Croce, la letteratura napoletana e la tradizione italiana

Alle soglie del Novecento, Benedetto Croce si lascia alle spalle, in virtù di uno storicismo vitale che esautora la luttuosità del rimpianto, la passione campanilistica composta da tanti amici e sodali del suo primo tempo di studioso locale e mette in campo il valore che guiderà gran parte delle strategie crociane in fatto di critica militante. Prospettiva, questa, che si rivela discriminante quando si paragonano il giudizio del giovane Gustavo Colline (pseudonimo che usava Croce sulla <<Rassegna Pugliese>> degli anni ’80 dell’800), su Salvatore Di Giacomo o su Imbriani e i ritratti poi forniti di questi autori napoletani nelle Note pubblicate sulla <<Critica>> e poi raccolta sotto il titolo di Letteratura della nuova Italia.

Negli articoli del giovane Croce, Di Giacomo viene investito dall’impressione di una lettura sincronica, alla ricerca di quella che egli indica come “la napoletanità più schietta” e che Imbriani risulta fin troppo legato al contesto culturale cittadino, difendendo la riconoscibile struttura napoletana dello stile e del fraseggio del romanzo, scritto in una lingua tanto più italiana quanto più vivificata dall’apporto del dialetto. Imbriani dunque è un propugnatore del pregio dei dialetti e spinge gli italiano delle altre provincie ad imitarlo, ma in seguito, all’interno del progetto intellettuale della <<Critica>> queste figure saranno sottoposte ad un trattamento opposto. In mezzo c’è il passaggio dalla storia piccola alla storia grande, c’è la polemica contro la critica regionale, c’è la centralità attribuita alla letteratura come momento conoscitivo e fondativo: la letteratura intesa come concentrazione spirituale e ricerca del vero, come recita la prima pagina della <<Critica>>.

In questo senso, se è vero che l’espressione letteratura è espressione della società è una ridondanza di stampo reazionario, la riflessione di Croce, inquieto post-marxiano, si appunta sigli stessi termini di rapporto ma ribaltandoli: contro l’assenza di una società omogenea in Italia, egli risponde:

“Un artista crea la sua società, non aspetta che vi sia (dove?) una società che egli possa copiare”.

Vale la pena ricordare anche il passo centrale del saggio di Croce su D’Annunzio del 1904:

“Si suole affermare che artisti siffatti sono espressione delle epoche di decadenza; ma bisognerebbe affermare invece, più esattamente, che, quando essi sorgono, qualcosa, in qualche animo, deve essere decaduto”.

Insomma, secondo Croce, la letteratura non esprime altro che se stessa; il concetto di tradizione italiana è nella Letteratura della nuova Italia, concetto militante. Tale letteratura ha il vuoto alle sue spalle e proprio Croce ha “inventato” la tradizione, prendendo in esame una delle grandi culture regionali come quella napoletana, per immetterla nel contesto nazionale.

Nel saggio su Di Giacomo del 1903, il mito digiacomiano della solitudine dell’artista trapassa il concetto critico dell’assolutezza poetica di quell’esperienza, dove tutti i materiali dialettali, del contesto napoletano, si fanno testo, in ossequio di quella che Croce definisce “fusione”. Per questo, nota il critico, è impossibile distinguere le pagine dettate dalla vita vissuta <<da quelle in cui Di Giacomo sceglie, costruisce ed inventa>>. A tal proposito risulta importante un altro passo tratto dalla recensione che Croce ha dedicato nel 1911 al saggio del letterato Francesco Gaeta su Di Giacomo:

“Considero come un vanto non piccolo della <<Critica>> l’avere contribuito a rendere giustizia al Di Giacomo, togliendolo dal gruppo dei poeti regionali e ponendolo in quello dei poeti nazionali, o meglio, dei poeti senz’altro”.

La polverizzazione dei generi, in questo caso della poesia dialettale come genere chiuso ed inferiore dell’arte, la difesa della poesia tout court, risulta collegata al progetto di una moderna tradizione italiana. Non è un caso che il quarto tomo della Letteratura della nuova Italia si chiuda con l’Appendice dedicata alla Vita letteraria a Napoli ed è accompagnata da una giustificazione dato che privilegia la cultura napoletana intesa come la più organica e dotata di una pluralità di livelli, per la sua compattezza rispetto al panorama culturale dell’età giolittiana:

“Mi ero proposto di far seguire nella Critica, al mio tentativo di preparare con una serie di saggi la storia della letteratura nella nuova Italia, una storia della cultura nelle varie regioni d’Italia nello stesso periodo; e come idea del lavoro che desideravo avviare, e per indicazione ai miei collaboratori, scrissi io queste pagine, che lumeggiano alcuni aspetti della cultura dell’Italia meridionale”.

 

Bibliografia: E. Giammattei, Il Racconto e la città, verso il Novecento, in Storia e civiltà della Campania.

 

“Mosca nei sottoboschi”, la testimonianza storica e umana di Annette Carayon

Moscou dans les sous bois, “Mosca nei sottoboschi”, opera del 2007 che potrebbe apparentemente sembrare un reportage o una cronaca dei fatti, è in realtà solo una testimonianza delle osservazioni fatte da Annette Carayon, insegnante di linguistica presso l’Università di Mosca e al servizio del ministero degli Affari esteri, sulla Russia degli anni ottanta e su quella dei giorni nostri, con al centro un enorme salto generazionale e con un territorio completamente stravolto dalla storia che noi tutti conosciamo, fatta di accadimenti che hanno lasciato alcuni aspetti immutati ed altri che invece si presentano come delle novità. Annette li registra tutti, con l’occhio lucido ed attento di chi vuole fornirci gli strumenti per arrivare ad una lettura nostra su quello che è il ”mondo Russia”, scevra da ogni influenza o pregiudizio di sorta.

