Ricordando Ingmar Bergman a 100 anni dalla sua nascita: ‘Crisi’, dal fiasco alla storia del cinema

Per il centenario della nascita di Ingmar Bergman la Svensk Filmindustri e la Ingmar Bergman Foundation hanno concesso la proiezione del nuovo restauro del Settimo Sigillo e di Ciò non accadrebbe qui, la spy story anticomunista disconosciuta dal regista svedese, al festival de Il Cinema Ritrovato promosso dalla Cineteca di Bologna.
Ingmar Bergman è stato un regista, sceneggiatore e drammaturgo ed è considerato uno dei maestri della cinematografia mondiale. Il suo film più famoso è Il posto delle fragole (1958), pellicola che gli è valsa un ricovero per esaurimento nervoso, ma anche l’Orso d’oro al Festival di Berlino e il premio della critica al Festival di Venezia. L’enorme influenza che l’opera di Bergman ha avuto sui registi europei l’ha reso un punto di riferimento per il cosiddetto cinema d’autore. Del regista svedese, Jean-Luc Godard ha detto: «Ingmar Bergman è il cinema dell’istante», mentre Michael Winterbottom l’ha recentemente nominato nell’intervista che uscirà sul numero cartaceo di Fabrique.

Bergman è stato uno dei migliori registi dal punto di vista visivo e allo stesso tempo uno degli sceneggiatori più raffinati in circolazione. Il rapporto conflittuale con i genitori ha portato il giovane Bergman a rinchiudersi in un mondo fittizio, con il quale sostituiva quello reale. Quando a dodici anni ha ricevuto in regalo il suo primo proiettore cinematografico, quel mondo-rifugio è diventato il cinema, con le sue luci e le sue ombre.
Ingmar Bergman ha iniziato la sua carriera in un teatro studentesco di Stoccolma, scrivendo i testi e dirigendo una compagnia filodrammatica senza ricevere compenso, mantenendosi grazie all’aiuto di una ragazza del corpo di ballo. Ottenuta una certa stabilità economica, nel giro di due anni ha scritto e prodotto ben dodici drammi e un’opera lirica. Nel 1942, uno dei suoi drammi è in scena e dalla platea lo notano il neodirettore della Svensk Filmindustri e la responsabile della sezione manoscritti. Il giorno dopo, il giovane Bergman viene convocato e assunto con uno stipendio di cinquecento corone al mese. Così, appena ventottenne, nel 1946 dirige la sua opera prima su commissione: Crisi (Kris). Come recita la voce fuori campo: «Non la definirei un dramma straziante, piuttosto un dramma quotidiano. Dunque è quasi una commedia». La storia, semplice e lineare, racconta di una diciottenne adottata che ritrova la madre biologica e la segue in città. Sedotta dall’avventura, scopre il lato oscuro delle persone e di sé stessa, ma dopo una cocente delusione torna dalla donna che l’ha cresciuta e sposa l’uomo che l’ha sempre amata.

Bergman è moderno e attuale nel tratteggiare la crisi esistenziale dell’uomo, dopotutto è lui stesso ad affermare che «non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza» e in questo modo dà vita a un nuovo filone filosofico ed esistenzialista. Il carattere autobiografico si rintraccia facilmente nei temi bergmaniani: la solitudine, il conflitto generazionale, il dolore del sentirsi inutili, l’innocenza perduta, la morte e il rapporto con la religione. Per il regista svedese «lo spettacolo della vita è un teatro di marionette», per questo il suo è un cinema fatto di dicotomie, di confronto continuo tra realtà e irrealtà, tra vita e teatro e il sipario non ha bisogno di calare su un palco, può farlo la tenda di una finestra, in una casa un po’ vuota, su una vita qualunque.

