In ricordo di Monica Vitti, la sola e unica mattatrice italiana

Diversi giornali trattano la morte di Monica Vitti, scomparsa oggi a 90 anni, in relazione alla sua malattia titolando squallidamente “Era irriconoscibile”, “Era malata da tempo”, come se quello che si dovesse ricordare di lei sia il suo cambiamento fisico e la sua malattia, l’ultima parte della sua vita lontano dai riflettori e dal cinema.

Monica Vitti è stata una grande attrice, una professionista, una donna bellissima, simpatica, intelligente, rigorosa, cordiale, amatissima dagli italiani, le sue pellicole rimarranno nella storia e lei continuerà ad essere un punto di riferimento per le aspiranti attrici. Se va un pezzo del nostro cinema tanto apprezzato all’estero, se ne va una figura unica nel panorama del nostro cinema, di tutte le epoche. Non era, né si considerava, un monumento. I ruoli le aderivano come gli abiti che indossava. Tutti. Era tanto intensa, completa, presente a tutta la gamma delle parti, che a volte lasciava la sua bellezza indietro. Era lei che la controllava, e non voleva che invadesse tutto il resto che le apparteneva.

Era di una bellezza fuori dagli schemi, Monica Vitti, nella stagione delle maggiorate. Una bellezza inconsapevole, intellettuale, magnetica e celata, mai esibita, volgare o pacchiana, al servizio dei ruoli che interpretava. Dei film cui ha preso parte come protagonista, celebri sono L’avventuraLa notte e L’eclisse, fra il ’60 e il ’62, dove diede vita a quel personaggio triste, ferito, confuso, silente, anaffettivo solo in apparenza.

Michelangelo Antonioni doveva molto a Monica Vitti, sua compagna anche nella vita, considerata cinematograficamente da lui solo in vesti drammatiche. Ma Monica possedeva anche un grande senso dell’ironia che seppe mettere a frutto, cambiando registro. Assunse la commedia con la stessa spigliatezza del dramma. Indimenticabile il ruolo della donna siciliana d’onore che la Vitti ci ha consegnato nel film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, come pure quello di Teresa la ladra.

Monica Vitti in Deserto rosso

Tra “alienazione” ed ironia

Fa donna difficile che non riusciva ad inserirsi nella realtà, a dare ordine alla cose, Monica Vitti diventò l’attrice “brillante” più popolare del cinema italiano degli anni ’60 e ’70, che invece riusciva a dare senso alla realtà avvalendosi di ironia e leggerezza, grazie a film come Alta infedeltà diretto da Luciano Salce, Le bambole di Dino Risi, Ti ho sposata per allegria, ancora di Luciano Salce. Nel 1969 interpretò Amore mio aiutami: fu il primo film di e con Alberto Sordi, che metteva alla berlina la falsa emancipazione del matrimonio in Italia.

L’anno seguente fu la protagonista de Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola accanto a Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. Si fece dunque strada come la “mattatrice” incontrastata, la risposta femminile al mattatore Vittorio Gassman, unica donna capace di competere con i grandi comici della commedia all’italiana. Nel 1973 fu la protagonista di Polvere di stelle, esilarante commedia cinematografica diretta e interpretata da Alberto Sordi.

Nel 1966 a chiamarla fu un maestro l’americano, Joseph Losey che le assegnò il ruolo di protagonista in Modesty Blaise – La bellissima che uccide, dove Monica era un agente segreto, una sorta di parodia di ‘007.

Nel 1974 venne chiamata da Luis Bunuel ad interpretare la signora Foucauld in Le Fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà). In tutto Monica Vitti ha ricevuto tre Nastri d’argento e cinque David di Donatello. Il teatro è stato un suo grande amore: nel 1986 recitò accanto a Rossella Falk in La strana coppia, per la regia di Franca Valeri; due anni dopo  in Prima pagina di Hecht e MacArthur, diretta da Giancarlo Sbragia.

Io so che tu sai che io so

E’ stata autrice di due soggetti cinematografici: Flirt, scritto nel 1983 e Francesca è mia, del 1986. Non contenta di essere diventata l’attrice numero uno delle commedie brillanti all’italiana, nel 1989 diresse anche un film, Scandalo segreto, che interpreta al fianco di Elliott Gould e Catherine Spaak.

