Tra visibile e invisibile. Cristina Campo a 100 anni dalla nascita

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Cristina Campo, voce imprescindibile del Novecento.

Vittoria Guerrini, questo il vero nome di Cristina Campo, nata a Bologna il 29 aprile 1923, è stata scrittrice, poetessa, critica letteraria, consulente editoriale, traduttrice; straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea. La prosa di Cristina Campo è tra le più belle della letteratura italiana, caratterizzata dall’utilizzo della scrittura critica assurta a paradigma della letteratura stessa e perciò divenuta scrittura d’arte.

Una prosa che sfugge ad ogni rigida e univoca classificazione e che ripercorre quegli itinerari esistenziali e attraversando quei luoghi che hanno segnato la parabola artistica della Campo mente in filigrana emerge la vicenda umana della scrittrice, intensa e suggestiva.

La misura essenziale del pensiero di Cristina Campo potrebbe racchiudersi nel titolo “Il segno preciso delle cose nella dissolvenza del tempo, tra visibile e invisibile”: è la fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento di prospettiva e il rovesciamento dello sguardo per il cui l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà; ed è allora che sentiamo la vita che rispende perché in rapporto con il suo mistero. Come scrive la Campo, sono i rigorosi esercizi per pianoforte di Chopin a permettere la leggerezza, la forma ariosa che è resa possibile dalla fermezza con cui la mano sinistra mantiene la misura.

Il pensiero di Cristina Campo, a prima vista, potrebbe sembrare a molti inattuale. Come considerare i suoi testi guidati dall’amore assoluto per la perfezione in un tempo come il nostro?

La stessa Cristina Campo fornisce una risposta quando in una lettera parla del proprio tempo come quello in cui tutto ciò a cui tenevamo è andato perduto. Bisogna dunque riallacciare la fine del nostro tempo con quello che è andato perduto, ma per compiere questa impresa è indispensabile amare la realtà come si presenta, tanto diversa da come vorremmo che fosse. La forza del tempo ferito è proprio questa: le illusioni sono venute meno e ne resta la realtà.

Cristina Campo sottolinea con forza che lo spirituale e il corporeo sono integrati insieme nel mistero della reincarnazione, il divino attraversa e coinvolge il sensibile, cosicché corpo e spirito non sono separati, ma intimamente uniti al divino. Tale verità secondo la Campo era ben presente nel Cristianesimo delle origini e che si è andata perduta nel mondo di oggi, anche se ne ne ritrovano tracce nel mondo bizantino e nella devozione popolare. La scrittrice non rinnega la speranza come virtù teologale ma la rigetta interamente come speranza mondana.

Sulla scia di Simone Weil, Cristina Campo distrugge tutto ciò che può prendere il posto del vero Dio, ponendo l’accento sulla forma formante e sulla trasfigurazione dei sensi corporei in sensi naturali.

Negli scritti dell’autrice bolognese, il tema della vocazione e del destino assume un ruolo fondamentale, nei testi contenuti negli Imperdonabili e in quelli dedicati alla fiaba, genere molto amato dalla Campo: si sostiene che nulla c’è da imparare su questa terra e che caparbia, inesausta lezione delle fiabe, è la vittoria sulla legge di necessità, il passaggio costante ad un nuovo ordine di rapporti. La vittoria sulla legge è da intendere come dissidenza dal gioco delle forze che normalmente governa le relazioni umane poiché tutto in noi obbedisce alla forza salvo un piccolo aperto al soprannaturale.

La riflessione sulla fiaba permette a Cristina Campo di accostare tra loro i due estremi della vita: l’infanzia e la vecchiaia. Fiaba e mistica condividono la consapevolezza che l’illuminazione non si raggiunge, viene da se, e verrà da se quando il tempo sarà maturo.

Scrittrice spirituale e di fede cristiana, per Cristina Campo sia le fiabe che i Vangeli non trasmettono norme valide per sempre, indipendentemente dalle circostante, ma invitano a leggere nella vita stessa i segni che vengono via via offerti, a decifrare la potenza dei simboli nel loro concreto quanto inaspettato affacciarsi qui e ora, in modi sempre diversi e imprevedibili.

