Cesare Pavese: un uomo dal fragile destino

“Tutta la carica di Cesare Pavese gravitava sull’opera, su ciò che dell’esperienza esistenziale e conoscitiva si fa opera compiuta, ed è sulle opere che dobbiamo riportare il fuoco della nostra lente, soprattutto su quelle che portano il segno di Pavese più completo e maturo.
I nove romanzi brevi di Pavese costituiscono il ciclo narrativo più denso e drammatico e omogeneo dell’Italia d’oggi, e […] il più ricco sul piano della rappresentazione degli ambienti sociali, della Commedia Umana insomma, della cronaca di una società.”

Così parlava Italo Calvino di Cesare Pavese, in una intervista del 1960 di Carlo Bo su Europa. In effetti è difficile rendersi conto di quanto sia stato fondamentale per il novecento un personaggio come Cesare Pavese: lo stesso Calvino dirà che “la via di Pavese” si è esaurita con la sua morte, che nessuno riuscirà a prenderne l’eredita. Ma sarà in un certo senso proprio  Calvino stesso che dichiarerà di sentire pesante l’eredità dello scrittore piemontese, soprattutto in alcune sue opere come “Il sentiero dei nidi di ragno.”

La vita e le opere di Cesare Pavese sono strettamente intrecciate tra loro. Nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, comune nel cuneese, nonostante l’agiatezza economica della famiglia, l’infanzia di Pavese fu tutt’altro che facile. Due fratelli erano morti prima della sua nascita, il padre morì quando lui aveva soli cinque anni e fu affidato prima a una balia, poi a un’altra, che lo portò a Torino. Da questa infanzia traumatica possiamo agilmente ricavare i motivi fondamentali della sua poetica: la solitudine, la morte e le donne. Infatti Pavese visse praticamente sempre con la madre, la sorella o le badanti.
Scuole medie dai Gesuiti e liceo classico Cavour di Torino. In quel periodo fu scosso profondamente dal tragico suicidio di un suo compagno di classe, Elio Baraldi, che si era ucciso con un colpo di pistola: ebbe la tentazione di copiare quel gesto, come alcune sue poesie giovanili fanno intendere.

Pavese si iscrisse intanto alla Facoltà di lettere dell’università di Torino e continuò a scrivere e a studiare con grande fervore l’inglese appassionandosi alla lettura di Walt Withman, mentre le sue amicizie si allargarono a coloro che diventeranno, in seguito, intellettuali antifascisti di spicco: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi.

L’interesse per la letteratura americana divenne sempre più rilevante e così iniziò ad accumulare materiale per la sua tesi di laurea. Nel 1930 presentò la sua tesi di laurea “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman” ma Federico Oliviero, il professore con il quale doveva discuterla, la rifiutò all’ultimo momento perché troppo improntata all’estetica crociana e quindi scandalosamente liberale per l’età fascista. Intervenne però Leone Ginzburg: la tesi venne così accettata dal professore di Letteratura francese Ferdinando Neri e Pavese poté laurearsi con 108/110. Nello stesso anno morì la madre e Cesare Pavese rimase ad abitare nella casa materna con la sorella Maria, dove visse fino al penultimo giorno della sua vita e iniziò, per guadagnare, l’attività di traduttore in modo sistematico alternandola all’insegnamento della lingua inglese.

 

un’immagine di Cesare Pavese

Per un compenso di 1000 lire tradusse “Moby Dick “di Herman Melville e “Riso nero” di Anderson. Scrisse un saggio sullo stesso Anderson e, ancora per “La Cultura”, un articolo sull’Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca. Ottenne anche alcune supplenze nelle scuole di Bra, Vercelli e Saluzzo e incominciò anche a impartire lezioni private e a insegnare nelle scuole serali.  Era però l’attività di traduttore che gli forniva più guadagni: per un compenso di 1000 lire tradusse “Moby Dick”  e “Riso nero” di Anderson. Successivamente ottenne un incarico dalla Einaudi: ottenne la direzione della rivista “La Cultura”, sostituendo Ginzburg, perché tra i candidati era il meno politicizzato.

il 15 maggio, in seguito ad altri arresti di intellettuali aderenti a “Giustizia e Libertà”, venne fatta una perquisizione nella casa di Cesare Pavese, sospettato di frequentare il gruppo di intellettuali a contatto con Ginzburg e venne trovata, tra le sue carte, una lettera di Altiero Spinelli detenuto per motivi politici nel carcere romano. Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato e incarcerato dapprima alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli a Roma e, in seguito al processo, venne condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Ma Pavese, in realtà, era innocente, poiché la lettera trovata era rivolta a Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca” della quale era innamorato. Tina era però politicamente impegnata e iscritta al Partito comunista d’Italia clandestino e continuava ad avere contatti epistolari con il precedente fidanzato, appunto lo Spinelli, e le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo. Nell’ottobre di quell’anno aveva iniziato a tenere quello che nella lettera al Lajolo definisce lo “zibaldone”, cioè un diario che diventerà in seguito “ Il mestiere di vivere” e aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni.