Ma cosa pensava Monica Vitti del cinema del suo tempo? In un’intervista ad Oriana Fallaci, l’attrice confessò di amare i film western, si divertiva con i saloon, le sparatorie, le cavalcate e partecipava emotivamente al film che guardava, agitandosi e urlando.

Alla Vitti inoltre, soprattutto nel periodo antonioniano, veniva affiancano il termine alienazione. Alla domanda della Fallaci su cosa fosse l’alienazione, la Vitti rispose che non lo sapeva, neppure si era posta mai il problema di domandarsi da dove provenisse, se dal Capitale di Marx o dai Vangeli e che i giochi intellettuali non era capace a farli, anzi si professava ignorante:

<<Di cosa crede che io parli con Michelangelo (Antonioni, suo compagno)? Di incomunicabilità?>>?

Incomunicabilità, altra parola chiave, non solo del cinema di Antonioni ma del nostro tempo e intorno alla quale la Vitti aveva le idee chiare e le espose in questi termine alla Fallaci:

<<Analizziamo L’eclisse che è il film più difficile. Che storia racconta? Quella di una ragazza che non ama più un uomo e lo pianta. Quando lo ha piantato, ne trova un altro. I due si piacciono, credono alla possibilità di un amore e si danno un appuntamento. A questo punto però ad entrambi prende una paura, quella impegnarsi troppo, forse di farsi imbrogliare, di subire una delusione e non vanno all’appuntamento. Stop. Ma siccome Antonioni è un intellettuale, ci deve essere il sottofondo>>.

L’eclisse

Monica Vitti spiegò candidamente e semplicemente la differenza della funzione dell’attore e del cineasta e di come Antonioni venisse spesso frainteso e anche lei, considerata un’ambizione che pur di fare cinema di spessore, sacrificasse la sua natura di donna estroversa ed ironica, pensiero smentito dal successivo capitolo cinematografico della carriera di Monica Vitti, un’alienata con riserva e di grandissimo talento. Un esempio per tutti coloro che vogliono fare cinema per amore dell’Arte, non per il successo, con passione, e serietà, senza accettare compromessi.

 

 

Presentazione del libro “Caccia al Ladro a Venezia” di Chiara Padovan all’Hotel Carlton di Venezia il 18 dicembre

Venezia, 10 dicembre 2021 – Una commedia romantica e divertente, perfetta per la trama di un film, ambientata a Venezia, che vede due amanti alle prese con un fantomatico ladro di gioielli. Dopo “Primo bacio a Venezia”, la scrittrice Chiara Padovan torna a far sognare in particolare il pubblico femminile con il libro “Caccia al ladro a Venezia”, un altro intrigante episodio della storia d’amore tra Sissi e Sergej, pubblicato da Libromania (un marchio di DeA Planeta Libri), che l’autrice verrà a presentare all’Hotel Carlton On The Grand Canal di Venezia sabato 18 dicembre alle 17.30.

La protagonista dei romanzi di Chiara è Silvia De Santis, per tutti Sissi, una quarantenne veneziana di Cannaregio, aspirante scrittrice e cuoca tremenda, che lavora in un’importante agenzia di comunicazione. Per caso (o forse no) intreccia una storia d’amore con un giovane misterioso miliardario russo con il quale, nel secondo romanzo, condividerà un’avventura sulle tracce di un ladro di gioielli. Ma anche Venezia, con i suoi palazzi e le sue fondazioni artistiche, è una co-protagonista. Il genere a cui l’autrice si ispira è “Bridget Jones” o “I Love Shopping”: una scrittura leggera, sciolta, carica di quell’ironia che rispecchia il carattere  di Chiara, ma che, al contempo, contiene riflessioni, come l’importanza delle amicizie, di sostenere i nuovi talenti, di recuperare cose che si stanno perdendo, ad esempio la scrittura a mano.

L’evento è ospitato dall’ Hotel Carlton in the Grand Canal. Affacciato sul Canal Grande, l’Hotel Carlton è la destinazione ideale per un’indimenticabile vacanza a Venezia. Proprio di fronte alla Stazione di Santa Lucia, vicino a Piazzale Roma, è facile e comodo da raggiungere. La sua eleganza sa incantare i suoi ospiti tra colori pastello, stucchi veneziani e appliques in vetro di Murano. Tutte le sue 145 stanze sono decorate in stile settecentesco veneziano e sono dotate di ogni più moderno comfort.