L’invisibile per Cristina Campo, ha radici in un tempo mitico, che è tale perché non riconducibile alla somma dei fatti accaduti. Ecco perché è lo stesso paesaggio a costituire per la Campo, un elemento di felicità: la fede rende possibile il riconoscimento di simboli in ciò che è avvenuto realmente. In Sotto falso nome, la scrittrice scrive che le quattro linea della felicità che guidano la strada da Oriente e Occidente sono il linguaggio, il paesaggio, il mito, e il rito. Il paesaggio congiunge l’infanzia con la vecchiaia, l’inizio con la fine; si tratta di un avanzamento di ritorno, come il vecchio che rievoca, raccontando fiabe ad un bambino, la propria infanzia.

Dalla letteratura mistica, dalla figura della fonte traboccante, Cristina Campo ricava la nozione di soprammercato, applicandola alla fiaba: il punto di svolta decisivo è l’illuminazione dell’eroe della fiaba, la propria conversione e ricompensa. Il lieto fine della fiaba è donato in sovrappiù.

A Cristina Campo si deve una delle formule simboliche più pregnanti dell’agire mistico, una massima dell’azione cui si attengono anche i protagonisti delle fiabe. Si tratta di una di quelle formule irrinunciabili come ad esempio: «Tutto pur di salvare mia madre», la formula simbolo che apre l’ingresso alla quarta dimensione.

Cristina Campo è antimoderna, conservatrice, alchemica e appassionata custode della tradizione, è stata una fata lottatrice che ha tradotto William Carlos Williams, che sistemava le bozze dei romanzi di Alessandro Spina, un genio negletto in paese di invidiosi e cialtroni, amante dei versi di di T.E. Lawrence ed Emily Dickinson. Cristina Campo ci dice che la poesia è sigma, rovina, affioramento di luci tra le tenebre. Per questo è sempre attuale.

“NEL MONDO, SOLO ESSERI CADUTI ALL’ULTIMO GRADO DELL’UMILIAZIONE, MOLTO AL DI SOTTO DELLA MENDICITÀ, NON SOLO PRIVI DI CONSIDERAZIONE SOCIALE MA GIUDICATI DA TUTTI COME SPROVVISTI DELLA PRIMA DIGNITÀ UMANA, LA RAGIONE, SOLO QUELLI HANNO EFFETTIVAMENTE LA POSSIBILITÀ DI DIRE LA VERITÀ. TUTTI GLI ALTRI MENTONO”.

 

Fonte La bellezza della complessità. Cristina Campo a 100 anni dalla nascita – La Discussione

Cristina Campo, la poesia, le fiabe e il mondo letterario di un animo solitario

Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce a Bologna il 29 Aprile 1923. Fin dalla tenera infanzia, Cristina è figlia del celebre compositore musicale Guido Guerrini e di Emilia Putti, nipote di Enrico Panzacchi, poeta e critico d’arte, e sorella di Vittorio Putti;  noto chirurgo ortopedico.

A causa di una congenita malformazione cardiaca che rende, da sempre, precaria la sua salute Cristina cresce in una naturale solitudine: lontana dai coetanei e seguendo un percorso scolastico frammentato. Vive insieme alla famiglia a Bologna fino al 1925; successivamente a Parma e, nel 1928,  a Firenze città in cui Guido Guerrini dirige il conservatorio Cherubini.

L’ambiente culturale fiorentino è determinate per il percorso di Cristina Campo: a Firenze incontra il traduttore Leone Traverso affettuosamente soprannominato dalla poetessa Bul. Fondamentali sono gli incontri con Mario Luzi e Gianfranco Draghi in quanto introducono la Campo al pensiero di Simone Weil: Cristina Campo fu fra i pochi intellettuali a divulgare, in seguito, il pensiero di Simone Weil in Italia. A Firenze conosce anche Gabriella Bemporad, Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell che, successivamente curerà la pubblicazione delle sue opere.  Nella sua vita privata la poetessa bolognese frequentò Mario Luzi. A tal proposito, Margherita Dalmati affermò sul loro rapporto:

«I suoi amori erano tempestosi, sfrenati – e condannati. Nessuno può resistere, in continua tensione, a un volo senza stasi […] Il grande amore, e l’unico della sua vita, fu un’altra persona, quella del Moriremo lontani, un amore impossibile poiché la persona amata aveva tutte le virtù cantate dai poeti; inoltre lei era libera, lui no […] Parlava troppo e a voce alta – questo tradiva la solitudine della sua infanzia».

