‘Born under a bad sign’ di Albert King: la fenomenale giostra di chitarre elettriche tra Manchester e Londra

La storia dell’album Born under a bad sign di Albert King, comincia con Eric Clapton che fa qualcosa di pazzesco. Pubblica tre dischi in quasi due anni esatti con tre gruppi diversi: 1). Five Live Yardbirds con gli Yardbirds, 1964; 2). Beano con John Mayall e i Bluesbreakers, 1966; 3). Fresh Cream coi Cream, appunto, nel 66 anche questo – per arrivare al 70 manca ancora qualcosa, ma poi ci saranno i Blind Faith e i Derek And The Dominos (formati durante le registrazioni di All things must pass di George Harrison). Ma il punto è che ciascuno di questi dischi, compreso quello dei Blind Faith e il primo di Derek And The Dominos, è un disco leggendario di un gruppo leggendario; e da qui in avanti la carriera di Eric Clapton camminerà da sola e per inerzia verso il paradiso – ma relativamente a questo nostro racconto a noi interessano il lavoro degli Yardbirds e quello di John Mayall (Eric Clapton is God).

Qui la faccenda s’ingrossa, allora. Perchè gli Yardbirds, infatti, Londra, sono conosciuti non solo come il gruppo che ha dato i natali alla chitarra di Eric Clapton, lo abbiamo già detto; di Jeff Beck, che formerà un suo gruppo con due favole eterne a 33rpm con Ron Wood, poi terzo chitarrista dei Rolling Stones, e Rod Stewart; e di Jimmy Page, poi coi Led Zeppelin. Laddove John Mayall, a sua volta, Manchester, è invece conosciuto per aver consacrato, sì, la sei corde di Clapton dopo gli Yardbirds, lo abbiamo già visto; quindi quella di Peter Green, poi Fleetwood Mac; e quella di Mick Taylor, che sarà con cinque dischi, se non sbaglio, protagonista di quello che con ogni probabilità è il periodo più interessante dei Rolling Stones dopo la scomparsa del loro primo chitarrista, Brian Jones, nel 1969 – e con Eric Clapton, Jimmy Page, Jeff Beck e Peter Green, sottacendo i Rolling, si consumano le dita dei nomi dei più importanti chitarristi della storia della musica contemporanea.

Riassumendo quindi in pochissime parole, a spanne si può dire che gli Yardbirds, da Londra, diventano i Led Zeppelin e i Bluesbreakers, da Manchester, i Fleetwood Mac.

A riguardo infine dei Fleetwood Mac e del loro chitarrista fondatore, Peter Green, possiamo dire che condivide molti aspetti della propra parabola artistica con Syd Barrett. Come Syd Barrett infatti forma un gruppo. Come Syd Barrett del gruppo fondato è la principale forza creativa. E proprio come Syd Barrett, chitarrista anche lui, viene allontanato dal gruppo per problemi di droga che gli hanno confuso e incasinato, diciamola con Pulp Fiction, il modo di parlare (voleva cambiare vita dopo essersi strafatto di acidi). E per cui la configurazione finale dice di due figure affatto da ripensare seriamente e da rivalutare alla grande.

A questo punto, uno dei principali artefici del revival di Peter Green e Syd Barrett è David Gilmour.
Gilmour infatti lo scorso febbraio, il 25 mi sembra proprio di aver letto, ha partecipato a una serata in onore di Peter Green tenutasi al Palladium di Londra. Per l’occasione Gilmour suona tre pezzi dei Fleetwood Mac, compreso Albatross, singolo del 68.

E qui, adesso, sul finire di questo nostro racconto, si va sul campo delle opinioni, del se, ma e forse; ma è probabile che così facendo Gilmour abbia voluto ancora una volta ricordare Syd Barrett – o comunque sull’accostamento casca subito l’occhio – e questa volta nei termini di una delle più grandi chitarre sperimentali del Regno Unito o sicuramente in grado di tenere testa a Peter Green – almeno stando al primo disco dei Pink Floyd. E in ogni caso questo fenomenale passage della musica inglese tra Manchester e Londra ci ha portati a parlare ancora una volta di Syd Barrett. E a questo punto non è ancora chiara una cosa. Non si capisce cioè per quale caspita di accidenti del pensiero, forse un rovescio neuronale temporalesco, qui si finisce sempre col parlare di Syd Barrett – e se è possibile un giudizio personale, proprio stando al primo disco dei Floyd e ai suoi due solisti, è probabile che Syd Barrett sia una delle migliori chitarre sperimentali di sempre….esattamente come Peter Green, ex Bluesbreakers, Manchester.

