Cos’è una ragazza: tra identità e memoria

Cos’è una ragazza (Guanda editore, 1997; titolo originale Kiss & Tell) è un romanzo-saggio dello scrittore svizzero Alain de Botton (Come Marcel Proust può cambiarvi la vita, L’arte di viaggiare, Una settimana all’aeroporto, tutti tradotti in Italia da Guanda). Narrato in prima persona, il testo affronta tematiche filosofiche di grande rilievo, come i rapporti fra gli individui e il ruolo della memoria nella creazione dell’identità personale, a partire da fatti, eventi e oggetti quotidiani. Il testo mostra una vasta gamma di citazioni sia dalla filosofia sia dalla letteratura, oltre a una investigazione approfondita del mondo delle biografie professionali.

Cos’è una ragazza? Una ragazza e la sua vita

Accusato dalla sua precedente fidanzata di mancare di empatia per qualsiasi cosa «al di fuori del lobo del suo orecchio», e affascinato dalle biografie dei personaggi illustri, il protagonista (che resta anonimo per tutto il libro) di Cos’è una ragazza decide di scriverne una sulla ragazza di cui è innamorato, la londinese Isabel Rogers, conosciuta in modo del tutto casuale a una festa. Abbandonato quasi subito il tentativo di ricostruire la vita della ragazza in maniera cronologica e definitiva (poiché «abbiamo tante vite quante sono le persone con cui conversiamo» e, soprattutto, poiché vuole evitare di “scomparire dietro a una cronologia impersonale della vita di Isabel”), il narratore tenta successivamente di tratteggiare la vita della sua amata tramite i diversi aspetti della sua personalità, senza però chiuderli in compartimenti stagni, bensì tentando di interconnetterli. Cerca dunque di ricostruire i suoi “alberi genealogici” (cap. III) e la sua “biografia culinaria” (cap. IV); cerca di osservare “il mondo attraverso gli occhi di un altro” (cap. VII; poiché «l’epitome dell’empatia» è proprio «la capacità di guardare il mondo attraverso gli occhi di un altro»), di indagarne la “psicologia” (cap. IX) anche attraverso la comprensione delle differenze fra “uomini e donne” (cap. VIII); arriva addirittura a entrare a fondo nel “privato” (cap. VI), chiedendo informazioni più o meno intime sulle precedenti relazioni amorose, con tanto di date riguardanti le prime esperienze sessuali.

Il narratore, pur premettendo che «un biografo si mette in ombra come un timido conduttore televisivo che sistema gli ospiti e li fa parlare al momento giusto, ma raramente si intromette per dare giudizi», si lascia andare eccome a giudizi e opinioni sulla vita della sua fidanzata. È proprio da qui che si comincia a intuire come questo “rozzo” tentativo di empatizzare con una persona tramite un elenco dei suoi pensieri, delle sue attività, dei suoi ricordi sia necessariamente destinato al fallimento. Mentre il romanzo-saggio vaga alla deriva “in cerca di una fine” (cap. X), alla “conclusione” (cap. XI) si arriva improvvisamente quando «Isabel una mattina si svegliò e si stufò di essere compresa». La fine di questa volontà di comprensione segna, probabilmente, anche la fine della relazione amorosa: «E credo che dovremmo smettere di vederci».

Una vita e il suo mistero

Il motivo del fallimento di questa volontà di comprensione globale della vita di una persona è rintracciabile nello sfogo finale di Isabel, vessata da domande troppo personali e volte a stabilire, nunc et semper, chi e cosa in definitiva lei sia:

«C’è molto di me che non capisco e, molto francamente, non voglio capire. Non vedo perché tutto dovrebbe essere così chiaro per te, come se le vite della gente potessero essere riassunte come in quelle stupide biografie. Sono piena di stranezze che non hanno senso per me, né dovrebbero averne per te. […] Voglio essere compassionevole, ma non mi piacciono abbastanza le persone. Voglio essere felice, ma so che la felicità rende stupidi. Voglio usare i trasporti pubblici, ma la macchina è più conveniente».

Cos’è una ragazza si conclude, dopo questo sfogo, con una semplice ma terrificante constatazione del narratore: «Umiliato, tacqui».

Ed è proprio con questo silenzio, questo non poter dire altro, non poter rispondere che il protagonista arriva all’illuminazione: ossia che non è possibile racchiudere le in(de)finite sfaccettature di un’intera vita, di un’intera personalità all’interno di fogli scritti. Dalla nascita alla morte (per non parlare delle considerazioni postume che si possono fare), una persona è destinata a non essere compresa appieno: proprio come accade dell’arte, il mistero di una vita resta qualcosa sempre da svelare, qualcosa che va al di là del mero dato.

E questo silenzio finale, questo tacere del narratore di fronte all’incommensurabilità della vita ricorda una delle sentenze più pregnanti, fondamentali e discusse della filosofia occidentale del Novecento: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», del filosofo della logica e della filosofia del linguaggio Ludwig Wittgenstein.

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