Negli anni ’50 è Gianfranco Draghi che la esorta a pubblicare i suoi primi saggi su ‘’ La Posta Letteraria del Corriere dell’Adda e del Ticino’’. Nel 1955, invece, si trasferisce definitivamente a Roma. Sempre nei primi anni ’50 lavora a un’antologia di scrittrici:, Il Libro delle ottanta poetesse, una raccolta con le 80 poetesse che, secondo Cristina, rappresentano il culmine della poesia femminile. Purtroppo, questa antologia, non sarà mai pubblicata.

Nel 1958 incontra lo scrittore, filosofo e conoscitore di dottrine esoteriche Elémire Zolla; con lui avvia un lungo sodalizio. Il periodo storico vissuto da Cristina Campo è disseminato da tensioni politiche, per questo tutta la cultura, e allo stesso modo la poesia, si rivolge all’impegno sociale collimando nello sperimentalismo.

Sono gli anni  delle avanguardie storiche, dell’immediatezza. La sua scrittura è considerata elitaria, la sua formazione intellettuale dovuta a una recondita riservatezza e a una frequentazione di un numero ristretto di amicizie la porta ad avere disguidi e incomprensioni; è il caso dell’acceso contrasto con un’altra scrittrice influente nel panorama della letteratura italiana, Anna Banti. A quel tempo, la Banti, dirige ‘’Paragone’’ una rivista con cui Cristina Campo collabora come traduttrice e dove pubblica la traduzione delle poesie di John Donne.

La poetessa che rifugge la gloria: il rito della traduzione

Approssimativo e impreciso collocare la figura di Cristina Campo esclusivamente nella poesia. Cristina  scrive fiabe, saggi, epistolari ed è un’ottima traduttrice: traduce testi della più alta letteratura inglese come Virginia Woolf, Emily Dickinson, Katherine Mansfield. Tradurre, per la poetessa schiva, è un vero e proprio rituale: l’azione del rendere un’opera in un’altra lingua è connotata di sacralità.

Tradurre è far riflettere le emozioni,  le tensioni, le inquietudini dell’autore originale che, colto dall’impulso poetico, manifesta di getto; è mediare con lo spirito dell’autore, in tutta la sua più totale purezza.

Il processo di traduzione per  Cristina Campo è frapporsi oggettivamente fra le emozioni e le parole del legittimo autore senza ‘’sporcare’’ il lavoro poetico con i propri sentimenti. Cristina scrive per amore della stessa poesia e della scrittura: non ama i salotti mondani, i premi, le auto-celebrazioni. Sceglie, appositamente, un nome d’arte e firma molte altre opere con ulteriori pseudonimi: da Puccio Quaratesi, Bernardo Trevisano, Giusto Cabianca.

I suoi versi sono essenziali, così come le parole che li compongono: è ossessionata dall’idea di perfezione e la sua scrittura emana una singolare raffinatezza antica. Un linguaggio diretto, essenziale e preciso che pone le sue strofe in analogia con gli haiku, componimenti giapponesi noti per la loro brevità. Questi i versi di Passo d’Addio, la prima raccolta della poetessa pubblicata nel 1956:

Si ripiegano i bianchi abiti estivi
e tu discendi sulla meridiana,
dolce Ottobre, e sui nidi.

Trema l’ultimo canto nelle altane
dove il sole era l’ombra ed ombra il sole,
tra gli affanni sopiti.

E mentre indugia tiepida la rosa
l’amara bacca già stilla il sapore
dei sorridenti addii.

Quella di Cristina Campo per la perfezione dei testi è una passione febbrile: soffre di insonnia, si alza a mezzogiorno e lavora alle sue opere fino all’alba. Scrive, traduce, legge, rielabora e rifugge con disprezzo tutta la patinata mondanità che la circonda. In un’intervista per il Tempo, datata 1972, dice di sé stessa:

«Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno».

 

Una poetica priva di orpelli e l’amore verso gli ultimi

Il suo stile scabro e privo di fronzoli la induce a far coincidere la parola con la sua semantica più viscerale e profonda, tenendosi ben lontana da qualsiasi contesto scontato, patinato e superfluo. Uno stile di vita che coincide, soprattutto, nei suoi testi: è nella solitudine che si ha l’ascesi per l’ispirazione poetica, non mescolandosi alla massa, alla mediocrità, alle mode.

Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre,
sangue con sangue,
due separati
mondi.

