Genio, idiotismo e paura della complessità

La genialità, dice Otto Weininger, è prerogativa, almeno una volta nella vita, di chiunque. Ogni individuo si situa variabilmente in una scala che va dalla minima alla massima genialità. Ma colui che tende costantemente verso il vertice positivo di questa polarità, vive, per essere tale, nell’unità della contraddizione. Il genio ha una coscienza (non conoscenza) universale, egli si muove tra gli opposti, “sta in rapporto più intimo col maggior numero di cose”. Questa coscienza è più estesa della norma sicché non è solo coscienza di sé ma anche dell’altro e “un individuo si può dire tanto più geniale quanti essere riunirà in sé”. E’ la coscienza che riduce ad uno gli opposti e che vive nel contrasto perché nell’uniformità, nella nostra normalità, non può esistere discernimento né consapevolezza, così come non ci si accorge di un rumore, anche pressante, fin quando non cessa, o non si rende irregolare. E’ per questo che il genio è spesso discontinuo, bipolare, contraddittorio.Questa analisi testimonierebbe, secondo Weininger, la genialità di un Novalis o di romanzieri come Dostoevskij e Tolstoj, in grado di evocare paragoni e immagini tanto forti da cogliere l’esperienza quotidiana collettiva, tanto da farci comprendere cose di noi di cui non eravamo a conoscenza, nonché di dare ad ognuno dei loro personaggi, anche quelli “minori”, una spina dorsale tanto realista da contenere in sé un universo, una propria, particolare, Weltanschauung.

E il genio, proprio per questo, sottolinea ancora Weininger, vive dell’universalità, non è specializzato, non è matematico, fisico, sinfonico o poetico, ma la matematica, la fisica, la musica la poesia, sono solo mezzi di espressione che il genio utilizza secondo il talento che gli è proprio, per dare una coscienza totale al proprio tempo.Ora, nell’era del trionfo di quel fenomeno che Lukàcs chiamava “idiotismo specialistico”, in cui lo studio e la contemplazione del tutto si sono frammentati in specializzazioni microscopiche del reale, che hanno perso, perciò stesso, il contatto con questo reale, come può nascere il genio? Se il ceto politico-intellettuale, o quella classe di aspiranti tali ha perso la visione d’insieme, la passione per la totalità e per la complessità, e ha liquidato la tristezza, la malinconia, la profonda sensibilità (da non confondere con emotività) – prerogative tutte di un carattere geniale – a malattie mentali, sostituendovi un sorriso imbecille, un gergo elementare, che non com-prende la gente ma che vuole solo essere compreso, una mentalità semplificata e ridotta, su che sangue marcerà il nuovo genio? Chi scriverà il nostro romanzo di formazione, l’equivalente di Guerra e Pace o Memorie dal Sottosuolo, Siddharta o Il giovane Holden? Chi darà una coscienza al nostro tempo come hanno saputo farlo, a loro volta, Beethoven, Nietzsche e Musil o gli stessi Marx, Sorel, Proudhon? Nessuno, se la coscienza che si scontra con il freudiano, ma ora più potente e totalizzante – perché maggiorato e uniformato dall’apparato mediatico? – “principio di realtà” viene da questo istupidita nella costrizione di una visione limitata dell’esistente. Diventeremo “ignoti a noi stessi, noi stessi a noi stessi, noi uomini della conoscenza” (Nietzsche, Genealogia della morale) con una coscienza specializzata, più divisa e meno con-divisa, semplificata perché meno universale.

A questo abbandono dell’interezza e alla volgarizzazione di qualsiasi discorso è seguito l’odio per la complessità, per ciò che è strutturato, riflettuto, sicché persino la stessa filosofia, come disciplina astrattamente onnicomprensiva del tutto, è stata sostituita, senza troppi biasimi, dal logos pubblicitario, e invece di citare Dostoevskij, finiremo per citare le voci narranti degli spot della Toyota o della Mercedes. Circoscritti negli angusti spazi della nostra qualifica – o della nostra ignoranza – avremo il terrore per ciò che è complesso, che richiede uno sforzo cognitivo, di una coscienza più profonda e generale delle cose, e ci accontenteremo – come già ci accontentiamo – delle espressioni compiaciute dei nostri politici, delle frasi ad effetto di Renzi, di Salvini, di Martina, e delle supercazzole di Del Rio attento a non usare altri sostantivi che non siano “crescita” o “sviluppo”. Ci soddisferanno le loro dichiarazioni, così come non ci sconvolgerà l’indifferenza della nostra classe dirigente nei confronti della complessità, tanto da rimpiazzare il pensare – la riflessione che cerca una prospettiva totale delle cose – con il “fare immediato”, il “fare per il fare” che diventa, irrevocabilmente, “tanto per fare”.

