La penosa situazione del Libro in Italia

Madame Bovary si può dire muoia letteralmente di buone letture. Oggi non c’è pericolo, non perché l’eccesso di zelo in amore non continui a mietere vittime, ma perché di buone letture in giro se ne vedono ben poche. Molto si è parlato – anche troppo – di crisi del libro e crisi della lettura. Stracciarsi costante di vesti e capelli: bisogna incentivare alla lettura, si organizzano le giornate del libro, i festival e le fiere e le campagne pubblicitarie e io leggo perché e tu perché non leggi e quanto è bello leggere e come fanno bene i libri… Diciamoci la verità, una volta tanto: si legge poco perché i libri nuovi fanno perlopiù schifo e i libri vecchi quasi nessuno li vuole toccare, poiché la scuola instilla il terrore verso i classici. Altre spiegazioni sono importanti ma secondarie. Tutti se la prendono con chi non legge ma pochi con gli scrittori che scrivono coi piedi e con gli editori che pubblicano immondizia.

Una situazione del genere è ancor più paradossale, a ben guardare, se si considera che il libro non ha mai goduto di buona fama come oggi. Tutti vogliono pubblicare tanto che in molti pagano per farsi stampare, c’è chi si fa scrivere il libro dal ghost-writer e chi si inventa di tutto pur di riempire un tomerello di pagine. 70mila novità editoriali l’anno solo in Italia: settantamila, un numero che fa paura. Togliendo domeniche e festivi, fa più di duecento nuovi libri al giorno. Lì dove i lettori sono pochi (solo il 40% degli italiani legge almeno un libro l’anno) e chi legge frequentemente è solo un pugno di persone, si pubblicano duecento titoli al giorno.

E chi li leggerà mai? Infatti la stragrande maggioranza finisce al macero senza neppure una copia venduta. Ginevra Bompiani ha già lasciato detto che “letteratura oggi è solo narcisismo”, e non altrimenti si spiega come si possano scrivere tali e tanti libri, ben sapendo che non saranno letti. L’intero mondo del libro è una contraddizione così grande da doverla studiare seriamente, per capire che senso ha oggi in Italia quell’oggetto che per secoli è stato l’unico mezzo di trasmissione e conservazione del sapere. Sette punti per constatare lo stato pietoso del libro in Italia.

Il rapporto di una società con il libro andrebbe studiato dagli psicanalisti. Sarebbero gli unici a poterci forse spiegare come il libro si sia potuto trasformare in feticcio, tanto odiato e tanto adorato. Il libro più venduto su Amazon nelle ultime settimane è un volume di Giulia De Lellis (influencer e volto di Uomini e Donne, una che ha dichiarato di non aver mai letto un libro in vita sua) che uscirà a settembre per Mondadori: in cima alle classifiche ancor prima di essere pubblicato.

Tutti scrivono libri, anche chi non legge e in molti casi chi non ha nulla da dire. Pubblicano i cantanti, i giornalisti, i politici, i calciatori, gli attori, e le case editrici fanno a gara per accaparrarseli. Ma se i lettori in Italia sono specie protetta, perché tutti si affannano a scrivere? Si narra che Vittorio Emanuele II disse che “un mezzo sigaro e una croce da cavaliere non si negano a nessuno”; oggi non si negano un selfie e la pubblicazione di un libro. Come il titolo di Cav. e la spilla al bavero conferivano tono e status, oggi il libro assolve alla frustrante funzione sociale. Frustrante sì, perché non c’è da esultare molto nel sapere di aver scritto un libro inutile che presto sparirà dalle librerie, letto da persone che non avevano di meglio da fare e che se ne dimenticheranno subito. Tanto più che, se questi non leggono, ma chi è il pazzo che li fa scrivere?

Non vogliamo giungere fino all’estremismo di Carmelo Bene che, a proposito dell’Ulisse di Joyce, disse:

Mi auguravo nel mio candore, giovanissimo, che dopo questo libro – dico: finalmente nessuno più scriverà; finalmente si ripubblicheranno i classici, come si deve; finalmente la gente in Italia rileggerà i classici. Invece no, c’è stata un’inflazione editoriale.