Annette Carayon annota nel suo testo, il racconto degli incontri quotidiani fatti nei luoghi dove ha insegnato durante gli anni più critici per l’Unione Sovietica, ovvero quelli che hanno visto la caduta del regime comunista, la fine o l’inizio di un’epoca. E ci ritorna con l’imparzialità di chi si limita a raccontare, senza l’intenzione di imporre il proprio punto di vista, una città fatta non da moscoviti ma solo da alcuni moscoviti. La Mosca descritta da Annette è infatti quella di tutte le persone che, di volta in volta, si propongono sul suo cammino: professori e colleghi di lavoro, amici, vicini, passanti e sconosciuti ma ognuno con il proprio nome e la propria versione dei fatti; l’umanità intera nella sua varietà e complessità, sovietica, s’intende.

Umanità che si muove in un periodo storico di stagnazione, in cui gli intellettuali amavano riunirsi per ”riorganizzare il mondo”, in cui la speranza era collettiva e l’anima conservava costantemente il desiderio di rinascita, quello che sarà alla base delle critiche più severe ma anche più belle ed interessanti su un Paese che sembra così lontano da noi. Un Paese che ha bisogno di più verità, non veridicità,  perché non sempre la storia racconta il vero; uno stato sicuramente immenso, ma costituito da microcosmi che meritano di essere conosciuti ed esplorati, in questo caso, dalla nostra scrittrice, attraverso un mondo non ancora conosciuto al grande pubblico, al di là di ogni ombra, nei suoi meravigliosi sotto-boschi.

Il senso di meraviglia che pervade il testo è una condizione costante, in quanto, pur conoscendo bene la città e chi la popola, Annette scopre ogni giorno qualcosa che rovescia le certezze acquisite e fornisce nuove chiavi di lettura su ciò che è diventata la società russa, stremata, in balia degli eventi, facilmente influenzabile da paesi come la Cina ed impotente difronte a delle situazioni ingovernabili. Eppure la forza dei russi risiede proprio in questo: nell’accettare la trasformazione accogliendo un’idea di democrazia che sembra piuttosto assurda agli occhi di noi occidentali, preservati dalla catastrofe ed ignari sul ”dopo”.

Tuttavia, la Russia, grazie al suo forte senso patriottico, riesce a sopravvivere e a tenere la testa alta, ogni azione è motivata ed ha un senso che sottintende la volontà di voler resistere, quando tutto attorno sembra crollare. Ogni capitolo di questo diario di Annette, si presenta come inserito nel meccanismo delle scatole cinesi, o forse dovremmo dire più propriamente, come una matrioska nella matrioska? Simulacro di un identità che, faticando ad essere celebrata, si autocelebra e definisce anche i suoi limiti? Le storie che s’intersecano si riferiscono ad episodi molto differenti ma uniti dal collante della memoria; chi ha vissuto la guerra da piccolo comprende le attuali guerre giornaliere non meno di chi, ormai invecchiato, ne ha preso parte attiva, poi c’è chi lavorava ed ora ha perso tutto, continua a farlo, continua a lavorare.

L’uomo di Russia non ha timore o paura, si schiera e si difende. Si tratta più o meno dello stesso meccanismo delle scatole cinesi che incastra eventi distanziati anni luce nel tempo, implicandoli. Anche Mosca, del resto, non può prescindere dalla sua origine, dalla sua storia e dal suo passato, eternamente vincolati. E non è collocabile in nessun luogo che non sia quello dell’universo sovietico, anche questo, eterno punto interrogativo.

Julia Kristeva, tra semiologia e psicoanalisi

Julia Kristeva (Sliven, Sofia- 24 giugno 1941), è una semiologa e psicanalista bulgara naturalizzata francese, che ha teorizzato e sviluppato il concetto di intertestualità e costruito un’interessante relazione tra semiologia e psicoanalisi. Ha studiato all’università di Sofia e dal 1966 all’École pratique des hautes études a Parigi, dove ha conosciuto personalità come Barthes, Goldmann e Sollers, Derrida e Foucault. La Kristeva, acquisita la cattedra di linguistica all’Université Paris VII, diviene  una delle figure di spicco nella rivista d’avanguardia Tel Quel.

Alla critica tradizionale, Julia Kristeva ha affiancato il progetto di una scienza della letteratura fondata sull’apporto della linguistica, della semiotica, della psicoanalisi e inizialmente anche del marxismo. Uno dei suoi contributi teorici più importanti è l’elaborazione del concetto di intertestualità (derivato da M. Bachtin) secondo cui il testo non è qualcosa di isolato, ma si inscrive in una rete di relazioni con altri testi non solo dello stesso autore ma anche di altri autori e con modelli letterari coevi o precedenti.
I suoi studi e i suoi primi saggi si concentrano sulla fondazione di un nuovo ramo della semiologia definita “semanalisi” profondamente analizzata in Séméiôtiké. Ricerche per una semanalisi del 1967 Si è occupata di semiologia della pittura e della questione femminile. Parallelamente all’attività di saggista, a partire dagli anni Novanta si è dedicata anche al romanzo.

Il lavoro della Kristeva è cominciato dunque dalla semiologia analizzando e occupandosi di dialogo, verosimiglianza, ideologemi, moda e letteratura. Il suo interesse si è rivolto ad autori come Roussel, Bataille, Beckett (con Le père, l’amour, l’exile).
Un’importante monografia La rivoluzione del linguaggio poetico del 1974 è dedicata al poeta Stéphane Mallarmé. Pouvoirs de l’horreur (1980), pubblicato in Italia col titolo Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione analizza la produzione dell’autrice Céline affiancando alla critica letteraria la psicoanalisi. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta l’attenzione della critica si sposta sull’amore e sulla depressione, sull’idea di esilio e sul problema della fede. Da questa ricerca nascono testi come Sole nero. Depressione e melanconia, del 1986, Stranieri a sé stessi, di due anni dopo; Storie d’amore (1983) e In principio era l’amore. Psicoanalisi e fede del 1985. Il romanzo semi-autobiografico I samurai del 1990 ricostruisce i suoi anni d’impegno politico maoista e gli incontri con gli intellettuali dell’epoca avuti al suo arrivo in Francia. In coda a questa ricerca figurano Una donna decapitata (1996), Bisogno di credere. Un punto di vista laico e Santa Teresa d’Ávila: l’estasi come un romanzo del 2008.