Il Ristorante La Cupola offre menu tipici veneziani e stagionali, preparati con ingredienti del territorio. Il Carlton Cafè offre la possibilità di degustare ottimi drink, stuzzichini e snack. Fiore all’occhiello dell’hotel è la sua splendida terrazza panoramica, la Top of the Carlton Sky
Lounge & Restaurant, situata al quarto piano, ideale per feste, concerti, eventi mondani, ma anche per una splendida
serata romantica con vista Canal Grande.

Chiara Padovan è una giornalista che vive a Bassano del Grappa (VI), già autrice di testi, anche per bambini e ragazzi, che ama incondizionatamente la città di Venezia fin da quando era bambina. A Venezia non ha mai vissuto e non vi ha studiato (ha studiato Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano), ma non fa passare una stagione senza tornarci e visitare ogni suo sestiere.

 

INFORMAZIONI EVENTO:
Presentazione del libro “Caccia al Ladro a Venezia” di Chiara Padovan
Sabato 18 dicembre 2021 ore 17.30
Hotel Carlton On The Grand Canal – Venezia
Ingresso su prenotazione, scrivendo a ufficiostampa@extralabcomunicazione.it.

Ufficio Stampa
Extra Lab Comunicazione
Elena Ferrarese
m. +39 349 6393917
ufficiostampa@extralabcomunicazione.it

‘Tolo Tolo’, il nuovo film di Checco Zalone, tra convivialità e notazioni scorrette ed opposte

Resteranno delusi coloro che si sono accapigliati ancora prima dell’uscita dell’atteso film di Checco Zalone, Tolo Tolo, prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi, che si dividono in quelli pronti a condannare il presunto spirito razzista, salviniano, anti-migranti, e quelli adusi a difendere la sua comicità politicamente scorretta.

Tolo Tolo: tra citazionismo e mescolamento di notazioni “scorrette”

Ma Luca Medici, alias Checco Zalone, non ha fatto una scelta di campo e in Tolo Tolo (Solo, solo) non manifesta alcuna fobia o insofferenza per i neri, gli sbarchi e i migranti né strizza l’occhio a Salvini. Anzi. Piuttosto mescola notazioni “scorrette” ad altre di segno opposto, è la sua miscela vincente e se vogliamo furba, anche se stavolta il risultato è meno riuscito rispetto ai suoi precedenti film; Tolo Tolo infatti si rivela un film leggero, godibile ma fa ridere meno del solito.

Zalone diverte a dispetto delle critiche stantie e noiose di alcuni critici abituati ad essere estasiati dal tetro e pesante bastian contrario di Nanni Moretti o al fazioso trasformismo Maurizio Crozza. Zalone invece sparisce per molto tempo, non cura i social, non compare in TV per poi sbucare all’improvviso con un nuovo film che riempie tutte le sale cinematografiche d’Italia battendo il suo stesso record di Quo Vado, dove Zalone compiva un’esperienza nella civilissima e progressista Norvegia.

Dal punto di vista formale Tolo Tolo risulta essere un film più elaborato dei precedenti, ma non altrettanto per quanto riguarda il soggetto e la sceneggiatura (scritta con Paolo Virzì); tuttavia la forza della pellicola risiede nell’abilità del regista di far credere che ad essere preso di mira è sempre qualcuno altro, non lo spettatore che lo guarda, e per questo che Zalone frega e scontenta tutti.

Tolo Tolo, come molti si aspettavano non parla di immigrazione e integrazione, bensì di emigrazione e convivialità, concetti pressocché sconosciuti ad intellettuali ed artisti nostrani. Facendo la spola a velocità massima tra opposto estremismi e centrismi, Zalone prende di petto argomenti attuali e spinosi ricorrendo anche al citazionismo e a riferimenti della storia del cinema non comprensibili o conosciuti da tutti: si va da Esther Williams a Pasolini, da Bertolucci a Spielberg, passando per Mary Poppins.

