliminando le sbavature e variando le sfumature, questo film imperdibile riesce a catturare i dettagli più impercettibili senza cedere al manieristico, al melodrammatico o al ricattatorio bensì ricostruendo i fatti con una cadenza asciutta ed ellittica, come se l’assoluta sobrietà espressiva fosse l’unico modo possibile per recuperare i frammenti di un sogno per metà realistico e per l’altra onirico.

Il celebre verso ovidiano “non posso vivere né con te né senza di te” calza, inoltre, come un guanto sia all’attrazione fatale scattata tra il pianista, etnomusicologo e jazzista Wiktor e la cantante e ballerina Zula, sia al loro contraddittorio rapporto con la Polonia prigioniera della tetra dittatura comunista. Lui fascinoso, intellettuale, autodistruttivo, lei selvaggia, sensuale, delatrice: s’incontrano nel 1949 nel corso delle audizioni tra i contadini propedeutiche alla fondazione di un gruppo musicale folkloristico e s’innamorano perdutamente. Il Partito vigila sul connubio non gradito e sulla tenuta ideologica dell’ensemble che dovrà fungere da veicolo propagandistico nelle tournée destinate ai “paesi fratelli”, ma mentre Wiktor fugge appena può all’Ovest, Zula sembra rassegnata a restare ostaggio dei burocrati e dell’istinto di sopravvivenza.

Cold war: trama e contenuti

Un loro agente, che si presenta come “dirigente amministrativo”, instrada il gruppo formatosi nel ’51 verso un repertorio che dia lustro al regime, gli artisti si esibiscono ma è il partito che si mette in mostra. Il ministro (verosimilmente di un “minculpop” polacco) ne ha tutto l’interesse e fa procurare date e sedi importanti. Nel ’52, a Berlino, Wiktor passa il confine verso l’ovest, la aspetta dopo l’esibizione ma lei è trattenuta dal dirigente amministrativo e dai suoi stessi dubbi, è sorvegliata come informatrice. Rivediamo lui a Parigi nel ’54, suona nel locale Eclipse, qui si sente il sax e la musica sa di America, è lontana dai cori osannanti dell’est. Si rivedono e riamano, non sarei scappata senza te, Zula rimprovera l’amante. Un altro incontro avviene in Iugoslavia nel ’55, ad un’esibizione il ritratto di Stalin dal sorriso beffardo campeggia dietro gli artisti in un concerto. Si piacciono sempre, ma negli incontri i loro caratteri forti alimentano burrasche. Nulla di melenso è contenuto nel film.

Rientrerà in Polonia nel ’59, Wiktor, per riaverla, sconta anni di prigione e Zula lo aiuta a uscirne. Si sposano loro due soli nel ’64, scendono da una corriera ad una chiesa diroccata e sperduta nei campi, che già si è vista ad inizio film, c’è solo una candela e la loro promessa, “finché morte non ci separi”. Si spartiscono pochi chicchi di riso i due, Zula ne dà qualcuno in più a lui. Lei non considera validi altri suoi matrimoni, perché non celebrati in chiesa, la Chiesa cattolica, imperante nelle coscienze accanto al regime, che invece si occupava delLe vite degli altri. Si può supporre che non vissero felici e contenti né sereni, come i genitori del regista, ma il loro sedersi su una panchina accanto a quella chiesa in un paesaggio cupo e Zula che gli dice Andiamo da un’altra parte, lì la vista sarà migliore, sembra già una bellissima luna di miele.

Passeranno quindici, lunghi anni in cui i distacchi s’alternano ai ricongiungimenti e alle fugaci parentesi di felicità amorosa e successo artistico, tra cui spicca quella bohémienne vissuta da esuli nelle mansarde e i night della Parigi esistenzialista. La storia della Guerra Fredda e la gamma dei gusti, i trucchi, le mode, le censure e i desideri rimossi delle persone che di volta in volta li sabotano, li favoriscono o l’illudono s’intreccia, s’insinua, s’alimenta nel fuoco del sesso, del tradimento, dei gap culturali e del richiamo dell’orgogliosa patria polacca che, benché subdolo e poliziesco, non smette di fare presa sui poveri amanti al di qua e al di là della Cortina di ferro. Tecnicamente si viaggia ai livelli più alti, basti citare l’uso abilmente coordinato delle musiche colte e popolari, i disseminati riferimenti alle atmosfere del cinema francese anni Trenta e a quelle delle scuole est-europee degli anni ’50 e ’60 o la gestione dei piani d’inquadratura che vanno sempre dritti allo scopo, lavorano sul non-detto e sull’indicibile e culminano nella sublime scelta dello straziante fuoricampo finale. Ma conta di più che a schermo spento non si cancelleranno silenzi così eloquenti, amplessi così rapinosi, confessioni così disperate e spasimi struggenti come quello di Wiktor che sibila in faccia all’occasionale compagna di letto “ho appena rivisto la donna della mia vita” oppure quello di Zula ubriaca che in mezzo alla baldoria di un locale si divincola dicendogli “ti amo più della mia stessa vita ma devo correre a vomitare”.

In Cold war, il regista ha rammentato che “erano due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale”: accade qualche volta che due persone ottime, nella coppia (convivenza) non esprimono tutto intero il loro valore, la somma degli addendi è inferiore al valore complessivo dei singoli.

 

Fonti: https://www.agoravox.it/Cold-war-di-Pawel-Pawlikowski.html, 

 

Cold War

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