Comunque non ce n’è, la versione di Born Under A Bad Sign, canzone di

, la versione dei Cream, quindi, è la migliore. Una l’ha registrata anche Peter Green. Non era stato ancora detto; i Pink Floyd poi possono sicuramente distrarre e confondere, è ovvio, ci mancherebbe, cavoli, la musica psichedelica è una vera figata; si fa quindi preferire il primo dei velvet underground, ma poi the dark side of the moon è quanto di meglio abbia offerto il music business fino ad ora; ma i Cream sono imbattibili se non sono i migliori. E poi sono la miglior band di hard blues bianco elettrico. Loro sono i padri naturali dell’Hard Rock – a cui ha contribuito anche Peter Green.

 

Peter Green
29/10/46 – 25/7/20
Ad perpetuam rei memoriam

 

“Slowhand”: la nona vita di Eric Clapton

Dopo una disordinata ma straordinaria carriera spezzettata in brevi ma fondamentali esperienze, Yardbirds, Bluesbrakers, Cream, Blind Faith, Derek And The Dominoes, Delaney & Bonnie e collaborazioni di lusso (The Beatles, Plastic Ono Band, George Harrison), Eric Clapton, forse uno dei più significativi chitarristi del rock, decide di prendere in mano il suo avvenire. Dotato di un talento ed una passione per il blues fuori dal comune, ma anche di un carattere difficile che lo porta ad una continua ma vana ricerca di un assetto stabile, Manolenta nel 1970 pubblica l’omonimo album solista che pur contenendo ottimi spunti non stupisce ed entusiasma più di tanto. Dopo altri tre album (461 Ocean Boulevard, There’s One in Every Crowd, No Reason to Cry) in un crescendo quasi rossiniano, arriva la consacrazione nel 1977 con la pubblicazione di Slowhand. Abilmente sospeso tra brani originali e cover di grande prestigio, quest’album presenta un miscela esplosiva di blues, rock e pop che ottiene il consenso del pubblico e nel contempo dimostra la sua grande maestria a confrontarsi con generi diversi.

“L’unica pianificazione che faccio è circa un minuto prima di suonare. Cerco disperatamente di pensare a qualcosa che potrebbe essere efficace, ma non mi siedo mai a lavorare nota per nota”.

Da sottolineare il grande istinto di Clapton a scegliere brani adatti alle sue corde che lui, grazie ad un talento musicale mostruoso, lancia nelle classifiche e nell’immaginario collettivo. Ne è un esempio lampante Cocaine, in apertura di album, che composta ed incisa in origine da J.J.Cale, nelle sue mani diventa più famosa dell’originale, come accaduto anni addietro per I Shoot The Sheriff di Marley.

Eric Clapton e Pattie Boyd

La buona vena compositiva si conferma nel gioiello pop Wonderful Tonight, sognante ballatona dedicata alla moglie Pattie Boyd, il cui riff è tutt’ora un esercizio fondamentale per ogni aspirante chitarrista e nello pseudo-country di Lay Down Sally, perfetta canzone da viaggio, dominata da un poderoso arpeggio “in staccato”. Il reaggae (di moda in quel periodo) ed il blues si fondono come per miracolo in Next Time You See Her, che pur avendo un tono calmo e rilassato, nel testo risulta carica di minacce per un avversario in amore. Il riverbero e le voci soffiate caratterizzano We’re All The Way, dolente canzone d’amore cantata in duetto con Yvonne Hellman, come pure l’energica The Core, disegnata da un potente distorsore e dall’alternanza tra timbro maschile e femminile. Il country rock alla Eagles, di stampo tipicamente californiano, emerge in May You Never  a cui mancano solo i cori di Don Felder e Glenn Frey per essere un singolo spacca classifiche. Per una i lancinanti assolo di Manolenta sono lasciati da parte per far posto alla morbidezza della chitarra acustica e alla dolcezza dell’organo. Le cose cambiano quando si passa al puro blues di Mean Old Frisco storico pezzo di Arthur Crudup in cui a farla da padrone è, ovviamente, la slide guitar. La strumentale Peaches And Diesel chiude l’album con garbo ed ironia dal momento che in esso è contenuta un autocitazione di Wonderful Tonight. Grazie a questa scaletta “mista” ed esaltante, Slowhand si arrampica in cima alle classifiche e riceve ottime recensioni da parte dei critici di mezzo mondo. E’ un album di gran classe, perfettamente arrangiato ed inciso, il cui unico difetto, se proprio se ne vuole trovare uno, è l’eccessiva “commercialità”. E’ talmente perfetto da sembrare studiato apposta per vendere copie e far soldi. In ogni caso Clapton dimostra di aver trovato un suo equilibrio e di essere un musicista a tutto tondo, non solo un bluesman. Il suono della sua Strato è meraviglioso, in grado di passare con la stessa efficacia dal “pulito” più languido al “distorto” più rude. Anche la voce si adatta meravigliosamente alla qualità dei brani passando dai toni morbidi dell’amore ai graffianti registri del blues. Lo specchio dell’anima di Eric Clapton, del carattere erratico e apolide di Manolenta. Forse il suo miglior album, senza dubbio un album che bisogna avere ed amare per capire le mille sfaccettature di un artista unico.

