‘Andrej Rublev’ di Tarkovskij. L’immagine sacra letteraria

Andrej Rublev è il film più lungo e più ostico del cineasta russo Andreij Tarkovskij, una vera e propria epopea che abbraccia 23 anni di storia dell’antica Russia. Per l’Occidente corrisponde al periodo del Basso Medioevo, a pochi anni alla scoperta dell’America.
La Russia è un popolo unito costruito su aristocrazia e ortodossia. Manca solo lo zar.

Struttura di Andrej Rublev

Il film è strutturato in otto episodi, oltre ad un prologo e un epilogo a colori, un documentario sull’opera del protagonista, il pittore Andrej Rublev (Anatolij Solonicyn).

In mezzo otto episodi nei quali la figura di Andrej è impressa da diversi punti di vista: spettatore in alcuni, solo evocato nel capitolo “Teofane il greco”; protagonista nei restanti cinque.

Gli otto episodi sono legati sul piano temporale, consecutivo, e ci mostrano il giovane Andrej che, dopo le intermittenti crisi spirituali, diventa il vecchio Andrej finché, Vanitas Vanitatum, diventando polvere ci restano di lui solo le splendide icone dell’epilogo.

Fede e Male

Il secondo grado del racconto è il vero e proprio rompicapo: perché, nonostante tutto, il Male continua a regnare?
Questo è un dilemma tipicamente russo e proviamo adesso a ricomporne la sciarada:

– la Fede salverà il mondo
– la bellezza è il linguaggio della Fede
– la bellezza salverà il mondo.

E allora perché, tuona Andrej Rublev, devo dipingere il Giudizio Universale con tutto il suo corollario di dannati immersi nella pece bollente?

Non c’è risposta.

Il Giudizio Universale

Andrej si rifiuta di dipingere il Giudizio Universale ma, quasi in epilogo di vita, correrà entusiasta a dipingere il mistero della santissima Trinità. Dice Teofane il greco, suo maestro: “Io dipingo velocemente, dieci giorni al massimo, e ho le idee chiare: il popolo è ignorante e capace solo di peccare. Deve vivere nel terrore e scontare i suoi peccati che partono da Giuda che ha tradito Cristo e da Pietro che l’ha rinnegato”.

Andrej la pensa diversamente e una soluzione la trova: si rifiuta di raffigurare il male, accetterà di dipingere il bene.

La divinità greca, molto prossima al pensiero russo è il vero convitato di pietra del film e spiegherebbe il prologo, in apparenza totalmente gratuito: una proto-mongofiera si invola con un certo Yefim (Nikolay Glazkov) a bordo; sulle prime l’uomo è estasiato, cullato dalle  panoramiche di Tarkovskij, dalla vertigine dell’ascesa.
Poco dopo, la mongolfiera si schianta al suolo. Lo stato di estasi ci dà l’idea dell’ordine divino e dell’amore verso tutte le cose del creato, così piccolo e indifeso visto dall’alto ma, non appena fa capolino l’ebbrezza di Icaro, quando Yefim prende coscienza, “Io volo…” dice tra sé e sé, è punito della superbia e si schianta al suolo.

Tra mito e religione

Così il prologo del film è anche il prologo delle innumerevoli facce dell’ambiguo Dioniso: il buffone che si prende gioco di tutti ed è arrestato.
A questo punto Tarkovskij interviene e se non può dimostrare che la bellezza salverà il mondo, fa il suo mestiere e mostra, mostra la bellezza.
E dove sta la bellezza? Innanzitutto nel movimento: tutto il film è un’unica vertigine di travelling laterali e panoramici che segnano l’incedere dei personaggi, l’irruenza dei cavalli, l’esplorazione degli spazi sacri, il lavoro degli artigiani.
In secondo luogo nei bambini, immortalati in splendidi primi piani, biondi e paffuti, maschi e femmine, che sorridono avulsi dall’azione in cui sono contestualizzati, purificati dall’ambiguità delle azioni e dei pensieri dei “grandi”, innocenti e perciò “cari a Dio”.
È nell’acqua, in cui si scioglie gran parte dell’ambiguità del film: acqua, fonte di vita ma anche di annegamento; di cultura, via di fuga e di salvezza, sempre popolata da esseri viventi.

Il Male contiene il Bene?

Alla fine, il dubbio resta: l’assassino è catturato ma il Male continua a imperare; Andrej Rublev è il più grande pittore di icone della Cristianità ma noi rimaniamo lo stesso con i piedi a mollo nel Limbo e ciò che ci resta, come sempre, è il fatto compiuto, le sue icone.