Nel 1979 Julia Kristeva diventa psicanalista guidata dal grande psicoanalista francese Jacques Lacan. A questo punto la sua ricerca si estende al “genio femminile” con studi che culminano nei libri su tre figure femminili del secolo precedente: Hannah Arendt, La vita le parole del 1999, Melanie Klein. La madre la follia del 2000 e Colette. Vita d’una donna del 2002.
Attualmente la Kristeva insegna Semiologia alla State University of New York e all’Université Paris VII Denis Diderot. Dirige il “Centro Roland Barthes”. Per le sue ricerche sull’interazione tra lingua, cultura e letteratura e per il suo impegno nelle scienze sociali e umane nel 2004 ha ricevuto il Premio Holberg, importante riconoscimento istituito dal governo norvegese.

Intellettuale poliedrica Julia Kristeva rappresenta un importante punto di riferimento per la cultura contemporanea soprattutto se si affrontano tematiche spinose e di scottante attualità come la fede, la religione, e difatti la Kristeva parla di fede da un punto di vista laico: L’uomo ha bisogno di credere nel fatto che la vita collettiva sia migliore della guerra, di tutti contro tutti, dell’individualismo. La narrazione del cristianesimo crea e riproduce il collante sociale e culturale di una società che guarda, tutta insieme, al futuro. Nessuna pretesa superiorità per una chiesa, ma l’ammissione che il cristianesimo è questa narrazione complessa in grado di dare prospettiva alla società occidentale, alle sue tante culture e mitologie differenti. Il Dio che soffre e muore in croce rappresenta la forza e contemporaneamente l’umana debolezza che fa il senso d’umanità.

Secondo la critica la nostra eredità culturale è doppia. Da un lato il cristianesimo, dall’altro l’illuminismo, rottura irreversibile della civilizzazione europea. Nel momento in cui la nozione di peccato perde senso per la parte secolarizzata della popolazione, resta la grande preoccupazione sul significato dell’etica laica. Dunque quali domande dobbiamo porci oggi? E’ giusto insegnare una morale laica o orientarsi piuttosto verso un insegnamento laico della morale? Sarebbe opportuno riconoscere la specificità della vita interiore di ciascuno di noi e quindi trovare la versione personalizzata delle regole senza preconfezionarle? E che cos’è la trasgressione, la violazione della norma, il peccato? Davvero il concetto di limite ca scomparendo? La Kristeva non ne è sicura e ritiene che ci sia bisogno di un’autorità che ponga dei limiti, ma non per ottemperare ai voleri di una chiesa, ma per una necessità psichica, credendo fermamente della forza e nel potere del connubio tra tradizione giudaico-cristiana e illuminismo al fine di dare vita d un nuovo umanesimo che si faccia largo tra il tradizionalismo religioso e il nichilismo.

Natalino Sapegno, tra rigore e chiarezza

Natalino Sapegno (Aosta 1901 – Roma 1990), è stato senza dubbio uno dei più influenti storici della letteratura e critico. Di formazione crociana, posizione che liquiderà in seguito in nome di una problematica più concreta e comprensiva, in chiave “figurale”, Sapegno nasce ad Aosta nel 1901 vive i primi anni a Torino, dove frequenta le scuole elementari e ginnasiali, durante le quali ha come compagno di studi Carlo Levi, al quale sarà legato per tutta la vita da un’amicizia indissolubile. Nell’autunno del 1918, non ancora diciassettenne, si iscrive alla facoltà di Lettere di Torino, dove segue con particolare interesse i corsi di Ferdinando Neri e Gaetano De Sanctis. Nel capoluogo piemontese Sapegno si lega con fraterna amicizia a Piero Gobetti, collaborando alle sue iniziative culturali e scrivendo assiduamente sulle sue riviste.

L’avvento del fascismo, che coincide con il conseguimento della laurea (discussa nel 1922 con una tesi su Jacopone da Todi), lo spingono ad una scelta di vita più raccolta. Vinto il concorso nazionale per una cattedra nelle scuole medie superiori, si trasferisce nel 1924 a Ferrara e si dedica all’insegnamento nel locale Istituto Tecnico, approfondendo la sua formazione letteraria a partire dagli autori della letteratura italiana dei primi secoli e nutrendosi di letture a tutto campo, di scrittori sia italiani contemporanei sia stranieri. Frutto delle sue letture sono un centinaio di saggi, recensioni e articoli su varie riviste. Nel 1930 esercita la libera docenza presso le Università di Bologna e di Padova. In questi anni esce il poderoso volume su Il Trecento della «Storia letteraria d’Italia» che lo impone all’attenzione del mondo accademico. Qualche anno dopo, nel 1936 è chiamato all’Università di Palermo; dopo un solo anno viene scelto a coprire la prestigiosa ed allora unica cattedra di Letteratura italiana all’Università di Roma che ricoprirà fino al 1972.

Nel frattempo era uscito il primo volume del Compendio di storia della letteratura italiana, di cui verranno successivamente pubblicati il secondo e il terzo volume rispettivamente nel ’41 nel ’47. Tra la fine della seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni cinquanta Sapegno entra in contatto con i giovani antifascisti della facoltà di Lettere romana, tra cui Amendola, Ingrao, Trombadori, Salinari, Muscetta. Questi sono gli anni che vedono il pieno dispiegarsi della sua maturità critica in numerosi saggi a partire da Manzoni, Laopardi, Porta, Alfieri, Carducci Verga e molti altri; molti di questi saggi saranno successivamente raccolti in due importanti volumi, Pagine di storia e Ritratto di Manzoni. Per buona parte degli anni ’50 il critico è assorbito dal commento alla Divina Commedia che resta ancora oggi modello insuperato di metodo critico e di rigore filologico per la quale ricorre agli antichi chiosatori rifiutando ogni lettura estetizzante. Nel 1954 entra a far parte dell’Accademia dei Lincei. Nel 1976 lascia definitivamente l’insegnamento universitario proseguendo la sua attività di critico. Nel 1980 viene pubblicato presso Bulzoni l’ultimo di cinque volumi di scritti in suo onore, contenente le sue pagine disperse. Si spegne a Roma l’11 aprile 1990.