Lorenzo Vitelli

Perché mente e coscienza non sono un epifenomeno come sosteneva Huxley, ma rispettivamente un tribunale recondito e flusso degli stati vissuti da un Io

È quasi impossibile trovare oggi in un articolo di biologia termini come mente o coscienza, al cui posto leggeremo: neuroni, proteine, sinapsi e così via…, donde d’improvviso – con un salto dalla prosa scientifica alla poesia immaginifica – la mente è spiegata come “ciliegina sulla torta” (E. Boncinelli) o “fischio della locomotiva” (A.G. Cairn-Smith). Il termine ufficiale usato dal conformismo riduzionista è “epifenomeno” (un’invenzione del “mastino di Darwin”, T.H. Huxley), che significa “fenomeno derivante da un altro”: siccome però nel mondo tutti i fenomeni derivano da altri (proprio nello studio delle loro concatenazioni causali consistono le scienze) e “poiché là dove mancano i concetti, s’offre, al momento giusto, una parola” (J.W. von Goethe, “Faust”), il termine serve solo, secondo il diavolo, a celare la mancanza d’ogni concetto a riguardo di cosa sia la mente.

La paroletta di Huxley non è tanto un’ovvietà, ma uno sproposito, perché la mente non è un fenomeno. Fenomeno (dal greco “fàinomai” = mostrarsi) è tutto ciò che ci appare davanti, manifestamente: l’alternarsi del giorno e della notte, le fasi della luna, l’evaporare dell’acqua all’aria e l’abbronzarsi della pelle al sole, lo sbocciare dei fiori a primavera e la caduta delle foglie in autunno, ecc. È un fatto però, che di nessuno la mente ci appare. La mente piuttosto è il tribunale recondito davanti a cui tutti i fenomeni compaiono: i fenomeni sono gli oggetti delle apparizioni, la mente è il soggetto invisibile che li vede e giudica. Tanto è potente e allo stesso tempo misteriosa la caratteristica dell’uomo da far dire ad Euripide: “La mente in ciascuno di noi è un dio”.

La coscienza pure non è un fenomeno, ma consiste nel flusso degli stati vissuti da un Io. Neanche nell’intimità dell’amore appare all’amante la coscienza dell’amata– che cosa le frulli per la testa, le passi nel cuore o ella provi nei sensi –, e l’uno si deve accontentare (dei fenomeni esteriori) delle parole e dei gesti dell’altro. Nello stato detto “autocoscienza” la coscienza appare a sé, non come oggetto esterno, ma ancora come un particolare stato vissuto dall’Io. C’è dell’altro che questi super-semplificatori mostrano d’ignorare. Per loro, le neuroscienze spiegano la mente come un fenomeno della struttura biologica e dell’organizzazione fisiologica del sistema nervoso centrale; i livelli biologici e fisiologici si spiegheranno, “molto presto” annunciano da cent’anni, con reazioni chimiche; e queste, si sa, si spiegano già in fisica con le interazioni delle cortecce elettroniche degli atomi.

La fisica però non si ferma agli atomi e ai quark, ma tira in ballo anche i campi quantistici e l’osservatore. Ogni sistema atomico, infatti, vi è descritto con una distribuzione (questo è un campo) di tutti i valori delle grandezze fisiche e solo l’esecuzione di una prova ne determina i valori attuali – l’autostato, che è relato alla coscienza (collettivamente elaborata) del team controllante l’apparato sperimentale –. Un evento fisico è inseparabile dal campo quantistico in cui è immerso e dall’interferenza dell’osservatore intelligente che, approntandone la preparazione ed osservandone l’evoluzione, lo fa iniziare in un autostato e precipitare infine in un altro. “Non è possibile una formulazione coerente della meccanica quantistica che non faccia riferimento alla coscienza” (E. Wigner, Nobel 1963 per la fisica). Così la mente, declassata dal semplicismo riduzionista a fenomeno secondario delle attività cerebrali, è promossa dalla scienza fondamentale a statuto primario di tutti i fenomeni. Il loro tribunale, appunto. Come avanziamo, allora, nello studio della mente se non con un’introspezione di come l’Io di ognuno appare a Sé?