Però ci sarebbe da darsi una regolata, in un paese dove l’ignoranza della tradizione culturale, dell’origine linguistica e delle radici storiche è così radicale. Roberto Cotroneo recentemente notava come nel film JFK a un certo punto si chieda a un avvocato se abbia letto Shakespeare e questo risponda piccato, quasi indignato. Ovvio che ha letto Shakespeare: è un avvocato americano. Come sarebbe ovvio per un francese aver letto qualcosa di Flaubert, Stendhal o Zola; per un tedesco Goethe, Hӧlderlin o Mann; mentre per un italiano, chissà perché, aver letto Dante, Galileo, Leopardi o Manzoni è casualità più unica che rara. In questo la sedicente industria culturale non aiuta per niente. La scuola poi, se può fare qualcosa per dissuadere dalla lettura, lo fa benissimo.

Altra faccenda è quella strettamente intellettuale: il deperimento dell’interesse culturale e l’atrofizzazione del cervello collettivo che possiamo genericamente imputare a omogeneizzazione sub-culturale, digitalizzazione e disintermediazione. Un mondo in cui il virtuale era raccolto unicamente tra le pagine di carta dava per forza consuetudine con i libri e col linguaggio scritto; oggi che il virtuale alberga tra i tocchi di uno schermo, la parola perde centralità a tutto vantaggio dell’immagine. Mutuando l’opera One and Three Chairs di Kosuth, dalla sedia materiale siamo passati alla sua definizione scritta e oggi alla sua fotografia: nulla più che l’immagine del mondo, la sua raffigurazione mimetica nell’incapacità di definirlo o di ricrearlo con la fantasia.

Nessun piagnisteo sulla tecnologia, però: nulla vieta di usare lo smartphone per cercare informazioni di alta cultura; se lo si usa per giocare a giochini dementi e traccheggiare su Facebook lo smartphone ha poche colpe. Stupido è chi lo stupido fa. Siano invece lodati YouTube e Google che mi hanno permesso di ascoltare interviste e conferenze e di cercare autori, libri e articoli che qualcuno non avrebbe mai conosciuto altrimenti.

Certo però c’è un problema di attenzione nelle ultimissime generazioni, diversi studi ne denunciano la capacità di concentrazione drammaticamente bassa. Ma è pur vero che è oggettivamente difficile oggi leggere certi cari vecchi libri.

Si riporta di alcuni bambini che, avendo tra le mani libri illustrati, fanno per allargare le immagini con le dita. Non sanno che la carta non si zooma, che non viene verso di te ma devi tuffartici dentro, che non la puoi scorrere ma solo assorbire lentamente, che non è interattiva ma statica e monodimensionale. In una parola, è eterna. Quei bambini difficilmente leggeranno libri, perché questi parleranno loro di un mondo che non conoscono, alieno e noioso. Tutte le rivoluzioni comportano vittime: la rivoluzione digitale uccide il libro. Non è colpa di nessuno in particolare, è un intero mondo a cambiare.

È arcinoto che i grandi editori un tempo pubblicavano robette per fare soldi e autori di spessore per prestigio e mecenatismo: Mondadori pubblicava romanzi popolari per foraggiare i Meridiani e Lo Specchio, Livio Garzanti una buona dose di ciofeche ma anche Gadda, Arbasino, Parise.

Uno scafato lettore oggi si trova in grande difficoltà di fronte agli editori: “chi ha tradito, tradirà” dicevano certi fascisti. Come avere fiducia in Rizzoli dopo che ha pubblicato gli imprescindibili libri del Signor Distruggere, del Terrone Fuori Sede e di Ibrahimovic? Come affidarsi a Mondadori se pubblica i libri di Luì e Sofì, che scopro essere degli youtuber, e della già citata De Lellis? Passino i libri popolari, ma qui sembra proprio che si stia raschiando il fondo del barile. Lo facessero per mettere al sicuro il bilancio e poter pubblicare scrittori da novanta lo capirei benissimo. Il problema è che mancano gli scrittori da novanta, e quando ci sono è quasi impossibile accorgersene, visto che appaiono per un attimo soltanto, come il fotogramma di un film, nel flusso editoriale che ci sommerge di volumi e spedisce tutti al macero.