L’impronta lasciata da Sapegno nel campo della critica letteraria è stata fondamentale. Nessun altro storico della letteratura ha saputo unire l’esemplare rigore critico con la chiarezza ed l’eleganza di esposizione. Della sterminata bibliografia di Natalino Sapegno, alcune opere sono considerate dei classici della letteratura tout court.

Michel Foucault e “il sapere-potere”

Il filosofo, storico e sociologo francese Michel Foucault (Poitiers, 15 ottobre 1926 – Parigi, 25 giugno 1984), si è dedicato alla letteratura contemporanea tra il 1962 e il 1969 attraverso una serie di studi che mostrano una profonda comprensione del fenomeno letterario e in cui la scrittura viene inserita nel contesto della sessualità, della trasgressione e della morte. La scrittura definisce “un’ apertura di uno spazio in cui il soggetto che scrive non smette di sparire”. Foucault è un grande formulatore di discorsi e ad un certo punto si domanda: “In fondo, che cosa importa chi parla?. In questo modo il filosofo francese ha decretato la morte dell’uomo, fondando il suo interesse sul “sapere-potere”, puntando la propria attenzione soprattutto sulle grandi strutture oggettive rimosse o nascoste.

Il pensiero di Michel Foucault si potrebbe idealmente dividere in quattro punti essenziali; una prima fase di pensiero che va dal 1954 al 1961 in cui il critico si addentra nei sentieri del sogno e della follia: un cammino durante il quale le sue riflessioni lo porteranno ad incontrare e poi a superare la fenomenologia. La fenomenologia da cui è maggiormente influenzato è quella di Merleau-Ponty, la psicologia e la psicanalisi esistenziali di Binswanger e l’epistemologia di Canguilhem. I temi che fanno da fondamento a questa prima fase di pensiero sono il soggetto, inteso in maniera esistenzialista, la malattia psicologica, e una prima critica al razionalismo.

In testi come Maladie mentale et personnalité del 1954; Histoire de la folie à l’âge classique del 1961, e Maladie mentale et psychologie del 1962 e in Naissance de la clinique, une archéologie du regard médical del 1963, F. sviluppa dunque la sua analisi del sogno inteso come dimensione a-logica e privilegiata dell’esistenza umana in grado di rivelare quei contenuti simbolici importanti per la comprensione della propria natura più autentica. Egli inoltre analizza la malattia mentale intesa non tanto come devianza patologica, ma come una particolare modalità di esistenza intrisa di potenzialità, di originalità e creatività. A partire dall’epistemologia ‘storica’ di Canguilhem, evidenzia alcuni strumenti di analisi relativi ai concetti di “normale”e di “patologico”; vuole chiarire la sua posizione, estendendo l’analisi alle varie scienze umane, di cui individua il successivo stratificarsi e le condizioni di possibilità, cioè il loro costituirsi in campi epistemologici distinti.

La seconda fase di pensiero è quella che va dal 1961-1968. Lo sguardo di F. vuole andare oltre l’immediatamente visibile e indagare però il corpo nella storia della medicina. Ci troviamo tra le opere foucaultiane degli anni Sessanta in cui è palese l’influenza dello strutturalismo sebbene F. non aderisca mai totalmente ad esso. L’attenzione è stata concentrata sull’analisi del percorso che la medicina ha seguito nel processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte; sul concetto di episteme delle varie epoche storiche. In Les mots et les choses, une archéologie des sciences humaines del 1966,  F. analizza i saperi e i discorsi che hanno la caratteristica di modificare e creare gli “oggetti” che studiano. Il percorso di analisi parte dal periodo compreso tra ‘600 e ‘700 ed esamina l’episteme che organizza l’intera struttura conoscitiva di questa epoca analizzando come si passa dal segno alla funzione; nell’epoca successiva e cioè quella che prosegue fino all’Ottocento. F. fa riferimento alla nascita dell’anatomia patologica e alle forme e ai significati che il corpo assume in questa prospettiva, dalla funzione si passa al tessuto. Si arriva dunque a riflettere sull’Uomo come creazione recente.

Nella terza fase di pensiero che va dal 1969 al 1979 F. scrive testi come L’archéologie du savoir (1969), Moi Pierre Rivière ayant égorgé ma mère, ma soeure et mon frère (1973), Surveiller et punir; naissance de la prison (1975), Histoire de la sexualité  in 3 volumi nel 1976-84. Il cammino di Foucault tra la fine degli anni Sessanta e quella dei Settanta, si concentra sulla riflessione sul potere da cui ovviamente scaturisce la costituzione del soggetto moderno e della corporeità; i suoi campi di indagini sono capire come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza il corpo e come il soggetto viene continuamente influenzato e costruito dalla rete del potere. Un’influenza decisiva è stata senz’altro la lettura della genealogia della morale di Nietzsche, intesa come fondamentale strumento metodologico del corpo e del soggetto. La riflessione di Foucault sulle “stituzioni totali” inizia dunque con la genealogia dell’istituzione punitiva, il cui modello si riproduce e si ripropone nelle altre principali istituzioni quali l’esercito, la scuola, l’ospedale, la fabbrica. Di questa fitta rete di influenze e concatenazioni fa parte anche il sapere legato, in qualche modo, sempre al potere. Il potere poi è sempre affiancato dal concetto di “resistenza”, un correlato opposto e paradossalmente complementare. Per quanto riguarda sessualità, F. la rappresenta non come elemento naturale del patrimonio esistenziale dell’essere umano, ma come dispositivo storico delle società.