Rublëv, dopo essersi lamentato con il suo allievo, distratto e pigro, per la sua attitudine a mentire, e quindi per la sua incapacità alla preghiera, unica strada «per lanciare uno sguardo verso cose che l’occhio non vede», si trova a discutere con Teofane riguardo il rapporto di Cristo con l’umanità.

Le sequenze di Tarkovskij

Si muovono nella sequenza guardando in direzioni opposte, l’uno (Teofane) con le gambe piene di formiche, l’altro preso dell’osservazione della natura (il ruscello, il tronco di un albero). Teofane e Rublëv nel loro dialogo portano al punto di rottura la riflessione sulla duplice natura del Cristo, l’uno esaltando la sua unicità («Solo Uno può fare il bene»).

L’altro invece ricordando la sofferenza dei popoli, la cui ignoranza e la cui tendenza alla malvagità non è irredimibile.

L’umanità ripete sempre i suoi errori, e la sua tragedia storica vive un circolo vizioso, dove anche il ritorno di Cristo significherebbe un’altra volta la sua crocifissione, come vuole Teofane, o piuttosto va ricordato che nessuno ha testimoniato contro l’innocente, come nota Rublëv?

E quindi la pittura deve porsi a gloria del Dio unico, dimenticando la vanità delle lodi e degli interessi umani, o piuttosto deve essere rivolta a quell’umanità che Cristo, con la sua sofferenza, con la sua croce, è venuto a riconciliare con Dio Padre?

La Rivelazione secondo Rublev

Rublëv, nel descrivere la sofferenza comune dell’uomo e di Cristo, immagina Gesù trasportare la croce e liberamente lasciarsi inchiodare a
essa, all’interno di un paesaggio nevoso, tipicamente russo, accompagnato nel suo martirio da alcune persone del popolo che piangono per
la sua sorte.

La croce è stata per il volere di Dio, sottolinea Rublëv, anche se la sofferenza di Cristo è stata forse crudele e ingiusta. La deificazione dell’uomo implicava l’umanizzazione di Dio, voluta da Dio stesso, e non causata dalla malvagità umana. Se l’umanità non fosse redimibile, significherebbe il fallimento della creazione divina.

Ma, appunto, la divinizzazione ha comportato lo scandalo della croce, ossia il sacrificio creatore, la kenosi, dell’amore divino. «La ragione profonda dell’incarnazione non dipende dall’uomo ma da Dio; essa ha le sue radici nel suo desiderio pre-eterno e ineffabile di divenire uomo e di fare della sua umanità una Teofania, la sua dimora […] il Verbo fatto carne non è condizionato dal mondo ma da Dio soltanto».

Il testo fondamentale sulla kenosi è Fil 2, 6-8:

«Egli (Gesù Cristo) essendo nella forma di Dio non considerò una rapina essere uguale a Dio ma annientò se stesso (vuotò), prendendo la forma di schiavo, divenuto in similitudine di uomo e, essendo apparso nell’aspetto come un uomo, umiliò se stesso, divenuto obbediente anche fino alla morte, e alla morte di croce».

Così il teologo ortodosso Sergej Bulgakov, in Svet nevecˇernij (1917):

«Il Golgota non è stato solo eternamente prestabilito al momento della creazione del mondo come evento temporale, ma esso costituisce anche la sostanza metafisica della creazione […] Il sacrificio volontario dell’amore sacrificale, il Golgota dell’Assoluto, è il fondamento della creazione.

Infatti Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, e lo ha mandato “non a giudicare il mondo, perché si salvi per mezzo di Lui” (Gv 3, 16-17). Il mondo è stato creato dalla croce, eretta da Dio su di sé per amore».

Pulsioni di un naturalismo cristiano

Nella sofiologia trovano quindi spazio le pulsioni di un naturalismo cristiano che, comunque, se Tarkovskij ravvisa esemplarmente in Leonardo, attraversano i secoli successivi, trovando particolare attenzione nel romanticismo tedesco.

Trova altresì voce, in Andrej Rublev, grazie alla divinizzazione della natura, quell’attenzione al corpo, all’elemento sensuale, se non addirittura sessuale, che l’ascetismo bizantino conduceva al silenzio.

L’unità tra Dio e l’uomo non è più concentrata nella figura di Cristo, ma si realizza nella bellezza della natura, e più in generale nell’aspetto femminile del creato.