Trama del film di Zalone

La storia è quella di un imprenditore delle Murge che scappa in Kenya per sfuggire ai tormenti procuratigli dalla ex moglie, Equitalia e creditori vari, dove si improvvisa cameriere in un resort esclusivo, perché secondo lui, che ha rifiutato il reddito di cittadinanza per aprire un sushi restaurant, in Africa “è possibile continuare a sognare”. Lì incontra Oumar, cameriere con il sogno di diventare regista e la passione per quell’Italia conosciuta attraverso il cinema di Pasolini.

All’improvviso in Africa scoppia la guerra e i due sono costretti a emigrare, anche se Checco non punta all’Italia ma ad uno di quei Paesi europei che sono paradisi fiscali. A loro si uniranno la bella Idjaba e il piccolo Doudou (“come il cane di Berlusconi”)

Tolo Tolo è un road movie alla rovescia dove il burattinaio Zalone ne ha per tutti ma non parteggia per nessuno, e dove i politicamente corretti godono a vedere messi alla berlina i pregiudizi d’una volta; e i politicamente scorretti godono a vedere essere presi in giro i nuovi tabù intoccabili in un linguaggio senza veli. Così ognuno ride alle spalle dell’altro.

La sua satira dei pregiudizi degli italiani regge su una semplice ma efficace trovata: fa parlare un ragazzo d’oggi con le parole ingenue di pochi decenni fa, quando quei modi di dire e di pensare erano senso comune e lessico quotidiano, non solo al Sud. Sulla stessa lunghezza d’onda è la sua comicità fondata sui doppi sensi, come si usava nelle comitive di una volta e che oggi appare irriverente. Zalone è un finto ingenuo e triviale che non vuol convincere né fustigare nessuno, né propinare ideologie “corrette”, solo seminare qualche dubbio e strappare risate.

Non a caso in Tolo Tolo gli sfruttati neri sono perseguitati, ma non di rado si trasformano in sfruttatori; i politici italiani sono macchiette viventi, ma i poliziotti locali prendono mazzette più degli evasori nostrani; il Mussolini che è rimasto nelle nostre vene  è grottesco, ma purtroppo è vero anche che i trafficanti estorcono 3000 dollari a testa ad adulti e bambini per la pericolosa traversata; sul molo dove attraccano i barconi si fronteggiano a pari merito di sgradevolezza i tifosi del “cacciateli via” e quelli del “restiamo umani”.

Si può vivere insieme per fronteggiare problemi comuni (guerra, tasse, terrorismo, ex mariti o ex mogli) e abitudini universalmente riconosciute (come la “gnocca”) e non perché qualcuno ci viene a dire che bisogna stare tutti nella stessa casa, per costrizione oppure per contaminazione, ricordando sempre che molto spesso la realtà è una fake news.

 

‘Benedetta follia’ di Carlo Verdone ci consegna un’Ilenia Pastorelli attrice a pieno titolo

Che Ilenia Pastorelli, l’inconsapevole fatina di “Jeeg Robot”, fosse una forza della natura lo si era già capito, ma Verdone è riuscito a tramandarla come attrice a pieno titolo. La sua verve sexy in bilico tra il “ci è o ci fa” (la sciroccata) imperversa, infatti, in Benedetta follia, shaker dolceamaro delle tematiche più congeniali al talento ragionato del regista trait d’union tra la tracotanza dei mostri anni Sessanta e la fragilità degli eredi psicotici della commedia all’italiana. Il suo segreto si conferma, infatti, quello dell’abilità e la malizia con cui il suo alter ego schermico è indotto a confrontarsi con le controparti femminili che lo blandiscono e l’umiliano, ma infine gli offrono puntualmente una chiave per restare i piedi sui travagliati saliscendi della vita.

Plurimitato senza sosta –anche il film della coppia Albanese/Cortellesi in questi giorni meritatamente premiato dal box-office non può che definirsi verdoniano- il suo album di storie smarginate ha scontato fatalmente qualche impasse, ma per fortuna quest’ultimo capitolo agisce da ottimo energetico non solo perché servito a puntino dalla pertinenza della fotografia e la colonna sonora, ma perché distribuisce nelle proporzioni giuste le piroette survoltate ed esilaranti e i contrappunti di uno stato d’animo malinconico ma non lugubre.