The Complete Studio Recordings: i 29 comandamenti di Robert Johnson

The Complete Recordings- Columbia-1990

Non si può comprendere ed amare il rock senza un tuffo nel passato, splendido ed inquietante, che faccia comprendere quale sia la vera natura della musica che ha profondamente scosso l’ultimo mezzo secolo. Come tutti i viaggi a ritroso può spesso apparire confuso, nebuloso, leggendario, ricco di omissioni ed eccessi di fantasia ma senza dubbio imprescindibile e con una buona dose di verità alle spalle. Per capire dove tutto comincia bisogna tornare alla fine degli anni ’30 e precisamente nei sei mesi che vanno dal novembre 1936 al giugno 1937, in Texas quando un oscuro chitarrista di nome Robert Johnson per la prima volta in vita sua decide di cantare davanti ad un microfono cambiando per sempre e definitivamente il corso degli eventi.  Ventinove brani immortalati su cera, unica testimonianza di una vita artistica passata tra bettole e angoli di strada, che restituiscono una voce in grado di riflettere i tormenti dell’anima ed una tecnica chitarristica scaturita direttamente dalle viscere dell’inferno. Gocce di splendore che narrano l’incredibile vicenda umana e professionale di un uomo la cui vita ha assunto sempre risvolti mitici in bilico tra sogno e realtà, dannazione e redenzione. Perfino quando era ancora in vita Robert Johnson da Hezelhurst, Mississippi, era circondato da un alone di mistero. La vita dissoluta, l’alcolismo, la povertà, il talento mostruoso, la capacità di ipnotizzare con la musica le platee ne hanno accresciuto la fama di artista maledetto. Le scarse notizie biografiche, unitamente ad una morte prematura e “misteriosa” lo hanno elevato al ruolo di leggenda.

   «Per me Robert Johnson è il più importante musicista blues mai vissuto. […] Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana». (Eric Clapton)

Il Patto Col Diavolo

E’ arcinoto l’episodio del “patto col Diavolo” attraverso il quale, secondo i racconti, avrebbe ottenuto in cambio dell’anima l’incredibile tecnica chitarristica e la capacità di cantare come un angelo ferito. Sono noti altresì il carattere ribelle ed irascibile del musicista come pure la sua forte passione per le donne e per l’alcol che gli hanno procurato non pochi guai nel corso degli anni. E’ ovvio che c’è una spiegazione molto meno romantica per questa sua perizia strumentale (pare fosse stato un certo Ike Zinnemann ad insegnargli tutti i segreti della sei corde) come pure c’è una motivazione meno fantasiosa in merito alla sua misteriosa dipartita (pare sia stato un barista geloso ad avvelenarlo) ma senza dubbio è molto più affascinante pensare ad uno squattrinato musicista che, a notte fonda, incontra ad un quadrivio Satana in persona il quale gli concede, al prezzo dell’eterna dannazione, fama e gloria imperiture. Anche lo stesso Johnson la pensava così, tanto che nelle sue canzoni, non ha fatto altro che confermare ed alimentare questa diceria, autoproclamandosi, di fatto, “chitarrista del Diavolo”.