Nei chiaroscuri taglienti di Crisi, si inseguono specchi, treni, sigarette e manichini e le luci evanescenti illuminano il lieto fine più triste del mondo. In questa pellicola manca la catarsi, alla fine riparte il circolo diabolico e infelice e si ritorna all’incipit: la ragazza in fuga dall’artificiosità cittadina, con disincanto finisce per accettare di vivere imbrigliata nelle convenzioni sociali. In Crisi l’interrogativo principale, in ultima analisi, è se e quanto è possibile spogliarsi davanti all’altro, Jenny non ci riesce e accetta di recitare nella vita come nel teatro. Sotto luci al neon a intermittenza, la giovane si guarda allo specchio e sa di essere falsa e che il suo inferno sono gli altri.
La pellicola, un po’ come Jenny, è stata sfortunata, anche se è da considerarsi una dignitosa opera prima. La lavorazione di Crisi infatti è stata caratterizzata da numerosi imprevisti: vari incidenti e feriti sul set, il direttore della fotografia che abbandona il progetto e Bergman con le sue scelte costose e improduttive. Inoltre quando il film esce nelle sale, il 25 febbraio 1946, è un fiasco clamoroso. Ingmar Bergman è la dimostrazione che da un fallimento ci si può rialzare e che non tutti i grandi della storia del cinema hanno avuto un esordio da favola, di certo non Bergman, oggi considerato all’unanimità un maestro della settima arte.

 

http://www.fabriqueducinema.com/magazine/opera-prima/crisi-di-ingmar-bergman-dal-fiasco-alla-storia-del-cinema/

‘Post’. La verità diventa tragicommedia. Una storia seria dei laureati italiani

Ogni secolo ha la sua fede, la sua moda… e anche la sua parola. Il nostro secolo ha finalmente assistito all’insediamento della sua, post-verità. Il pontefice celebrante è stato l’Oxford English Dictionary. La chiamano era della post-verità. Il mio Paese ultimamente ha cercato in tutti i modi di insegnare ai laureati umanistici che la loro laurea è inutile, ci prova da almeno dieci anni. Gli dice “Non ci farete nulla”, e per essere sicuro che lo capiscano, il mio Paese ha diffuso la cultura generale che con la laurea umanistica “Anzi! Puoi farci tutto, ti rende elastico, flessibile, adattabile, il vero apice dell’evoluzione darwiniana, l’animale che sopravvivrà alla crisi”.

I laureati umanistici hanno sperimentato di essere in effetti finora sopravvissuti, ma anche la crisi, e più hanno cercato di combatterla con la laurea umanistica, più la crisi è sembrata rafforzarsi e loro indebolirsi. Insomma “puoi farci tutto” in Italia vuol dire “non ci farai nulla”. Mi accorgo che la loro facoltà si occupa della ricerca della verità, ma poi si sente dire che non siamo più nell’era della verità, siamo in quella della post-verità: questo mi permette di inquadrare meglio il motto “con la laurea umanistica puoi farci tutto”, che io pensavo non fosse vero, cioè, nel mio povero pensare umanistico, ritenevo che una cosa non vera fosse falsa, ma sbagliavo, ho studiato troppo, e troppo mi sono illuso, non è falsa… è post-vera. “Puoi farci tutto” significa dire post-veramente che “non ci farai nulla”.

Io pensavo non ci fosse nulla che potesse essere vero quanto la verità, non pensavo ci potesse essere un post vero, ma a dire il vero (d’ora in poi dovremmo cambiare in“a dire il post-vero”) io pensavo che non ci fosse neppure una pre-verità, né una sopra-verità o una sotto-verità, né una lato-verità. Sbagliavo, la verità non è più qualcosa di semplice. Prima la verità era dire “le cose stanno così”, “oppure colà”, ora invece la verità è una giungla, è verde dappertutto, quindi le cose stanno così’, ma anche così, e pure così, e se vi girate scoprirete che sono anche così, giratevi ancora… sono di nuovo anche così, guardate in alto… sì, sono anche così, ma anche se guardate in basso, sono diversamente e contemporaneamente anche così: non importa dove guardate, né cosa guardate, è tutto vero, cioè post-vero.A questo punto, se volete riposarvi, potete anche chiudere gli occhi: ops, vedete buio? Vuol dire che le cose stanno anche così. Quindi le cose stanno così, che con la laurea umanistica puoi fare tutto, ma stanno anche così, che non puoi farci nulla, la prima è la post-verità della seconda.