Il messaggino in filigrana di Benedetta follia si limita a suggerire che non basta invecchiare, bisogna “sapere invecchiare”, ma è proprio su questo terreno che nessuno può superare le vocazioni autolesionistiche di un deus ex machina come Carlo Verdone. Fatta salva una riserva sul finale un po’ flebile e sforzato, il film non perde le misure e le cadenze né quando il timorato protagonista è trascinato nel gorgo delle app per single desiderosi d’accoppiarsi (esula dalla volgarità persino la gag del cellulare finito per un gioco erotico maldestro negli intimi recessi di un’assatanata), né quando lo stesso sgambetta come Dumbo in un balletto onirico-psichedelico ai piedi della commessa in look fetish-borgataro, né quando l’incontro con l’amorevole infermiera interpretata da un’intonata e fascinosa Maria Pia Calzone mette in stand by la tragicomica guerriglia di classe e di sesso. E’ forse il caso che il Dio della commedia nazionale continui a darci il nostro Verdone quotidiano.

 

Benedetta follia

Addio a Gene Wilder, indimenticabile Dott. Frankestein

Si è spento il 29 agosto scorso, dopo una lunga malattia, all’età di 83 anni l’attore statunitense Gene Wilder famoso per i suoi ruoli del dottor Frankestein o “Frankestin” (così viene pronunciato da Igor il suo servo fedele) nel film Frankenstein Junior (1974) in cui interpretava l’omonimo scienziato, e per la sua fantastica interpretazione stralunata e e bizzarra di Willy Wonka proprietario della famosissima fabbrica di cioccolato (2005), che tutti i bambini volevano visitare. Con la sua simpatia, allegria e spontaneità, Gene Wilder ha segnato l’infanzia di molti perché diciamocelo, chi non sognava di vincere il biglietto d’oro per incontrarlo. Sconfitto forse un po’ troppo presto dall’alzheimer, un nemico con cui combatteva da tempo e che alla fine ha vinto portando via uno dei volti più noti del cinema degli anni 70 e con lui un pezzo della nostra spensieratezza da bambini. Ma come cita un detto antico “i migliori sono i primi ad andarsene”quindi non ci resta che dire addio ad una grande icona, che rimarrà sempre nei nostri cuori.

Jerry Silberman, questo era in realtà il suo nome, figlio di un immigrato russo, nato a Milwaukee, nel Wisconsin nel 1935, è stato non solo l’interprete principale di quel capolavoro assoluto di comicità Frankenstein Junior, pellicola cult del 1974 firmata da Mel Brooks, sebbene fosse di Wilder l’idea originaria nonché la prima stesura della sceneggiatura; Mel Brooks già vincitore di un Oscar per la sceneggiatura dell’esilarante satira del mondo teatrale Per favore, non toccate le vecchiette del 1968. Una trama geniale, un cast eccezionale (che ci regala, tra gli altri, un Marty Feldman nel ruolo di Igor, da antologia), una colonna sonora perfetta: Frankenstein Junior, parodia del classico di Mary Shelley conta su una trama geniale, un cast fantastico, una colonna sonora perfetta e battute memorabili, diventati veri e propri tormentoni: “Si può fare!!!”; “Lupu ulula. Lupululà? Là! Cosa? Lupu ululà e castello ululì! Ma come diavolo parli? È lei che ha cominciato. No, non è vero! Non insisto. È lei il padrone”; “Che lavoro schifoso! Potrebbe essere peggio. E come? Potrebbe piovere (scoppia il diluvio)”; “Igor cosa ci fai tu qui? Ho sentito dei rumori sospetti e sono sceso giù con il monta vivande, ho fatto un colpo gobbo”; “Rimetta a posto la candela”, “Frau Blücher”.

Dall’irresistibile sguardo dolce e vispo, Gene Wilder è stato tecnicamente molto abile nel mantenersi sempre lo stesso pur nella diversità, lasciandoci performances divenute celebri in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso… di Woody Allen, Mezzogiorno e mezzo di fuoco, Vagon litz con omicidi, Il gioco del giovedì, Il fratello più furbo di Scherlock Holmes, La signora in rosso, Non guardarmi, non ti sento, Scusi dov’è il West? Nel dirigere, oltre che ad interpretare i suoi film, Wilder, l’attore-feticcio di Mel Brooks, è sempre riuscito, con la sua tenerezza e malinconia, a conferire al nonsense e allo humour una profondità alquanto complessa.

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