Nell’ultima fase di pensiero che va dal 1980 al 1984 si ha quella che si potrebbe definire una svolta filosofica, la scoperta dell’ethos. La fase finale del percorso foucaultiano, improvvisamente interrotto dalla morte, è caratterizzata dalla scoperta di una dimensione etica che non troviamo nei precedenti lavori. Investe anche in una reinterpretazione del soggetto, non più sottomesso e plasmato dal potere, ma attivamente consapevole e capace di auto-costruirsi. Il soggetto sembra rimanere sempre un qualcosa che si costruisce; tuttavia esso assume ora caratteristiche positive: la capacità di auto-costruirsi attraverso un complesso lavoro di perfezionamento e un’educazione fisica e spirituale. Richiamandosi di nuovo a Nietzsche, Foucault ipotizza la fine di quelle forme di soggettività, sottoposte all’opera del potere, che hanno caratterizzato la nostra epoca dal ‘700. Emerge dunque una prospettiva di libertà e di creatività del tutto nuova. Rilegge Kant e l’Illuminismo e inaugura la direzione e il compito che la filosofia riveste poi nell’epoca contemporanea: la riflessione critica su se stessi e sul proprio presente storico.

Tornando al suo secondo libro, il prezioso e di particolare interesse Le parole e le cose, del 1966, è importante sottolineare come F. analizza la ricchezza  e la storia naturale nella filologia, nell’economia politica, nella biologia, nella zoologia e nella botanica. Il testo infatti si apre con un’analisi delle Meninas di Velazquez, in cui si percorrono tutti i meandri del fenomeno della rappresentazione.

La dura ricerca di Foucault, volta al tentativo di dare una diagnosi dell’attualità, soprattutto attraverso l’analisi di una nuova economia del potere che ha come oggetto il governo della popolazione, organizzando lo spazio sociale, ha riscosso grandi consensi e ha segnato senza dubbio la cultura filosofica francese. Come non tenere conto dell’elaborazione dell’attuale concetto di biopotere, il quale fabbrica corpi, desideri, i modi di essere, comportamenti, basti pensare a quanto la società moderna, dominata dal cinismo, e l’individuo siano influenzata dalla pubblicità e dalla televisione.

Secondo il filosofo poi l’arte stessa, quindi anche la musica e la letteratura, deve stabilire con il reale un rapporto che vada oltre il semplice abbellimento, per diventare smascheramento. Ma sappiamo bene come l’arte, a partire dalla metà del XIX secolo si sia costituita come arte antiplatonica, che rigetta regole prestabilite, stabilendo con la cultura e le norme sociali un rapporto polemico e di riduzione; l’arte moderna ha aggredito l’arte acquisita, assumendo anch’essa un atteggiamento cinico nei confronti di quest’ultima.

Ma qual è il lascito più importante di Michel Foucault sul quale dovremmo continuamente interrogarci? La riflessione sulla tradizione del nostro Occidente, con il suo cinismo elitario, parente stretto dello scetticismo, e con il suo saper vivere senza verità. Come creare un rapporto armonico tra volontà di verità e stile di vita dopo che la fusione tra cinismo e scetticismo ha dato vita al nichilismo? Difficile dare risposte a queste domande ma Foucault ci fa capire come il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, quindi tutto è permesso, siamo liberi e possiamo fare ciò che vogliamo; egli si chiede: se devo confrontarmi con il pensiero che “nulla è vero”, come devo vivere? Questa è la vera questione al centro della cultura occidentale: definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza. In cosa consiste l’arte di esistere in un Occidente che ha inventato tante verità, che si nutre della sua confusione, e dove tutti hanno ragione? Dice Foucault: “il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente, e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità”. Meditiamo.

 

György Lukács, il marxismo applicato all’attività critica

Il filosofo ungherese Lukács György (Budapest, 13 aprile 1885 – Budapest, 4 giugno 1971) è stato uno dei principali esponenti del marxismo del Novecento. Laureatosi a Budapest nel 1906 si trasferisce a Berlino e a Heidelberg per approfondire gli studi di filosofia. Quello tedesco è stato un periodo decisivo per la sua formazione culturale; il suo pensiero risente fortemente dell’influsso di personalità come Simmel, Weber, Rickert, Lask e Dilthey. Con lo scoppio della Prima guerra mondiale L. vive una crisi ideale e politica che lo avvicina al marxismo. Torna in Ungheria e si iscrive al partito comunista partecipando nel 1919 alla Repubblica Sovietica ungherese di Kun come commissario del popolo all’istruzione. Successivamente emigra in Austria e in Russia e ritorna in patria nel 1945 per occupare un posto di professore all’università di Budapest. Nel 1956 Lukács prende parte attiva al disgelo politico e culturale e partecipa al secondo governo Nagy come ministro della Pubblica istruzione.

Dopo la repressione russa viene deportato in Romania; rientrato a Budapest nel 1957 si ritira da ogni attività pubblica e si dedica interamente al suo lavoro scientifico.
Per quanto riguarda la sua formazione, l’influsso di Hegel e dello storicismo tedesco costituisce il nucleo teorico delle sue prime opere: L’anima e le forme del 1911 e Teoria del romanzo del 1915. Gli stessi motivi teorici sono presenti anche nell’importante e celebre opera del 1923 Storia e coscienza di classe (tradotta in italiano nel 1967) opera che rappresenta il momento più significativo dell’incontro con l’opera di Marx e con il marxismo. In questo libro L. unisce la teoria marxiana della reificazione e del feticismo, la critica dei procedimenti metodologici delle scienze della natura e la critica hegeliana dell’intelletto e del materialismo. L. inoltre esplicita un metodo fondato sulla “totalità concreta”. Per alcune delle tesi in esso contenute il libro è  aspramente criticato dalla Terza Internazionale e L., ormai legato e attivo all’interno del movimento comunista, è costretto a sconfessare le sue idee. Inizia così quella che si può definire la seconda fase della sua attività, ispirata al “materialismo dialettico” e concentrata sull’estetica marxista.