Dato quanto appena detto, viene da chiedersi: “Ma esiste qualcuno che sbaglia?”. Se tutto è post-veramente vero, cos’è l’errore? Io che credevo al vero e non al post-vero, vi ho appena detto che sbagliavo, ma oggi scopro, per fortuna, che post-sbagliavo, quindi non avevo in realtà torto a credere al vero, è che contemporaneamente dovevo impazzire e accedere al nirvana del post-vero, nell’eterno riposo dell’eguaglianza delle mille post-verità. E io, post-veramente disoccupato, finalmente affrancato dal mito che “se non paghi, il cibo non lo compri”,  mi reco post-veramente al supermercato, e cerco di pagare alla cassa con… Sorpreso più che mai dal fatto che la cassiera conta ancora in euro, e non in post-verità (questa primitiva), chiamo la polizia, e indignato affermo di avere ragione (post-ragione), sulla base del fatto che la mia mente ha effettuato già l’accesso, riservato a pochi, nel mondo della post-verità, e pretendo pertanto il privilegio di pagare senza l’uso troglodita della cartamoneta. Purtroppo ho beccato poliziotti ancora succubi dell’ombra della verità, e in preda alla follia, dicevano che chi non paga non può comprare e deve andarsene.

Io me ne vado, ma non si accorgono che il cibo, perlomeno qualcosa, l’ho messo in tasca; ebbene sì, in un frammento di mondo che cerca ancora di essere vero, ho dovuto rubare… ma in fondo non è rubare, oggi posso dire che ho post-rubato e poi post-mangiato… anzi no, in realtà questa cosa l’ho fatta come la facevo prima: ho proprio mangiato, e solo dopo aver mangiato non ho avuto più fame… finalmente avevo raggiunto il nuovo approdo della sazietà (pardon… della post fame).

Introduzione alla poesia del Novecento

Non è semplice rispondere alla domanda: “Quando comincia la poesia, specialmente quella italiana, del Novecento?” I critici infatti hanno trovato difficoltà nello stabilire una linea di demarcazione universale. Senza dubbio questo secolo è celebre per la sua indecifrabilità e frammentarietà e si può cercare di comprenderne le caratteristiche poetiche solo dividendolo in vari spezzoni. Per quanto riguarda la poesia italiana  primi segnali di cambiamento, che aprono strada al Novecento, si intravedono ne “I Canti” di Leopardi, con le sue rime sparse, che trasgrediscono il classicismo; secondo alcuni poi è Pascoli, con la raccolta “Myricae” l’iniziatore della poetica del Novecento, lasciandosi alle spalle la tradizione per far emergere, quasi fosse una stupefacente scoperta, la natura, gli animali, le piccole cose, dando loro voce. La metrica risulta più libera, piena di rinvii, parla all’animo del lettore, ma  questo accade perché cambia il ruolo del poeta, se ne ha una concezione diversa.

Non esiste più il poeta guida o il poeta romantico in grado di esprimere sentimenti difficilmente esprimibili per i più, ma il poeta ora è consapevole della crisi che vive, è desolato che non sa che dire se non parole sentimentali vane;  non è un caso che Corazzini si chieda in una sua composizione: “Perchè tu mi dici poeta?” e che Montale affermi che il poeta non è più  portatore di illuminazioni intellettuali e sentimentali (“Non chiederci la parola che squadri l’animo nostro informe…non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Lo stesso Pascoli nella sua prosa “Il fanciullino” sostiene che il poeta si debba affidare ad uno sguardo infantile per poter liberare la realtà e il mondo dalla sterili abitudini, scoprendo nuovi orizzonti.

Ci si interroga, si riflette sul compito del poeta, si cercano nuove strade da percorrere attraverso avanguardie e sperimentazioni; a tal riguardo , convenzionalmente, si è posto come inizio il 1903 quando ci si ribella alla poetica di D’Annunzio, Carducci e anche Pascoli; fanno tendenza i crepuscolari attraverso il loro movimento, estranei alla cultura accademica e ispirati dal decadentismo europeo. I maggiori esponenti del crepuscolarismo sono Corazzini, Palazzeschi, Gozzano, Govoni che esprimono sentimenti di rassegnazione, malinconia; la poesia di Gozzano  è intrisa di ironia e raffinatezza , si pensi a “Nonna Felicita”considerata il suo capolavoro, dove il ricordo languido di un amore si confonde con la consapevolezza dello scorrere del tempo che rendono l’uomo angosciato. Gozzano inoltre conferisce ad oggetti e cose un certo alone evocativo e simbolico; e i crepuscolari sono tra i primi a sperimentare la poetica delle piccole cose che tanto caratterizzerà gli ermetici, successivamente.