Le liriche ed i titoli dei suoi pezzi parlano chiaro: Me And The Devil Blues, Hellhound On My Trail, Crossroad Blues, If I Had Possession Over Judgement Day, contengono evidenti riferimenti al demonio, alla possessione, all’apocalisse con chiari indizi e rimandi al famoso patto. Ma in Johnson non c’è solo questo: c’è l’amore tormentato (Love In Vain Blues, Little Queen Of Spades, Kind Hearted Woman Blues), la durezza di una vita errabonda (Ramblin’ On My Mind, Sweet Home Chicago, I’m A Steady Rollin’ Man), espliciti riferimenti sessuali (Come On In My Kitchen, Dead Shrimp Blues, I Believe I’ll Dust My Broom), sentiti omaggi ai maestri (Malted Milk, 32-20 Blues, Walkin Blues) e standard di grande successo (From Four Til Late, Traveling Riverside Blues, Stop Breaking Down Blues, Stones In My Passway). Una poliedricità tematica mai vista fino ad allora che rende questo pugno di canzoni il “manuale del Blues”, in cui vengono toccate un po’ tutte le tematiche principali tipiche della musica dell’anima. Su tutto chiaramente giganteggia la chitarra suonata con uno stile insuperato ed insuperabile.

La tecnica d’incisione di Robert Johnson

Le dita di Johnson volano sulla tastiera segnando il ritmo e, nel contempo, la melodia del brano andando quindi ad incastrarsi col lamento lancinante della voce. I riff sono resi o con l’ausilio del bottleneck che contribuisce a rendere il suono ancora più fluido e dolente accentuando così il pathos dell’esecuzione o con il fingerpicking per aumentarne efficacia e precisione. Esecuzioni incredibili sulle quali si sono scervellati teorici e critici musicali pur di fornire una spiegazione plausibile a tanto splendore. Si è detto che i brani sono stati accelerati in post produzione, che i chitarristi erano due e del secondo non è stato tramandato il nome, insomma una vero e proprio brainstorming che però non è servito a chiarire completamente il segreto di tale sovrumana abilità. Una cosa è sicura, miriadi di musicisti si sono spaccati le dita cercando di riprodurre almeno un decimo del suono qui intrappolato. Gente come Eric Clapton, Keith Richards, Cream, Led Zeppelin, White Stripes, Blues, Blues Brothers, hanno inserito nel loro repertorio uno o più di questi brani rivisitandoli e riarrangiandoli sia per adattarli ai mutati gusti del pubblico sia per l’impossibilità di restituirne la forza e la bellezza originaria. Tutto ciò ha contribuito a rendere questi 29 pezzi immortali e decisamente popolari anche a distanza di tantissimi anni ma prova anche un’altra cosa: nessuno suona o ha mai suonato come Robert Johnson da Hezelhurst, Mississipi, il “chitarrista del Diavolo”, il Re del Delta Blues.

“Blues Brakers with Eric Clapton”: la via Inglese al blues

Blues Brakers with Eric Clapton-Decca-1966

La convinzione che il blues fosse roba per pochi eletti uomini di colore era ancora molto forte nei primi anni ’60. Mostri sacri come B.B.King, Little Walter, Robert Johnson, Howlin Wolf, Sonny Boy Williamson, erano visti con ammirazione e devozione da schiere di giovani musicisti che tentavano i primi timidi approcci agli strumenti. La maestria tecnica, la vocalità implorante e grezza, i riff micidiali e perfino i tormenti interiori erano visti come qualità intrinseche, inimitabili, perfino difficilmente comprensibili da un pubblico bianco. Essere uomini di blues era una faccenda terribilmente seria. Le cose cambiano verso la metà degli anni ’60, quando John Mayall, talentuoso polistrumentista britannico, solo sulla carta nato a Macclesfield, intuisce che può esserci un approccio diverso alla musica dell’anima.

Introducendo, infatti, una macchina ritmica poderosa e mescolando la purezza del Delta col beat anglosassone è possibile ottenere un suono nuovo, fresco, coinvolgente senza scempiare o scimmiottare le leggende  che tanto ammiravano. Nasce così il British Blues. Per far ciò sono tuttavia necessari musicisti forti, ma veramente forti, non tanto dal punto di vista strettamente tecnico quanto per la capacità di tirar fuori dal proprio strumento una timbrica unica, un sound inimitabile, un colore inconfondibile. Per fortuna il talento è sparso a piene mani nell’Inghilterra dell’epoca e Mayall si dimostra, negli anni, uno straordinario talent scout. Arruola Hugie Flint alla batteria e John McVie, che vanno a costituire la spina dorsale dei Blues Brakers e, per quanto riguarda la chitarra, si rivolge al giovane più promettente in circolazione: Eric Clapton. Il futuro Manolenta, in quegli anni, è alla costante ricerca di se stesso; tanto fenomenale alla sei corde quanto caratterialmente scostante e imprevedibile. Dimissionario dagli Yardbirds per inconciliabili divergenze artistiche, incontra Mayall nell’aprile del ’65 che lo convince ad aderire al nuovo progetto.