Nel suo studio Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (uscito in Italia nel 1960), L. sostiene la sostanziale continuità di metodo fra Hegel e Marx-Engels. Come teorico dell’arte e della letteratura il filosofo e critico elabora una teoria estetica fondata sulla concezione del “rispecchiamento” e sulla categoria del “particolare”. Il realismo è la forma più alta di il rappresentare personaggi “tipici” in circostanze “tipiche” è la cosa più vicina alla verità. L’arte è una forma di sistema in cui si supera l’accidentalità e si arriva ad un momento eterno perciò deve essere realista ma non naturalista. L’arte naturalista di Zola, Maupassant e Verga ad esempio  si compiace nell’affondare nel patologico-fisiologico, dimenticando la politica e la storia: l’uomo è considerato nella sua individualità, e ciò conduce alla creazione di personaggi staccati dalla società e in contrasto con la ricerca della totalità. Il realismo in letteratura è una riproduzione fedele di circostanze tipiche in cui si intrecciano realtà con caratteristiche unitarie, dialettiche e problematiche. Il romanzo racchiude la storia di un popolo. Lo scopo del romanzo storico è dunque quello di dimostrare con mezzi poetici le circostanze storiche e far diventare la storia un modello assoluto. Esso crea un nesso tra la istintività e l’inconsapevolezza delle masse e la coscienza storica della classe dominante. Ma cogliere il “tipo” non significa fare una statistica di una serie di casi particolari, né riprodurre la realtà. Cogliere il tipico significa infatti cogliere il significato profondo della realtà storica, i suoi nodi centrali e decisivi.

In Teoria del romanzo, testo ha previsto il crollo della cultura che analizzava, Lukács comincia il suo lungo excursus sulla storia delle forme letterarie dall’epica classica di Omero:

“Il greco traccia il cerchio della raffigurazione formale ancora al di qua del paradosso, e tutto ciò che, tradotto il paradosso in termini attuali, dovrebbe condurre alla piattezza, lo porta invece alla compiutezza”.

La metafora spaziale, scelta da Lukács, è  la più adatta ad illustrare la condizione dell’uomo greco: tutto il “mondo” è sullo stesso piano, tutto è scopribile e conoscibile, perfino le divinità, per questo l’uomo dell’Epos non si pone la questione di conoscere il proprio destino, perché gli è facilmente rivelato. Se nell’epica era sufficiente un solo tipo di soggettività, ovvero l’uomo che semplicemente “viveva” in un mondo sensato, ora che esse hanno il potere di creare una totalità  le soggettività sono divenute due: l’eroe-cercatore, che deve tentare di ritrovare il senso in un mondo che non l’ha più, ma anche una soggettività creatrice: “il soggetto che contempla e crea, applicando a se stesso la sua conoscenza del mondo, è costretto a fare di se stesso, esattamente come delle proprie creature, il libero oggetto della libera ironia”. E c’è un modo efficace che ha il romanzo per soddisfare le esigenze di entrambe le soggettività: la biografia.

La forma più adatta per l’uomo del romanzo che è un individuo problematico, è quindi quella biografica che però non elimina la scissione del mondo tra senso e non-senso. Il cammino biografico dell’uomo problematico verso l’autocoscienza della propria esistenza è solo una “visione del senso”.

I Saggi sul realismo, dedicati soprattutto agli studi su Balzac e a Tolstoj, come ha sostenuto lo stesso Lukács, hanno “un carattere idealistico-borghese, in quanto in essi non ci si muove dai rapporti diretti e reali tra la società e la letteratura, ma si cerca invece di cogliere intellettualmente e realizzare una sintesi di quelle scienze – sociologia ed estetica – che si occupano di tali argomenti”. Capitali saranno testi come Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna,  Estetica, Studi sul Faust e Il romanzo storico in cui presenta appunto tutte le sue teorie estetiche e letterarie.

Oltre ad aver contribuito alla filosofia marxista e alla storia del pensiero moderno, quindi, Lukàcs si è impegnato a lungo anche nell’ambito della riflessione estetica e della critica letteraria, applicando in maniera significativa il marxismo alle questioni dell’arte e dell’attività critica.

Roland Barthes, tra teoria e scrittura letteraria

Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 – Parigi, 26 marzo 1980), è stato tra i principali esponenti dello strutturalismo francese del ‘900, la cui indagine si colloca al confine tra diverse scienze umane, a metà fra il lavoro di ricerca teorica e quello di scrittura letteraria.

Dopo la morte del padre in una battaglia navale nel 1916, la madre, si trasferisce a Bayonne, dove Roland trascorre la sua infanzia. Nel 1924 si trasferisce a Parigi, dove  frequenta prima il liceo Montaigne e poi il Louis-le-Grand; alla Sorbona, Roland studia la letteratura classica, le tragedie greche, la grammatica e la filologia, e si laurea in letteratura classica nel 1939 e in grammatica e filologia nel 1943. Nel 1934 contrae la tubercolosi e trascorre gli anni dal 1934 al 1935 e dal 1942 al 1946 in dei sanatori. In questi anni egli continua a leggere e a scrivere e fonda una compagnia teatrale e incominciò a scrivere.Insegna presso i licei di Biarritz, Bayonne, Parigi, all’Università di Alessandria d’Egitto e alla Direzione Generale degli Affari Culturali.

Dal 1952 al 1959 lavora come ricercatore al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica, dal 1960 al 1976 è direttore degli studi presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Dal 1976 al 1980 ha la cattedra di semiologia al Collège de France. Nel 1953 pubblica Il grado zero della scrittura,opera che conferma Barthes come uno dei critici di maggior rilievo della letteratura modernista in Francia e che introduce il concetto di écriture in quanto distinto dallo stile, dal linguaggio e dalla scrittura, nonché molto affine alle opere degli scrittori del nouveau roman, con il suo rifiuto della soggettività. Barthes infatti è il primo critico a trattare autori come Alain Robbe-Grillet e Michel Butor, i quali evidenziano la condizione dell’uomo nella società moderna, basata sull’industrializzazione, la tecnologia, la scienza, preoccupandosi maggiormente delle cose  piuttosto che  dell’uomo, dando vita in questo modo ad una sorta di antiromanzo.

In Mitologie (1957), Barthes analizza i miti attraverso la semiologia, avvalendosi di quotidiani, film, spettacoli, mostre come materiale di studio;  nel saggio Su Racine (1963), si lascia andare a giudizi poco ortodossi nei confronti di Racine, generando delle polemiche. In Elementi di semiologia (1964), organizza le sue opinioni riguardo alla scienza dei segni, basandosi sul concetto di linguaggio e sull’analisi del mito e del rituale di Saussure. Analizza minuziosamente una novella di Balzac, Sarrasine,  e considera l’esperienza della lettura e le relazioni del lettore in quanto soggetto nei riguardi del movimento linguistico all’interno dei testi. Secondo il critico infatti il lettore è lo spazio dove tutti i molteplici aspetti del testo si incontrano.