Dimenticato D’Annunzio e la sua mitografia magniloquente e sensuale,si approda ad un tono più dimesso per rappresentare la realtà; e si giunge cosi all’importante esperienza dell’ermetismo, parola che indica chiusura, consapevolezza dello stato di disagio in cui vive l’uomo (“Spesso il male di vivere ho incontrato”dirà Montale in una delle sue poesie). I poeti ermetici sono avulsi dalla retorica, la loro attenzione è rivolta alle cose minimali, Ungaretti, Montale e Quasimodo rifiutano l’ottimismo, optando per l’essenzialità, adottando un linguaggio libero da ogni condizionamento retorico, prediligendo (soprattutto Ungaretti) l’analogia.

Più rarefatte risultano invece le poesie  di Montale, ricche di occasioni, di presenze, di incontri che rafforzano l’attaccamento del poeta verso la vita, pur non avendo meta. Rievoca il passato anche Quasimodo, che gli procura angoscia esistenziale nel presente, avvalendosi di spazi bianchi e di articoli indeterminativi, ma ricercando comunque la pace interiore.

Tutta l’arte (già dalla fine dell’Ottocento) diventa merce che tende ad essere considerata dalla classe borghese come strumento di svago e di distrazione, banalizzandola, conferendole un valore semplicemente ludico. Questo “consente” ad artisti e poeti di perdere il loro prestigio e tendano a vedersi come dei buffoni di corte con il trucco sbavato. I poeti maledetti (Baudelaire, Verlaine, Mallarmè . Rimbaud) si ribellano attraverso  della figura del dandy,  di chi ostenta la propria bellezza, eleganza e raffinatezza snob, avvalendosi della poesia pura. Protestano anche gli Scapigliati, contro il Romanticismo e il provincialismo della cultura risorgimentale; si lasciano affascinare dal disordine, dall’anticonformismo, dal tema della malattia.

Questo il manifesto degli Scapigliati, attivi nell’Italia settentrionale (termine utilizzato per la prima volta da Cletto ):

«In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe una certa razza di gente – fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre, più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi, pronti al bene quanto al male, inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per… mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre. Questa casta o classe – che sarà meglio detto- vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese».

La nascita della società di massa porta anche allo sviluppo di una piccola borghesia intellettuale che vive  nell’industria culturale. Il bisogno di recuperare ruolo sociale importante si fa sempre più forte e gli artisti lo dimostrano attraverso la pubblicazione di riviste politico-culturali, nate a Firenze, come il Leonardo, La Voce, Lacerba, L’Unità, Il Baretti, La Ronda. Tra le avanguardie più significative spicca l’Espressionismo, i cui temi principali sono la città mostruosa, la civiltà delle macchine viste come caos senza senso, che si esprime attraverso le allucinazioni e le visioni inquietanti. All’interno di questo movimento, si sviluppa il Futurismo fondato da Marinetti nel 1909 che manifesta la necessità  di abolire i musei e le biblioteche,simboli di un passato  da superare, anzi da distruggere, esaltando invece il progresso, la velocità, la violenza, la guerra, la macchina. Marinetti  propone  parole in libertà, senza sintassi, abolizione della punteggiatura, uso dei verbi all’infinito. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone anche il Dadaismo, che  rifiuta il moderno, la novità, ma anche la letteratura del passato. Per il Surrealismo invece l’arte deve  esprimere l’inconscio, luogo dove  reale ed immaginario, passato e presente si mescolano; proponendo una scrittura automatica, attraverso libere associazioni mentali.

La poesia europea è segnata dai nomi di Breton, tra i padri del Surrealismo, del futurista   Majakovskij in Russia; in Italia di Sbarbaro, di Rebora, di Campana e il loro senso di sradicamento, a causa del Fascismo  della guerra.

Negli anni trenta vengono a delinearsi  due tipi di letterati: “il letterato-letterato” e “il letterato ideologo”. Il letterato-letterato, sulle orme di Croce, è votato ad una poetica di disimpegno, trasfigurando il dato reale in  simbolo. L’intellettuale ideologo che si oppone al regime, come Gobetti e Gramsci, è messo a tacere . C’è anche molta letteratura, invece che letteratura che sostiene il regime, come Bartolini, Soffici, Rosai collegati al movimento Strapaese e alla rivista il Selvaggio, o  Bontempelli, collegato al movimento Stracittà e alla rivista “900”.