Che cos’è il mio Io? Qual è il mio nocciolo duro, se c’è, al netto del mio corpo? Sfoglio un album di vecchie foto in bianco e nero e mi vedo a 6 anni nella bottega di papà, che ora non c’è più, in uno scatto fatto da Callisto, il postino di paese; a 7 anni, con la mia bellissima mamma, sul cui viso oggi è scolpito il disincanto: posiamo sorridenti lungo un viale alberato per la gioia di Fai, un eccentrico personaggio locale; ecc., ecc. Non conosco parole per descrivere il flusso nostalgico di tenerissimi ricordi che mi avvolge, stringendomi il cuore, arrossandomi il viso ed inumidendomi gli occhi. Riconosco a fatica vaghi lineamenti di me in quelle foto ingiallite e mi chiedo ancora: in che cosa consiste la sostanza dell’Io, che permea ogni fibra del mio corpo? Essa certo non coincide con i 10^27 atomi di turno che lo compongono: al mio corpo sono affezionato anche nei difetti perché è comunque parte di me, ma non posso identificare una parte di me col mio Io intero. So bene che l’Io dipende in tutto dal corpo, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Però, se un organo non vitale mi venisse a mancare, o uno vitale diverso dal cervello mi fosse trapiantato da un donatore, non per ciò ammetterei che non sono più io, anche se non mi riconoscerei identico a prima.

E il cervello? in che rapporto sta con l’Io? Il confronto tra un uomo ed un computer forse mi aiuterà a procedere. Tutto il mio corpo è hardware, compreso il cervello che svolge i due ruoli che nel calcolatore hanno il disco per la conservazione dei dati ed il processore per la loro elaborazione. E cosa corrisponde in me al software, senza cui un computer è più inutile di un ferro vecchio? Il software è una sequenza di operazioni matematiche (infine, un numero), che indica al processore come elaborare i dati salvati nel disco o inseriti dall’esterno. Esso è memorizzato nel disco, o nel cloud che è comunque un server da qualche parte. D’acchito mi verrebbe d’identificare la componente volitiva dell’Io con un software, perché è l’Io che ordina al cervello come elaborare le informazioni conservate nella memoria o che gli stanno provenendo dai sensi. Proseguendo nell’analogia dovrei riconoscere che, come il software d’un pc sta in un disco, così la mia Volontà è basata nell’encefalo. Ma il paragone è miserrimo, perché ogni software è un puro numero: non vive, né sa di essere; non pensa; è stato scritto dall’Io d’un programmatore umano e nelle stesse circostanze ripete le operazioni che gli sono inscritte.

Il mio Io, invece, respira la vita; pensa; pensa di pensare; non è stato programmato (da alcun super-Io) e sa di godere di arbitrio libero, pur se condizionato dal corpo e dall’ambiente. L’Io è vivente, cogitante, autocosciente e dotato di una volontà che avverte l’imperativo morale altro da Sé, mentre nessun software è l’ombra di ciò! La parola che si usa da sempre per denotare l’insieme di quelle facoltà è: anima (dal sanscrito “atman” = soffio vitale). Ecco il nucleo del mio Io dal concepimento: è l’unità indissolubile di un corpo e di un’anima.

Nei primi anni di vita la Volontà della mia anima era scandita esclusivamente dall’istinto alla soddisfazione dei bisogni del corpo, ma col tempo l’interscambio tra il suo mondo interno ed il mondo esterno (il latte materno, l’educazione familiare, il contesto sociale, ecc.) l’ha forgiata in scelte, fatte inizialmente su valori e sensi parziali, che con gli anni sono cresciuti ad una matura, integrale Weltanschauung. Il mio Io è cresciuto sulla spinta di questa Volontà ed oggi gli appartengono la memoria delle cose apprese e delle esperienze fatte ed il bene e il male derivati anche per mia responsabilità alle persone che ho influenzato. Le mie decisioni hanno concorso a costruire l’Universo attuale al posto d’infiniti altri universi potenziali: chi può sapere che cosa di buono il mondo ha perso per i miei errori ed omissioni, e perdonarmi per essi? Ora, durante questa mia auto-analisi, pensiamo che un neuroscienziato abbia osservato con un sistema di sonde tutti i campi e le reazioni chimico-fisiche del mio corpo e dalle loro misure abbia calcolato con un modello matematico i pensieri della mia anima. Ammessa l’omologia della teoria impiegata – ma se ogni traduzione da una lingua all’altra è infedele in significato e stilemi; se la descrizione data dal mio stesso racconto è stata carente, può un numero, qual è la risposta d’un apparato osservativo, rappresentare isomorficamente una catena di pensieri ed emozioni? –, in ogni caso la fisica misurata sul mio corpo non è la stessa cosa dei pensieri vissuti dalla mia anima: ciò che ho vissuto pensando quei pensieri appartiene al mio Io interno ed è altro ontologicamente dalle grandezze fisiche osservate dall’Io (a me esterno) del neurologo.