L’ultima opera di Barthes è La camera chiara (1980), in cui la fotografia viene considerata in quanto mezzo di comunicazione; pubblicato postumo, è invece  il libro Incidenti (1987), il quale rivela l’omosessualità dell’autore. Proprio negli ultimi lavori del critico francese, viene  sviluppata una nuova teoria erotica e fortemente personale di lettura e di scrittura, dove emerge l’interesse per l’effetto fisico della letteratura e di altre forme d’arte, per l’edonismo offerto al lettore dai testi letterari, si pensi soprattutto a Frammenti di uno discorso amoroso, dove Barthes interviene con il suo sottile ingegno di linguista per collezionare discorsi spuri su termini come “abbraccio” e “cuore”, in un unico soliloquio. Per lui l’amore è un discorso sconvolgente ed  lo ripercorre attraverso un glossario dove recupera i momenti della “sentimentalità”, opposta alla “sessualità”, traendoli dalla letteratura occidentale, da Platone a Goethe, dai mistici a Stendhal. Un’opera non di facile lettura ma affascinante, ironica e spietata:

IO-TI-AMO La figura non si riferisce alla dichiarazione d’amore, alla confessione, bensí al reiterato proferimento del grido d’amore.

 

“Passato il momento della prima confessione, il «ti amo» non vuol dire piú niente; esso non fa che riprendere in maniera enigmatica, tanto suona vuoto, l’antico messaggio (che forse quelle parole non erano riuscite a comunicare). Io lo ripeto senza alcuna pertinenza; esso esorbita dal linguaggio, divaga: ma dove?”

 

“Esiste per me un «valore superiore»: il mio amore. Io non mi dico mai: «A che pro?» Non sono nichilista. Non mi chiedo qual è il fine. Nel mio discorso monotono non vi sono mai dei «perché»; ce n’è uno soltanto, sempre lo stesso: ma perché tu non mi ami? Come si può non amare questo io che l’amore rende perfetto (che dà tanto, che rende felice, ecc.)? Domanda la cui insistenza sopravvive all’avventura amorosa: «Perché non mi hai amato? »; o anche: «O, dimmi, dilettissimo amore del mio cuore, perché mi hai abbandonato?”

 

In Barthes il senso e il valore sono filtrati dalle griglie di lettura connotative ed è per questo che egli sostiene che “l’ideologia non è altro che la forma dei significati di connotazione”; e quindi anche i significati trasmessi dalle denominazioni di disciplina sono perlopiù determinati dai valori connotativi prodotti dall’uso, dalle congiunture storiche e dalle conseguenze passeggere della moda. Tuttavia la distinzione tra “teoria del segno” e “teoria del senso” consente di individuare il luogo esatto in cui la semiotica opera.

Non esiste una scuola di critica o di teoria barthiana, eppure Roland Barthes, critico dagli innumerevoli stili e approcci teorici, ammiratore della grande Greta Garbo (“Il viso della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale, l’archetipo sta per inflettersi verso il fascino dei visi corruttibili, la chiarezza delle essenze carnali sta per far posto a una lirica della donna”), resta un modello fondamentale per tutti coloro che vorrebbero impegnarsi in questo campo intellettuale.

Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale

Claude Lévi-Strauss (Bruxelles 1908 – Parigi 2009) è stato un antropologo, psicologo e filosofo francese. Studia legge e filosofia alla Sorbona di Parigi ma nel 1931 si laurea in Filosofia. Le sue posizioni filosofiche si dimostrano da subito estremamente critiche nei confronti delle tendenze idealiste e spiritualistiche della filosofia francese di quel periodo; egli riconosce in se stesso un’esigenza di concretezza che lo porta verso direzioni completamente nuove. Ben presto infatti scopre presto nelle scienze umane, in particolare nella sociologia e nell’etnologia, la possibilità di costruire un discorso innovatore sull’uomo. Decisivo è  l’incontro con Paul Rivet e con Marcel Mauss del quale è allievo.

La fascinazione per i riti e i miti primitivi comincia proprio dall’insegnamento di Mauss. Lévi-Strauss è professore all’università di San Paolo in Brasile dal 1935 al 1938, poi alla New school for social research di New York (1942-45), all’ École pratique des hautes études di Parigi (dal 1950), infine al Collège de France dove (dal 1959 al 1982) insegna antropologia sociale. Dal 1973 è accademico di Francia. Durante la seconda guerra mondiale soggiorna negli U.S.A. dove entra in contatto con la tradizione etnografica di F. Boas e con le più generali prospettive teoriche dell’antropologia culturale. Di estrema importanza in questo periodo è l’incontro con la linguistica strutturale, e in particolare con R. Jakobson. Primi segni della fecondità dell’incontro si ritrovano in alcuni saggi nei quali si applicano i metodi dell’analisi strutturale in linguistica allo studio di fenomeni, come la parentela o il mito. La prima grande opera di L.-S. è Les structures élémentaires de la parenté. In questo studio L.-S. elabora una nuova teoria della parentela: partendo dall’analisi di aspetti fino ad allora poco comprensibili delle relazioni di parentela (il matrimonio preferenziale tra cugini incrociati – figli di germani di sesso differente; l’esclusione del matrimonio tra cugini paralleli – figli di germani dello stesso sesso; le organizzazioni dualiste), riesce a mostrare come tutti questi comportamenti siano espressione di un unico modello strutturale elaborato a partire da alcuni principi elementari.