 

Poesia di  Hèctor Murena tradotta da Cristina Campo, La tigre assenza (Adelphi, 1991)

 

Di animo sensibile era solita accogliere gli ultimi in casa dando loro le cure dovute: profughi, barboni, donne in difficoltà, poveri. Detesta il consumismo, ama i perdenti, gli ultimi, coloro che non hanno alcuna voce. Cristina Campo non è una donna capace di scendere a compromessi, non se questo significa indurre in oblio una parte di sé autentica, pura. Determinata, raffinata, sopra le righe e forte nonostante la sua riservatezza non si abbassa mai alle dinamiche del tempo. A questo proposito non riesce a inserirsi nella società letteraria italiana di quell’epoca; troppo preziosa, elegante, fuori dagli schemi. Non scrive come gli altri, né nello stile, né nei contenuti. Attinge le sue ispirazioni da un’altra parte con una fierezza appartenente solo alle anime incontaminate e  passionali, allo stesso tempo. Nel 1953 scrisse a Margherita Dalmati:

« La mia lingua, lo so bene, è armoniosa, troppo, persino. È proprio questo che a me non va.  Io faccio dell’oreficeria,mentre si deve lavorare la pietra ».

 

Cristina Campo, la poetessa e il simbolismo delle fiabe: l’infanzia, condizione necessaria per la poesia

Cristina resterà sempre imbrigliata nel mondo meraviglioso e mistico delle fiabe, attingendo da esse il suo universo letterario e gran parte della sua poetica:

«A chi va nelle fiabe la sorte meravigliosa? A colui che senza speranza si affida all’insperabile».

Nel 1962 tratta il tema della fiaba nella raccolta di saggi Fiaba e Mistero. Cristina Campo attribuisce al genere fiabesco sfumature ben più complesse, non rilegandolo a una narrazione infantile. La sua produzione poetica, infatti, verterà principalmente sulla fiaba, il destino, il misticismo, i simboli e i miti.

Cristina non è una poetessa fruibile, non ha una poetica da ‘’mercato letterario’’ né è di suo interesse esserlo; non frequenta i salotti o le associazioni di alta letteratura: scrive, immagina e produce grazie al suo mondo interiore fatto di riflessioni opalescenti. Per comprendere la poetica dell’autrice è utile citare Diario Bizantino, testo composto da quattro sezioni da cui ben si può evincere la varietà e la sensibilità del suo mondo interiore. L’incipit di quest’opera basta già a tracciare la personalità della Campo:

Due mondi – e io vengo dall’altro.

Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.

In questi versi l’autrice lega la conoscenza acquisita per mezzo della fiaba alla brama necessaria di un ritorno alle origini, ai luoghi dell’infanzia. Una teoria esplicata in modo più dettagliato nel saggio In medio coeli.

Nello stesso saggio la Campo connota alla ‘’perfetta poesia’’ il potere di ricondurre l’uomo a un ‘’sapere antichissimo’’, lo stesso sapere in cui scalcia, prorompe e si agita un primordiale ‘’tripudio infantile’’. In Cristina Campo coesistono le fiabe e la fede: l’autrice accomuna fate ed eroi alle religioni con un obiettivo comune, cercare risposte sui perché della vita; la nascita, l’amore, la morte, l’esistenza tutta.

Le lezioni apprese dalle fiabe ascoltate da bambini grazie ad un’insegnante, i genitori, o una nonna è una guida essenziale che aiuta nella crescita e nella formazione; a superare pericoli e fronteggiare ostacoli: il tutto, mantenendo un necessario legame con l’infanzia. E sarà proprio grazie alla fiaba che un adulto comprenderà il valore e la semantica dei simboli.

Una teoria già acclamata da noti autori di fiabe come Hans Christian Andersen,  il cui obiettivo è educare tramite la fiaba o da Jean de La Fontaine. Quello delle fiabe è quindi un mondo sì magico e ricco di allegorie, ma anche colmo di analogie con il concreto, il reale e il percorso psicologico di ogni essere umano. Diario bizantino è solo la rielaborazione in versi del pensiero e delle teorie sulla fiaba e sul  mondo letterario di Cristina Campo, in cui a predominare è il misticismo e la fiaba ne è porzione centrale:

«Così, se si dia un evento essenziale per la nostra vita – incontro, illuminazione – lo riconosceremo prima di tutto alla luce d’infanzia e di fiaba che lo investe».