“Voleva solo suonare la sua chitarra” (John Mayall su Eric Clapton)

Nonostante le difficoltà dovute principalmente all’irrequietezza dei vari membri (Clapton abbandona il gruppo per due mesi per andare in tournee con i Glands; McVie dal canto suo se ne va per sei mesi), i Blues Brakers riescono in un solo giorno ad incidere un capolavoro. Negli studi della Decca, in un giorno d’aprile del 1966, si compie il miracolo. Forte del feeling acquisito sul campo in numerose esibizioni live ed interminabili jam session, la band registra tutto in presa diretta, senza sovra incisioni o trucchetti di sorta, riuscendo ad intrappolare sul nastro memorabili versioni di classici del blues e pezzi originali. Le titaniche rivisitazioni di All Your Love di Willie Dixon, di Hideway di Freddie King, di Ramblin’ On My Mind di Robert Johnson, di It Ain’t Right di Little Walter, si accompagnano alle splendide composizioni originali di Mayall quali Little Girl o Key To Love.

Eric Clpaton e la sua Les Paul-1966

Il lavoro di Clapton è semplicemente stratosferico (tanto da ispirare i famosi graffiti con su scritto “Clapton is God”); il suono della sua Les Paul è il più potente mai udito fino ad allora ed i suoi fraseggi sono folgoranti. Flint e McVie irrobustiscono ogni brano concedendosi estemporanee variazioni sul tema (basta ascoltare il torrenziale assolo di batteria sulla strepitosa cover di What’d I Say di Ray Charles). Il resto lo fa Mayall. Canta, compone, suona l’organo, il piano, l’armonica, arrangia magistralmente i brani (prova ne sia la clamorosa versione di Another Man) e dirige il gruppo durante quelle infuocate session. Riesce ad ottenere il massimo dai compagni e da se stesso. Il successo è inevitabile. L’album raggiungerà il sesto posto della classifica inglese e diventerà ben presto un classico. Tuttavia l’equilibrio all’interno della band sottile e fragilissimo.

Clapton stancatosi subito del progetto (basta vedere la foto della copertina in cui appare particolarmente poco collaborativo) se ne andrà di li a poco per formare i Cream con Jack Bruce e Ginger Baker. Flint verrà sostituito da Ashley Dunbar mentre McVie abbandonerà dopo pochi anni per tentare nuove esperienze con i Fleetwood Mac. Mayall rimarrà il perno dei Blues Brakers intorno al quale ruoteranno musicisti leggendari quali Peter Green, Mick Taylor, Blue Mitchell e Red Hollway con i quali inciderà altri capolavori, ad esempio A Hard Road o Crusade, ma questo, senz’altro, rimarrà il lavoro di una vita, l’opus magnum con il quale è entrato di diritto nella storia di ben due generi musicali. Quest’album così precario, semplice ma allo stesso tempo incredibilmente affascinante è riuscito nell’impresa di sdoganare definitivamente il blues nero presso il pubblico bianco rendendolo improvvisamente familiare, vicino, riproducibile e divertente. E non è cosa da poco.