L’elemento centrale nella costituzione dell’unità e dei gruppi di parentela è l’unione matrimoniale. Tutte le società umane a partire da questo si danno regole per definire un’area, più o meno ampia, di evitazione dell’unione matrimoniale. Il divieto dell’incesto rappresenta il principio che consente ai gruppi umani di passare da una condizione puramente naturale, pre-sociale, a una condizione culturale, di uscire dalla natura per collocarsi nella cultura. L’incesto è dunque un’ invarianza transculturale, funzionale e necessaria allo scambio e alla comunicazione tra gruppi umani secondo le modalità della reciprocità; tutte le culture pongono un divieto al desiderio incestuoso e pertanto il tabù dell’incesto si configura come una legge universale. Il tabù dell’incesto consente alla famiglia di stabilire relazioni esterne che rafforzano la solidarietà sociale. La proibizione dell’incesto è la costante universale che segna il passaggio dal puro stato di natura a una società umana seppure minimamente organizzata. In talune società antiche l’incesto era comunque spesso consuetudine nelle famiglie che detenevano il potere, con l’evidente finalità dell’autoconservazione dello stesso.

Il problema del rapporto tra natura e cultura e quello del rapporto tra aspetti strutturali, universali del funzionamento della mente umana e della società e aspetti storici, torna in alcuni scritti degli anni Cinquanta e Sessanta in testi quali Race et histoire del 1952 e Tristes tropiques del 1955. Di particolare importanza è la critica alla visione evoluzionistica delle società umane che per L.-S. sono connotate invece da una ritmicità storica peculiare. Alla contrapposizione etnocentrica e ottocentesca di “primitivo” e “civilizzato”oppone infatti la famosa dicotomia tra “società calde” e “società fredde”, ovvero tra società caratterizzate da un elevato grado di accettazione della dinamicità, dell’evento, del mutamento, e società tese invece a congelare il fluire degli eventi, della storia. Alcune rivoluzioni tecnologiche e culturali insieme a particolari condizioni sociali hanno rappresentato gli eventi che hanno favorito la creazione di aree storiche particolarmente “calde”. Nel vasto corpus di miti amerindiani, lo studioso ha individuato il luogo potente di una logica che informa il complesso sistema di relazioni tra individuo, struttura sociale ed ecosistema, affrontando tale studio in due lavori dedicati alle forme di pensiero che più sembrano caratterizzare le società non occidentali: Le totémisme aujourd’hui e La pensée sauvage, entrambi del 1962.

L.-S. elabora una prospettiva che, rispettando e meglio comprendendo le forme di vita non occidentali, le connette profondamente a quelle che ci sono più familiari. Il “pensiero selvaggio” è una modalità del pensare umano che, comune agli uomini di tutte le culture, caratterizza alcuni settori della nostra società e, soprattutto, le culture non occidentali. Si tratta di una forma logica di pensiero che non agisce per astrazione, per classificazione e sublimazione di qualità, o per gerarchizzazione logica, ma opera partendo da una particolare attenzione alle qualità sensibili del reale considerate nella loro capacità di fungere da segni, per produrre una continua rete di simboli e di significati. In questa ottica i fenomeni di identificazione tra animali o altri esseri e fenomeni naturali e individui e o gruppi, il totemismo, divengono particolari espressioni di questa esigenza concreta e classificatoria, logica e simbolica, del “pensiero selvaggio”.

Per Lévi-Strauss quindi i cosiddetti selvaggi sono più vicini a noi di quanto si possa pensare. Nel segno del distacco dall’etnologia tradizionale, le ricerche  dell’antropologo scelgono come tema un attributo universale dello spirito umano: il pensiero allo stato selvaggio presente in tutti gli uomini, antichi e contemporanei. Il pensiero selvaggio ha esercitato un’influenza decisiva sulle discipline che formano il campo delle scienze sociali ed è oggi considerato un classico dell’etnologia.

La logica del “pensiero selvaggio” è colta nel mito, fenomeno a Lévi-Strauss dedica il suo studio tra il 1960 e il 1970 con quattro volumi Mythologiques: Le cru et le cuit del 1964, Du miel aux cendres del 1966, L’origine des manières de table del 1968 e L’homme nu del 1971. Analizzato da una prospettiva strutturale, il corpus dei miti indigeni amerindiani si rivela organizzato da una logica coerente, pienamente comprensibile quando si assumono le procedure cognitive del “pensiero selvaggio”. Logica che tra l’altro rende comprensibili le trasformazioni cui i miti sono sottoposti nel loro propagarsi da società a società. Terminata l’impresa delle Mythologiques, Lévi-Strauss affrontata problemi di natura estetica già analizzati negli anni Cinquanta con il volume La voie des pasque uscito nel 1975; torna poi sulla parentela con Le regard éloigné e con Histoire et etnologie del 1983 e sul mito con La potière jalouse del 1985 e con Histoire de Lynx del 1991.

In Antropologia strutturale, il più importante testo dell’etnologia moderna, Lévi-Strauss. parte dalla teoria del linguista Jakobson e ne formula una possibile applicazione alle culture: anche tra gli uomini esistono costanti universali, individuabili nel carattere sistematico delle differenze tra i singoli. L’antropologo  quindi è colui che ricerca la struttura, il sistema di regole inconsce che condizionano il comportamento umano. A partire da questa teoria, ogni società viene considerata come insieme di persone che comunicano mediante linguaggi verbali e non verbali e che vive nella storia, cambiando. L’antropologia strutturale si propone come ricerca rigorosa del senso degli insiemi. Ma storia è  davvero solo una delle scelte possibili che gli uomini possono compiere?

Lévi-Strauss riprende l’idea della natura psichica dei fatti sociali: questi sono sistemi di idee oggettive, ma questi sistemi non sono elaborazioni consce, bensì inconsce. Il fondamento ultimo è dato dallo spirito umano inconscio, che si rivela attraverso i modelli strutturali della realtà.

Nel 1973 Lévi-Strauss riceve l’Erasmus Prize e nel 2003 il Meister Eckhart Prize per la Filosofia. Dalle Università di Oxford, Harvard e dalla Columbia University riceve la laurea ad honorem. È stato onorato anche della Grand-croix de la Légion d’honneur e gli è stato attribuito il merito di “Commandeur de l’ordre national du Mérite” e di “Commandeur des Arts et des Lettres”.

 

Exit mobile version