 

La visione poetica mistica di Cristina Campo

Eccellente traduttrice, ispirata e dall’originale pensiero, Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo, è stata una tra le più importanti poetesse del novecento. Di indole solitaria, Cristina Campo nasce a Bologna nel 1923 per poi trasferirsi nel 1928 a Firenze, città che la influenza nella sua formazione letteraria. Qui conosce personalità come Leone Traverso, Mario Luzi e Gianfranco Draghi. Sono incontri, questi, che ella ricorderà a vita e che influenzeranno il cammino letterario della Campo per condurla alla scoperta di Simon Weil, filosofa etica da cui l’autrice bolognese trae ispirazione e dalla scrittrice Margherita Pieracci Harwell che ne curerà le opere postume.
Cristina Campo si trasferisce a Roma nel 1955 dove conosce Elémire Zolla, Ernst Bernhard e altre personalità di spicco. Muore a Roma nel 1977.

Cristina Campo: tra creatività e misticismo

La condizione di poetessa del novecento di Cristina Campo le permette un confronto con lo spirito letterario dell’epoca, un’epoca influenzata dallo spirito pessimista del disfacimento dell’esistenza individuale e dai falsi ideali, promotori di un bene illusorio. In questa condizione così densa di domande e di riflessioni si inserisce il pensiero della poetessa. Nella sua vita ella entra in contatto con svariate personalità della poesia e della filosofia (Andrea Emo, Elémire Zolla, Ernst Bernhard) e di altre ne studia il pensiero (Simon Weil, Dostoevskij, Proust, Thomas Eliot). Dalla sintesi personale di questi incontri e studi nasce la sua originale poetica che la influenza in tutto: nella traduzione, ad esempio, che ella interpreta come un atto prettamente creativo e mistico più che trascrittivo. La traduzione si interessa del più profondo spirito della parola e non della parola stessa. Nel suo personale cammino spirituale troviamo traccia di quest’influenza che porta l’autrice a lodare l’ortodossia, giudicando migliore il rito bizantino, ritenuto più rispettoso e umile rispetto ad altri riti religiosi.

Per quanto concerne la poesia ella resta a lungo nascosta come autrice e viene riscoperta maggiormente nel tardo novecento, postuma alla sua morte, grazie ai suoi amici e intimi colleghi. La sua ricerca metafisica la conduce a dare una risposta ai mali del suo tempo, attraverso una visione che penetri nell’essenza delle cose, ricercandone un fine nascosto, evitando il superfluo e tutto ciò che Cristina Campo ritiene ovvio. Ne è un chiaro esempio la poesia Moriremo lontani, che parla della morte e dei legami umani da vari punti di vista.

Moriremo lontani

Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.

Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…

O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:

«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta»

La morte viene vista come il silenzio del corpo e la migrazione dell’anima verso mete ignote. La morte è intesa come un viaggio al di là della quale non si conservano i rapporti umani terreni, i quali verranno dimenticati col tempo, tuttavia non verrà persa la dimensione individuale dei singoli. La frase finale”nessun vincolo univa questi morti” parla di una divisione umana attraverso la morte e il tempo. Questa visione pessimista impregnata del comune senso disfattista del novecento, viene interpretata dall’autrice attraverso i versi precedenti.

“Dell’anima ben poco sappiamo. Berrà forse dai bacini delle concave notti senza passi, poserà sotto aeree piantagioni germinate dai sassi…”

Questi versi ci presentano forse l’idea dell’autrice, sebbene la morte porterà via i corpi e il tempo spazzerà via i ricordi, dell’anima noi poco sappiamo. Ed è proprio l’anima la continuazione della vita degli uomini e della propria esistenza. Una teoria di sapore platoniano; tuttavia va osservato che questa anima sembra comunque una viaggiatrice sterile, che resta legata al corpo o vicina ad esso, si poserà sui sassi che ricoprono le tombe, che col tempo potranno essere sostituiti da piantagioni e poi dal vuoto nelle notti senza passi. Ma in ogni caso l’anima è lì, continuazione dell’esistenza.

La poetica e in generale il pensiero poetico dell’autrice bolognese viene a sintetizzarsi attraverso la ricerca di una verità pura e sottile nascosta sotto i pensieri e le influenze della morte dell’esistenza. La ricerca di una purezza sacra in cui rifugiarsi o con cui illuminare l’esistenza stessa.

 

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