“Layla & “Other Assorted Love Songs”: il disperato blues dei Derek & The Dominos

Layla & Other Assorted Love Songs-Polydor-1970

Nel 1970 Eric Clapton, stanco della fama e dell’aura leggendaria creatasi intorno alla sua figura dopo le trionfali esperienze con Yardbirds, Cream e Blind Faith, decide di formare un gruppo nel quale poter essere solamente un semplice musicista. Sulla falsariga dell’esperienza già fatta precedentemente da altri gruppi, uno su tutti i Beatles che “per guardare il mondo con altri occhi” ed allentare la pressione diedero vita all’immortale alter ego Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, adotta lo pseudonimo di Derek (soprannome nato dalla crasi tra Del, suo vecchio nickname, ed Eric) e con altri tre colleghi, Carl Radle al basso, Bobby Withlock alle tastiere, Jim Gordon alla batteria, forma il gruppo dei Derek & The Dominos. Abbandona il suono grosso e gonfio della Gibson, con cui aveva “sporcato” il blues infarcendolo di psichedelia e si converte alla Fender Stratocaster con cui medita un drastico ritorno alle origini. Il momento creativo, d’altronde, è ottimo anche grazie ad una tormentatissima storia d’amore entrata di diritto negli annali del rock. Sul finire degli anni ’60, “Manolenta” stringe una profonda amicizia con George Harrison, che darà vita ad un’assidua frequentazione ed a collaborazioni di lusso. In quel periodo l’ex baronetto è sposato con la bellissima modella Pattie Boyd. In breve tempo Eric si accorge di essere perdutamente innamorato della moglie del suo migliore amico e ne fa la sua musa ispiratrice.

Tutti sapevano (in merito all’infatuazione di Clapton per Pattie Boyd) che George non ha dato niente, ma Eric questo non lo sapeva” – Bobby Withlock 1970

Layla & Other Assorted Love Songs riflette questo tormento. Gronda di desiderio e passione per Pattie ma nel contempo trasuda rabbia e dolore per la delicatissima situazione che si è creata con George. A dare una forma precisa a questo vortice di sentimenti contrastanti è, ancora una volta, il blues, che con la sua malleabilità permette di distillare emozioni così diverse in gocce di splendore. A dar manforte al chitarrista innamorato si aggiunge, in qualità di guest star, il principe della slide guitar  Duane Allman.

Eric Clapton e Duane Allman nel 1970

Il feeling immediato, la stima reciproca ed il profondo affetto tra i due signori della sei corde si riflette in epici intrecci chitarristici che vanno ad impreziosire quattordici brani di strepitosa bellezza ed incredibile intensità. Le delicate I Looked Away, Bell Bottom Blues, I’m Yours le rabbiose Keep On Growing, Nobody Knows When You’re Down And Out, Anyday, le potenti Tell The Truth, Key To The Highway, Why Does Love Got To Be So Sad, Have You Ever Loved A Woman, la liquida Little Wing (inserita come tributo ad Hendrix morto durante le registrazioni), il riff fulminante di Layla, lo struggimento di It’s Too Late e Thorn Tree In The Garden, contengono tutte un messaggio d’amore che difficilmente può essere equivocato. La voce si fa rauca ed a tratti disperata, le parole colpiscono per la carica di pathos che contengono. Dal punto di vista tecnico l’album è semplicemente strabiliante. Le chitarre si saturano, si distorcono, s’intrecciano quasi a voler seguire lo strazio dell’autore.

La sessione ritmica batte incessantemente il tempo per dare ancora più forza alle parole. L’organo ululante e tastiere martellanti forniscono il necessario accompagnamento alle visioni chitarristiche della premiata ditta Clapton & Allman. Uscito in un periodo ancora dominato dai sentori della controcultura hippie, quest’album all’inizio non viene capito ed apprezzato ma non appena i fumi lisergici della psichedelia si dissolvono, trova finalmente la sua giusta collocazione tra le pietre miliari del rock. E’ tutt’ora uno dei migliori esempi di blues bianco ed elettrico mai incisi. I suoni e le partiture in esso contenuti vengono presi a modello da decine di gruppi più o meno famosi. Nonostante la vita con le sue bellezze e le sue tragedie (Clapton sposerà la Boyd nel 1974, Duane Allman morirà tragicamente nel 1971) abbia edulcorato il clima mitico della sua gestazione ed incisione, le tematiche universali in esso contenute sono in grado di colpire ed accomunare ogni essere umano che non può non immedesimarsi di fronte ad un amore contrastato o alla fine di una bella amicizia.