 

 

Santo Stefano Belbo (Fonte: Centro studi Pavese)

Tornato a Torino alla fine del 1936, riprese l’attività di traduttore e dovette constatare che Tina, la donna che amava, si era sposata. In questo periodo incominciò a scrivere i racconti che verranno pubblicati postumi, dapprima nella raccolta “Notte di festa” e in seguito nel volume de “I racconti” e fra il 27 novembre del 1936 e il 16 aprile del 1939 completò la stesura del suo primo romanzo breve tratto dall’esperienza del confino intitolato “Il carcere” (il primo titolo era stato “Memorie di due stagioni”) che verrà pubblicato dieci anni dopo. Dal 3 giugno al 16 agosto scrisse “Paesi tuoi” che verrà pubblicato nel 1941 e sarà la prima opera di narrativa dello scrittore data alle stampe.
Nel 1940 l’Italia era intanto entrata in guerra e Pavese era coinvolto in una nuova avventura sentimentale con una giovane universitaria che era stata sua allieva al liceo D’Azeglio e che gli era stata presentata da Norberto Bobbio. La ragazza, giovane e ricca di interessi culturali, era quella che sarebbe poi diventata una delle più grandi letterate italiane: Fernanda Pivano. Lo scrittore le propose il matrimonio; malgrado il rifiuto della giovane, l’amicizia continuò.

 

Pavese professore (fonte:Centro studi Pavese)

Finita la guerra, Cesare Pavese iniziò a collaborare con “L’Unità”, dove conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori.

“Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?”.

Questo scriveva Pavese nel suo diario, nel 1946, molto probabilmente scottato dalla sua ennesima delusione sentimentale (stavolta con Bianca Garufi). Con Bianca Garufi si avvicinò l’interesse per la psicoanalisi, agli albori i quegli anni e quindi Pavese fu molto influenzato da queste nuove tematiche per la stesura dei “Dialoghi con Leucò”, dove i miti greci sono l’asse portante dell’opera. Il libro sarà dedicato a Bianca. Da quel suo estratto di diario,  si capisce che nei suoi libri Pavese non faceva altro che raccontare la sua esperienza di vita, intima e tragica, trasponendola agli altri esseri umani per trovare un conforto e un riparo dalla solitudine che avvertiva.

Tra il settembre del 1947 e il febbraio del 1948, contemporaneamente a “Il compagno”, scrisse “La casa in collina” che uscì l’anno successivo insieme a Il carcere” nel volume Prima che il gallo canti il cui titolo, ripreso dalla risposta di Cristo a Pietro, si riferisce, con tono palesemente autobiografico ai suoi tradimenti politici. Seguirà, tra il giugno e l’ottobre del 1948 Il diavolo sulle colline.

Alla fine dell’anno uscì “Prima che il gallo canti” che venne subito elogiato dai critici Emilio Cecchi e Giuseppe De Robertis. Dal 27 marzo al 26 maggio del 1949 scrisse “Tra donne sole” e, al termine del romanzo, andò a trascorrere una settimana a Santo Stefano Belbo e, in compagnia dell’amico Pinolo Scaglione, a suo agio tra quelle campagne, iniziò ad elaborare quella che sarebbe diventata “La luna e i falò”, l’ultima sua opera pubblicata in vita.

Il 24 novembre 1949 venne pubblicato il trittico “La bella estate” che comprendeva i già citati tre romanzi brevi composti in periodi diversi: l’eponimo del 1940, “Il diavolo sulle colline” del 1948 e “Tra donne sole” del 1949. Sempre nel 1949, scritto nel giro di pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950, scrisse “La luna e i falò” che sarà l’opera di narrativa conclusiva della sua carriera letteraria.

Ancora il suo diario è incredibilmente efficace per farci rendere conto di come opere e vita siano intrecciate. Qui si riferisce a un breve soggiorno a Roma: “Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del ’45-’46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. Quell’inverno stupendo; sotto il sereno frizzante, le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire.”

In quello stesso periodo conobbe l’attrice statunitense Constance Dowling: bella e dannata, come si conviene a tutte le attrici americane che si rispettino. Tra illusioni e periodi di esaltazione, sempre ossessionato dal rincorrerla, follemente innamorato, arriva quella tragica notte dell’agosto 1950.
Cesare Pavese si lancia da un albergo di Torino, quando aveva appena concluso “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: poesia evidentemente dedicata a quell’amore maledetto e irraggiungibile che aveva tentato di rincorrere per tutta la vita, uscendone amaramente sconfitto.

 

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