Generalizzare è un male, ci sono editori che non sbagliano un colpo come Adelphi, il Saggiatore, Laterza, Raffaello Cortina e altri. La grande editoria però, quella che riempie i banchi all’ingresso delle librerie, è in quelle condizioni lì. Per qualcuno è normale che sia così, dal momento che la letteratura evidentemente non interessa più nessuno.

Solamente non è vero: basta pensare a quanto hanno inciso l’immaginario collettivo scrittori contemporanei come Roth, Houellebecq o Camilleri, o ai milioni di ragazzini stregati da Harry Potter. La letteratura sortisce sempre un effetto conturbante: bisogna avere però qualcosa da dire e bisogna dirlo bene.

La critica non sappiamo più cosa sia e non ci aiuta per niente, anche perché scrittori di dubbia qualità recensiscono amici che hanno pubblicato con l’editor amico in comune per l’editore che stampa i libri di entrambi. Più che esercizio di critica è uno scambio di favori dominato dal do ut des preventivo: ti elogio, così ti sentirai obbligato a elogiarmi anche tu.

Le riviste culturali sono stramorte, le terze pagine dei quotidiani sono la gazzetta ufficiale dell’editoria, programmi in tv e radio sono rarissimi e di siti in grado di reggere il compito ce n’è pochi. In buona sostanza oggi si fa letteratura senza critica, cioè senza qualcuno che concepisce e interpreta i canoni attuali e spiega ai lettori su quali vie si inerpica la letteratura e cosa hanno da dire i nuovi artisti. E non può essere altrimenti, essendo tutti amici e amici degli amici: come si può fare critica onesta a queste condizioni?

Basta osservare il Rotary Club delle lettere, quel circolo magico fatto di Feltrinelli, Einaudi, Repubblica e Rai Tre. Ecco allora Alberto Asor Rosa (Einaudi) che recensisce sulla Repubblica il libercolo di poesie dell’amico Scalfari (Einaudi) e Corrado Augias (Einaudi e Repubblica) che invita a Quante storie su Rai Tre quasi solo collaboratori del suo stesso giornale. Elogi sperticati nel massimo cortocircuito di un mondo chiuso e impermeabile. Nel paese in cui le lettere sono un Fort Apache da difendere coi cannoni, guai a dire che il re è nudo. Attendiamo il ragionier Fantozzi che possa urlare “questa editoria è una cagata pazzesca”.

Alla fine nessuno controlla. Tanto, come ancora notava il buon Cotroneo, le case editrici devono pubblicare così tanti libri che non hanno neppure il tempo di leggerli tutti, si affidano alla fama degli autori e alla bontà di eventuali recensori, che non hanno nemmeno loro il tempo di leggerli e seppure dovessero stroncarli nessuno li ascolterebbe. Quando non riciclano autori rodati, gli editori cercano senza sosta esordienti da confezionare con abile marketing per garantirsi un pacchetto di copie da piazzare. In libreria è tutto un “caso editoriale” e una “rivelazione dell’anno” e un “esordio folgorante”, quando in realtà si tratta di fetecchie ineguagliabili.

Il risultato è presto detto. Un lettore entra in libreria, è sopraffatto dai nuovi titoli, da nomi mai visti prima e non ha mappa e bussola per orientarsi. Alla fine si perde tra i tomi presentati come le chincaglie di Tiger, trattati alla stregua delle magliette di H&M, e, spaesato, se ne va.

Le nuove uscite sono per la maggiore maschiofobiche. Come fossimo nel ‘700 – i trattati all’uomo e i romanzi alle donne – gli scaffali delle librerie traboccano di libri con donne protagoniste scritti da donne per un pubblico di donne. Quelle montagne di libri dai colori pastello, in copertina la foto di una donna in un paesaggio desolato, con titoli che paiono presi a caso dai Baci Perugina… Per entrare in certe librerie un uomo deve lasciare il testosterone all’ingresso, insieme al cane e all’ombrello. Le rare novità meno femminee spesso consistono nel mistero in monastero o nel noir, che ormai allappa più di un salame.

 

Alessio Trabucco

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