Incomincia in questo modo, con la poesia dell’impegno, la stagione neorealista o di denuncia che trova massima espressione anche nel cinema. Una grande influenza sulla poesia italiana di questo periodo ha la poesia europea rappresentata soprattutto dall’angloamericano Eliot e dal francese Valery; Eliot  con la sua poesia allegorica influisce sicuramente su Montale che renderà la sua poesia, appunto, allegoria a partire dalle seconda raccolta de “Le occasioni” con le sue donne-simbolo.

Nel 1956 nasce la rivista “Officina”, per opera di Pasolini, Leonetti e Roversi, che si propone di opporsi sia al neorealismo che al Novecentismo, ovvero contro la tradizione lirico-simbolico-ermetica , proponendo lo sperimentalismo, forme di scrittura nuove. Esplode in tal senso l’Antologia “I Novissimi” che contiene poesie di Giuliani, Sanguineti, Balestrini. Nel 1963, a Palermo nasce il “Gruppo 63”, movimento di neoavanguardia  di cui fanno parte  illustre personalità: Guglielmi, ,Eco, Lombardi, Arbasino, Sanguineti, Leonetti, e altri.

«Gruppo 63 è una sigla di comodo di cui spiegheremo un po’ più avanti l’origine. Di fatto dietro a questa sigla c’era un movimento spontaneo suscitato da una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità […]. Furono l’ultima fiammata del neorealismo in letteratura, fioca eco populista della grande stagione cinematografica dei Rossellini e dei De Sica». (Balestrini, Giuliani)

Mentre  Calvino  invita a non considerare la letteratura come l’unica forma di contestazione possibile , Vittorini sostiene che  il tema industriale deve entrare nelle poesie e nei romanzi. Tuttavia intorno al ‘74-‘75 la Neoavanguardia è  già conclusa, sostituita  dall’irrazionalismo nietzschiano/heidggeriano dei filosofi Vattimo e Cacciari. Il 1984 rappresenta un anno importante: a Palermo si svolge  un dibattito, titolato “Il senso della letteratura”dove affiora una tendenza, anche se minoritaria, espressionista e neoallegorica.

Molta fortuna hanno riscosso riscuotono anche i poeti stranieri in Italia come Neruda, Kahlil, Garcia Lorca, Pessoa, Prevert, Allan Poe, Thomas, Stevenson, Dickinson, Renard, Lee Masters, Eliot, Kerouac, Sarandaris, Apollinaire, e tanti altri.

 

Robert Musil, nevrotico cantore della crisi della società moderna

Robert Musil (Klagenfurt 6 Novembre 1880, Ginevra 15 Aprile 1942) nasce nel 1880 a Klagenfurt, in Austria. All’età di dieci anni si trasferisce a Brno (Moravia) con la famiglia, in quanto il padre viene nominato professore di ingegneria meccanica al politecnico della stessa città.

Pochi anni dopo, entra nell’accademia tecnico-militare di Vienna. Dopo qualche mese si iscrive al politecnico di Brno. Supera l’esame di ingegnere (nel 1901) ed ottiene il ruolo di assistente al politecnico di Stoccarda. Durante questo periodo, inizia la stesura del suo primo romanzo I turbamenti del giovane Torless (Die Verwirrungen des Zöglings Törleß)sicuramente più letto e conosciuto in Germania. Apparso prima presso un editore viennese nel 1906 e poi ristampato circa cinque anni dopo da George Muller ma a Monaco. Musil ha  solo 26 anni.

Masochismo e sadismo attraversano le pagine di questo romanzo, (ambientato in un collegio militare asburgico dove l’educazione è spesso anche perversione) proprio come le storie stesse dei protagonisti, adolescenti in crisi che rispecchiano profondamente la crisi di quegli anni. Omosessualità, torture fisiche e violenze psicologiche continue sembrano essere l’unico mezzo disponibile attraverso cui riflettere sulla propria esistenza, fatta di emozioni così forti da riuscire ad annientarti, ruoli dominanti che si confondono, negando volontà e desiderio, in un unico grande gioco che è quello degli impulsi. Impulsi prima di tutto naturali e poi sessuali , mai però vicini al patologico. C’è da dire, infatti, che Musil si difende in maniera molto decisa dall’accusa rivoltagli di trattare di omosessualità, pederastia e disturbi mentali (ricordiamo che questi sono anche gli anni delle teorie psicoanalitiche appena formulate) poiché questi temi potrebbero riguardare chiunque e sviluppare le vicende più diverse.