 

Fonte

https://www.academia.edu/29832885/La_Zona_del_Sacro_Lestetica_cinematografica_di_Andrej_Tarkovskij_Aesthetica_Preprint_Palermo_2005?auto=download&email_work_card=download-paper

“Il codice di Perelà”: il Cristo mancato di Aldo Palazzeschi?

Fiaba o romanzo? È questa la prima domanda che ci dovvrebbe venire in mente, avendo tra le mani “Il codice Perelà” di Aldo Palazzeschi. È lo stesso autore che ci avverte, in una frase riporatata in tutti commenti di tutte le edizioni: “Perelà è la mia favola aerea, il punto più alto della mia fantasia”. L’opera che ci troviamo davanti non può essere però una fiaba, almeno strutturalmente. Apparso nel 1911, con il sottotitolo di “romanzo futurista”, subito si presenta per quello che effettivamente è: dialoghi brevi e serrati, assenza di descrizioni, assenza di una qualsiasi voce narrante, ambientazioni fisiche appena accennate.

Le vicende di quest’uomo, fatto di fumo, che per trentatrè anni (età casuale?) ha vissuto in un camino, ascoltando tre vecchie che parlavano di filosofia (“una filosofia leggera, però”), imparando molto di come funziona il mondo, appaiono non certo prive di un certo stimolo al divertissment puro e frivolo. Non sempre, nel corso dell’opera, sarà possibile compiere una esegesi dei gesti di cui il protagonista si renderà protagonista. Il fatto che il Re gli affidi addirittura la redazione di un codice e che tutte le varie signore gli vogliano narrare le loro storie, quasi ritenendolo un redivivo arbitro del gusto di memoria latina, fanno forse pensare che nel romanzo Perelà debba svolgere un ruolo speciale, che, proprio in virtù della sua natura, gode tra gli uomini di una ammirazione e di una stima infinita. In questo personaggio, prima che in questo romanzo, la critica ci ha visto molte cose: l’interpretazione che più incuriosice, e su cui è meritevole una riflessione, è quella che fa corrispondere Perelà al Cristo. Eccone quelle che possono essere delle analogie.

Perelà sarà portato davanti a una corte e condannato, proprio come Cristo: sarà condannato per aver fatto credere di essere in potenza di fare cose grandiose, quando in realtà non è stato cosi. Anzi, ha indotto al suicidio un uomo. Durante il processo la condanna è unanime: come era stato esaltato cosi ora viene sprofondato con le considerazioni più meschine da parte dei testimoni. Forse un parallelo con la vicenda del Cristo, prima osannato poi condannato dagli stessi uomini? Il Cristo era capace di miracoli, il Perelà  no, ma è ricoperto della stessa aura di straordinarietà: allora forse sarebbe più corretto parlare di un Cristo mancato?

La condanna decisa è quella della segregazione nel Calleio, su una altura brulla e arida: e questo solo per intercessione del Re, la “massa” (come è scritto nel romanzo), ne voleva l’uccisione. È in questo punto che la narrazione sfuggente ora assume dei tratti quasi neo realistici, con le descrizioni dei luoghi e dei comportamenti delle persone, ansiose di vedere arrivare il condannato nel suo “carcere”. Imprigionare un uomo fatto di fumo. È possibile? Come presto “la massa” si rende conto, non è possibile. Perelà non si troverà, è fuggito attraverso le sbarre. Nessuno sa dove sia andato.
Nell’ultimo squarcio di narrazione, tornata stavolta ad essere affidata di nuovo ai pensieri e alle parole della “massa”, intuiamo che tanti grandi aquile solcano il cielo per “strappare a Dio il velo del suo mistero”. Oppure sono “degli uomini che vanno a consegnare di propria mano la loro anima a Dio?” Non si riesce a capire cosa vediamo nel cielo, ma l’obiettivo di chiunque stia volando è quello di andare a “cercare il signor Perelà”.

Come il Cristo, anche “Sua Leggerezza” Perelà è asceso infine al cielo: resta da chiedersi forse cosa lo abbia spinto a scendere tra gli uomini, che hanno dimostrato, per la seconda volta, di non sapersi tener stretto un Messia. Anche stavolta li avrà perdonati?
“Il codice di Perelà” è un romanzo ricco e variegato che affronta la realtà in termini favolistici e affidandosi ad un’allegoria errmetica che fanno sorgere spontanea la domanda: Perelà è un antiromanzo ambiziosamente cristologico?

Exit mobile version