L’alterità tra stati psichici e grandezze fisiche vale nei due versi e, come vieta il cortocircuito del riduzionismo materialistico, così nega quello inverso del riduzionismo idealistico contemporaneo – della filosofia analitica e del neopositivismo, per intenderci – secondo cui gli oggetti fisici “hanno lo stesso fondamento degli dèi di Omero (W.V. Quine, filosofo ad Harvard), essendo solo i costrutti mentali delle percezioni dimostratisi più utili in ogni epoca, al punto che “noi sappiamo, per dimostrazione, che la Luna non è più là quando non la osserviamo” (N.D. Mermin, fisico alla Cornell). Resta la terza via del buon senso, un realismo che prende atto dell’esistenza sia di oggetti fisici che di stati dell’anima, e della loro alterità irriducibile fatta salva la loro coesistenza nell’essere umano. Io so anche che il mio Soggetto interno è intravisto come oggetto esterno dagli altri Io (quelli delle persone con cui entro in relazione), e viceversa: la coesistenza e l’ambiguità ontologica falsificano il dualismo cartesiano, secondo cui l’alterità implica una radicale separazione (che infine, per il ruolo guida assegnato alla “res cogitans” sulla “res extensa”, si traduce in monismo spiritualistico). Come potrebbe la mia Volontà ordinare al deltoide di sollevare il braccio, se l’anima ed il muscolo appartenessero a mondi disgiunti? Forse inserendo un ponte tra i due, cioè con un terzo mondo, e così via all’infinito?! “Il corpo non è unito in modo accidentale all’anima, perché il più profondo essere dell’anima è lo stesso essere del corpo, e dunque un essere comune ad entrambi” (Tommaso d’Aquino, “Quaestio disputata de anima”). Insomma la realtà di questo mondo è una, una sola, ma è molto diversa da come ce la raccontano i riduzionisti delle due scuole; e la sua trama è molto, molto più complessa di quanto speculino oggi anche i fisici più creativi.

Chi prima delle equazioni di Maxwell (1861) e degli esperimenti di Hertz (1886) avrebbe immaginato la realtà dei campi, quando per i materialisti di allora tutto era solo atomi e moto? Chi prima della sintesi di Einstein (1915), quando spazio e tempo erano universalmente considerati contenitori inerti dei fenomeni (due “forme a priori” della mente, per gli idealisti di allora), avrebbe pensato lo spazio-tempo come una struttura dinamica reale, che ordina alla materia come muoversi ed è da essa ordinata come incurvarsi? Quando ho scritto che l’auto-interazione del campo di Higgs crea il bosone omonimo, un lettore mi ha obiettato: “Ma di che è fatto il campo, se non delle medesime particelle? […] è come se Lei ci dicesse che un oceano interagendo con se stesso determina le molecole di cui è costituito”, testimoniando la persistenza anche in ambienti colti (e religiosi) di un pregiudizio materialistico e meccanicistico, di cui la fisica s’è liberata 150 anni fa. Quando si prenderà atto che l’evidenza dell’esistenza di un oggetto non è data in fisica dalla sua osservabilità (qualcuno ha mai “visto” un quark top?), ma coincide con l’efficacia delle sue proprietà matematiche a predire regolarità di Natura altrimenti giudicate accidentali?

A sciogliere il problema del sinolo dell’Io, di questa unità tanto oggettivamente materiale se vista da fuori quanto soggettivamente mentale se vissuta da dentro, non saranno né la biologia molecolare, né le neuroscienze, e neanche la fisica ultima dell’altisonante “Teoria del Tutto”…, che poi è la geometria delle stringhe e del multiverso, ovvero una cinematica di cordicelle e tamburini vibranti in uno spazio (“bulk”) a 10-11 dimensioni: questo esercizio è condannato fin dall’inizio a fallire il bersaglio, perché carica la complessità dell’essere non sulla struttura matematica degli oggetti (ipoteticamente fondanti il “Tutto” comprensivo della mente), bensì sulla topologia super-dimensionale del bulk che ne ospita i giochi. No, per tentare la scalata alla montagna dell’Io – alla sua parete fenomenica, almeno – ci occorrerà una scoperta altrettanto eversiva di quelle del campo elettromagnetico e della relatività, e più probabilmente un cambio del paradigma epistemologico che superi la “vecchia”, a ciò visibilmente impotente, rivoluzione scientifica.

Giorgio Masiero, fisico.

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