Lo stile utilizzato ci permette di distinguere il carattere anti-naturalistico dell’interpunzione (in questo è molto differente, ad esempio, dallo stile di Joyce pieno di ellissi) e a tal proposito dichiara “La concezione dell’arte che io professo è eroica”.

I poli filosofici tra cui si muove Musil sono sicuramente Nietzsche e Dostojevski; il primo per il rapporto morale-intelletto e per la dialettica della verità; il secondo per le nozioni d’inconscio e di irrazionale. Ed, insieme a Kafka, si presenta come il fondatore della prosa moderna tedesca.

Quindi, quando pensiamo a Musil come all’autore dell’Uomo Senza Qualità, il romanzo incompiuto della sua vita che è un unicum vero e proprio nella letteratura ( Nel 1931 esce il primo volume, il secondo invece nel ’33, ed il terzo, curato dalla moglie a spese proprie, appare postumo nel 1943), non dobbiamo dimenticare che è autore, con tutto diritto, anche di quest’altra grande opera. Nel 1903 decide di studiare filosofia presso l’Università di Berlino, dove si laurea nel 1908.

Nella vita di Musil, c’è ovviamente spazio anche per l’amore. Nel 1911, infatti, sposa Martha Heimann, un’ebrea berlinese conosciuta qualche anno prima. Sempre nel 1911 pubblica due racconti dal titolo Incontri, incentrati sul tema della fedeltà amorosa e dell’esperienza limite tra sogno e realtà.

Negli anni successivi, svolge attività di pubblicista ed è redattore della rivista Neue Rundschau. Partecipa alla guerra come capitano e dirige un foglio militare. Terminata la guerra, si stabilisce a Vienna dove lavora per il Ministero degli Esteri. Gli anni che verranno saranno, invece, quelli dedicati al teatro; pubblica delle opere destinate alle rappresentazioni teatrali come Vinzenz und die Freundin bedeutender Männer, una farsa ricca di battute ironiche ed apprezzata per certe trovate anche se considerata, allo stesso tempo, molto meccanica e gelida.

Nel 1938, le truppe naziste invadono l’Austria, così Musil è costretto a ritirarsi in volontario esilio a Zurigo. Si sposta a Ginevra l’anno successivo, dove vive in isolamento con la moglie. E sarà proprio qui a Ginevra che morirà a causa di un’aneurisma, il 15 Aprile del 1942.

Il portale-rivista ‘900 letterario

Perché dedicare un sito di letteratura proprio al secolo del Novecento? Si potrebbe pensare alla vicinanza temporale, quindi,  ad un maggiore riconoscimento e conoscenza di questo periodo in quanto pone l’accento  sulla crisi esistenziale dell’uomo, ma sarebbe riduttivo. Specialmente il romanzo del Novecento rappresenta un genere totalmente nuovo, dove la parola d’ordine è sperimentazione atta a rappresentare al meglio la scissione, i tormenti, la sensibilità e le inquietudini dell’uomo moderno attraverso i vari personaggi-uomo dei romanzi che si definiscono in base alla loro mutevolezza, ai loro pensieri e sensazioni. E qui entra in gioco anche un altro importantissimo elemento, il tempo: i fatti non sono più raccontati secondo il loro ordine cronologico ma secondo il cosiddetto “flusso di coscienza” come direbbe James Joyce, ovvero quando si alternano continuamente presente e passato, ricordi, pensieri (secondo il francese Butor“il romanzo è una risposta ad una certa situazione della coscienza”). Nasce “Il tempo interiore”, “il monologo interiore”  tanto ambiguo e misterioso che coinvolge non solo i personaggi del romanzo ma la Storia stessa che si interseca con quella personale; è il tempo teorizzato dal filosofo Henry Bergson, dove gli istanti si dilatano o restringono a seconda della volontà del soggetto. Lo spazio non è più autonomo, la ragione del suo esistere è in funzione del personaggio che lo guarda, quindi anche dell’io-narrante che adotta la restrizione di campo: il lettore conosce i fatti solo attraverso le percezioni dei protagonisti.

Non si può prescindere naturalmente da un’analisi storico-culturale che da sempre ha influito sulla produzione letteraria, nel Novecento si raggiunge una maggiore consapevolezza dei limiti della scienza, e si fa molto affidamento alla psicologia, all’esplorazione della propria identità e la loro crisi, non a caso la maggior parte dei romanzi sono scritti in forma autobiografica, si pensi a Svevo, Pirandello, Mann, Kafka, Proust.