“Are You Experienced”, la rivoluzione di Jimi Hendrix

Are You Experienced-Reprise Records-1967

Parecchi aggettivi vengono in mente all’ascolto dell’album “Are You Experienced”: incredibile, irripetibile, emozionante, rivoluzionario. L’album di debutto dell’allora venticinquenne Jimi Hendrix, oscuro chitarrista di Seattle, segna una svolta senza precedenti nel mondo del rock. Un approccio chitarristico ed una capacità di “giocare” col suono mai vista prima. Una tecnica strumentale ed un’abilità compositiva sconcertante, il tutto abilmente amalgamato ad una immagine pubblica eccessiva e maledetta (la tossicodipendenza, l’abbigliamento multicolore, la famosa acconciatura “afro”), ne hanno fatto immediatamente un simbolo ed un’icona. Le incendiarie apparizioni pubbliche (come quella al Festival di Woodstock nell’agosto del 1969) in cui maneggia la sua chitarra come fa Zeus con le sue saette, lo hanno proiettato immediatamente nell’immaginario collettivo facendone la prima vera rockstar ed il primo guitar-hero in assoluto. La sua leggendaria Fender Stratocaster bianca è diventata, ormai, un oggetto mitico, alla stregua di Excalibur, capace di incantare milioni di persone con la potenza e la varietà dei suoi suoni. Tuttavia la grandezza di Are You Experienced sta nel riuscire ad intrappolare il genio e la sregolatezza di un artista votato all’improvvisazione ed alla sperimentazione in brani della durata di circa tre minuti, lasciandone comunque intatta l’indiscutibile carica emozionale.

“Ciò che Jimi fece con la chitarra non fu altro che adattare la sensibilità del blues e dell’ R&B all’era psichedelica” (Ritchie Unterberger-2009)

The Jimi Hendrix Experience-1967

Messo a punto un gruppo su misura per lui, The Jimi Hendrix Experience con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria, il genio della sei corde è libero di dare sfogo a tutta la sua creatività senza ostacoli di sorta o restrizioni di tipo discografico. D’altronde Chas Chandler, l’abile produttore, aveva visto giusto. Hendrix era un cavallo selvaggio che andava lasciato a briglia sciolta per poter dare il meglio di sé. Nascono così la torrenziale Foxy Lady, il tormentato blues di Hey Joe, la travolgente Fire, la tenerissima The Wind Cries Mary, l’acidissima Purple Haze e la trascinante Stone Free. L’incredibile abilità nell’uso del feedback, del wah-wah e dell’overdrive unitamente ad una inconsueta capacità di miscelare suoni “puliti” e “sporchi” ha costretto numerosi virtuosi a rivedere le loro convinzioni sulla chitarra. Ovviamente lo sbigottimento è enorme come è enorme il successo di critica e di pubblico. L’album sale fino al secondo posto della classifica britannica preceduto solamente da Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles; negli Stati Uniti arriva al quinto posto della Billboard 200. L’influenza esercitata dal chitarrista mancino sull’universo musicale è inestimabile e continua fino ai nostri giorni, a più di quarant’anni dalla sua scomparsa. The Who, Cream, Led Zeppelin, Van Halen, Stevie Ray Vaughan, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen, Steve Vai, fino agli italianissimi Alex Britti ed Andrea Braido hanno speso un’intera carriera nel cercare di avvicinarsi al sound di Jimi Hendrix. La sua capacità di fondere le più disparate correnti musicali quali il blues, il rhytm and blues, la psichedelia, il funk, le jam strumentali ha portato il rock in territori fino ad allora inesplorati. I testi, largamente visionari, sessuali ed allucinati, hanno aperto definitivamente le porte all’epopea hippie ed alla Summer Of Love. La sua immagine trasgressiva ed iconoclasta (vedi la memorabile esecuzione di Star Spangled Banner, l’inno nazionale Americano, a Woodstock o l’incendio della chitarra a Monterey) ha definitivamente stravolto la concezione di performer. Né prima e né dopo si è mai vista ed udita una cosa del genere. La morte precoce, nel settembre 1970 a 27 anni, non ne ha scalfito minimamente la leggenda. Anche chi all’epoca non era nato ha negli occhi e nelle orecchie l’immagine di Hendrix che esegue con forza brutale uno dei suoi successi. Ogni volta che Are You Experienced è sul piatto e parte l’inconfondibile suono distorto che apre Foxy Lady, il mito rinasce in tutto il suo splendore. Il lascito artistico è altrettanto enorme. Periodicamente escono sul mercato tributi, compilation e remaster zeppi di inediti. Il suo impatto sulla cultura del novecento è testimoniato dalle numerose biografie, leggende metropolitane, film (basta ricordare Maledetto Il Giorno Che Ti Ho Incontrato di Carlo Verdone interamente incentrato sulla morte del chitarrista di Seattle) che contribuiscono di volta in volta ad alimentare l’epopea di questo emblema del ventesimo secolo. Un personaggio in grado di trascendere le barriere della musica, della razza e del tempo trasformandosi in un patrimonio comune dell’ umanità.

Di Gabriele Gambardella.

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