In questo senso, avendo parlato di sperimentazione, il Novecento è un secolo affascinante perché rischia di più, mette in discussione la tradizione e la parola per poi recuperarla, perché è sempre da li che si parte per innovare; per conferire alla letteratura una efficace valenza conoscitiva utilizzando il montaggio di un insieme di unità a scapito dell’azione che invece era fondamentale del romanzo dell’Ottocento.

I temi, già accennati, di questo secolo ci sono ben noti: l’inspiegabilità del male, il senso dell’assurdo e quello di colpa,lo smarrimento, acuiti dall’esperienza della guerra e che gli scrittori di questo periodo tentano di rendere universali come Italo Calvino. Le guerre e questi sentimenti ci sono sempre stati, spesso erroneamente, si crede che la letteratura muta perché mutano gli eventi  e le sensazioni ma in realtà cambia il modo di prendere coscienza di tali eventi e sentimenti, cambia il modo di rappresentarli, nel Novecento vi si imprime un afflato collettivo e un piglio sociale, impegnato, basta citare alcuni  intellettuali della prima metà del Novecento come Albert Camus, George Orwell, Ignazio Silone, Elio Vittorini. Negli anni Cinquanta si fa largo l’esigenza di evadere, di scappare dai vicoli del realismo verso una deformazione visionaria, ci riescono benissimo Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini. Negli anni Settanta prende forma la letteratura come strumento di indagine e di analisi critica, volta alla ricerca di un nuovo metodo; diventa poi una forma di spettacolo alla fine degli anni Settanta con George Perec ed Umberto Eco per una ridefinizione del racconto abbracciando la filosofia e la ricostruzione storica.

Si giunge al postmodernismo, di cui il maggior esponente è l’argentino Borges con le sue parodie e giochi tecnici per fare delle letteratura, ancora una volta, uno strumento conoscitivo; al modernismo di Pessoa e a scrittori internazionali che sono l’emblema del passaggio da una cultura all’altra come il praghese Kundera, francesizzato e il russo Nabokov, divenuto americano.

Di grande glamour risultano anche i romanzi gialli, molto popolari nelle loro diverse accezioni, dal thriller al noir, dal poliziesco al serial killer. Leonardo Sciascia che si è cimentato nel giallo, sull’esempio di Borges , disse che questo genere  non è altro che “l’avventura della ragione alla ricerca della verità”.

‘900 letterario non è solo una rivista, ma anche un portale che invita i propri visitatori alla scoperta e alla riscoperta dei romanzi più significativi ed importanti del Novecento, i cui protagonisti sono cosi intriganti perché sfuggono dalle mani dei loro autori, esteticamente sono anche poco piacenti (Federigo Tozzi infligge ai suoi personaggi la bruttezza fisica) come ha giustamente notato il grande critico Giacomo Debenedetti che non esita a definire il romanzo novecentesco con la suggestiva espressione rubata a Proust “una grande intermittenza di un succedersi di intermittenze” ovvero momenti privilegiati che rimandano a cose passate. Ma non solo; il portale oltre ad occuparsi delle recensioni dei romanzi più belli e significativi del Novecento, dedica delle sezioni a giovani scrittori emergenti e non, dando spazio anche agli autori più contemporanei di maggior successo nelle categorie “Autori emergenti”, ai “Best seller”,  agli “Eventi letterari” come il Salone del libro e ai vari Premi istituiti con i relativi vincitori oltre alla “Poesia”e alla “Classifica” dei libri più letti.” Vi è poi uno spazio riservato alla riflessione sulle sorti della critica letteraria e quindi anche della letteratura stessa: “Critica” e uno spazio dedicato agli approfondimenti, a tematiche e ad aspetti più specifici: “Focus”. Vi sono inoltre due rubriche dedicate al cinema, alla politica, all’attualità e alla musica.

Il romanzo del Novecento e solo questo genere di narrativa in prosa, ha disoccultato la realtà, ha portato alla luce il conflitto tra IO-ES e SUPER IO per dirla alla Freud, relazionandosi con le  grandi discipline del nostro tempo: sociologia, antropologia, psicoanalisi, arte che a loro volta offrono una valida chiave di lettura per la letteratura.

BUONA NAVIGAZIONE.

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