Walter Pedullà. La costruzione del discorso culturale

Il giovane Walter Pedullà era assistente di Giacomo Debenedetti. Appariva già come modello di un rapporto vivo, dinamico, amoroso con i libri: veniva indicato come uno che leggeva “tutto”. Interrogando nei libri la vitalità del presente, riconoscendo in essi le persone, il gioco dei rapporti, degli intrecci, delle possibilità, facendone gli emblemi di un mondo aperto e vitale, di una realtà che tutti
allora sentivamo in movimento verso nuovi orizzonti, verso combinazioni esaltanti.

Ci muoviamo con il tempo e misuriamo il tempo con la passione ed il destino della letteratura. Con il suo lavoro di critico militante e di professore, Walter Pedullà ha saputo fondere insieme come pochi insegnamento e militanza, con la sua instancabile capacità di richiamare le giovani generazioni alla passione per il farsi della letteratura, per le sue sempre diverse e sempre vitali configurazioni.

Fornendo sempre ai suoi ascoltatori e lettori l’assicurazione che immergersi nella letteratura sia qualcosa che ha a che fare con le passioni, i piaceri, i desideri, le gioie, i disastri dell’esistenza individuale e collettiva, privata e pubblica, personale e politica. Dietro ai libri c’erano e ci sono gli scrittori, persone reali, affascinanti o bislacche, che stanno in mezzo alle cose, che si incontrano, si frequentano, si parlano, discutono, litigano, amano e odiano, cercano qualcosa nello spazio del mondo. Walter Pedullà ha saputo farlo immettendo spontaneamente dentro il suo stesso insegnare la sua capacità di essere in rapporto vivo con gli scrittori, di sentire molti scrittori contemporanei come vicini e amici, di dialogare continuamente con loro e con le loro opere.

Pedullà ha sempre vissuto i rapporti umani e intellettuali con un senso dinamico dello scambio personale: ha sempre saputo sentire la letteratura in situazione – qualcosa che chiama in causa i momenti concreti, la fisicità stessa del linguaggio e della realtà che esso interroga e cerca.

Tutti gli impegni pubblici di Pedullà non si sono posti sempre come dirette manifestazioni del suo senso della cultura come concretezza vitale, come “fare” che mette in gioco le persone, che si proietta sulla scena del mondo.

La sua partecipazione agli sviluppi della neoavanguardia, questo entusiasmo; l’aspirazione ad un mondo abitato dalla gioia e dal desiderio, un mondo collocato “più in là”, ma senza perdere le cose che anche qui, nonostante tutto, ci fanno amare la vita. Anche affacciato al “negativo” non scompare la proiezione verso qualcosa di felicemente “altro”.

Walter Pedullà ha guardato al modello del suo grande maestro Giacomo Debenedetti per la sua passione totale per la letteratura e per la sua configurazione umana. Pedullà ha saputo trovare un’affermazione, ha saputo riconoscere una scommessa per una felice configurazione del mondo. Pedullà ha ricordato come in Debenedetti l’acume intellettuale e la disponibilità di lettore si radicassero in una postura esistenziale, in un proiezione psichica e fisica dell’attenzione e del pensiero, in una sofferta interrogazione del destino della letteratura come cifra del destino esistenziale e del destino del mondo.

Walter ha fatto valere la lezione del maestro in una sua personale configurazione: la critica di Debenedetti resta avvolta nella sua distanza elegante, nella sua sofferta problematicità, come un una gestione “tragica” della propria densità stilistica, e resta in definitiva radicata nella lacerazione, nel “negativo”, quella di Walter Pedullà proietta l’orizzonte problematico della contemporaneità verso quella spinta vitale di cui tende sempre ad estrarre dal negativo e dalla contraddizione delle acquisizioni di energia, di apertura cordiale e fidente.

“Sia sempre militante il critico o lo storico letterario che voglia scoprire ciò che mette d’accordo per sempre il testo con il lettore”: Walter Pedullà, si è sempre mantenuto fedele a questa massima che coniuga il rigore del metodo e della vocazione “pedagogica” all’intervento in prima linea nelle ripetute battaglie tra gli integrati e i fautori del nuovo.

All’ampio respiro storiografico dei profili organici sulla letteratura novecentesca si accompagna, nei suoi studi, la perizia nell’arte del ritratto, spesso anamorfico e pluriprospettico, come si conviene all’habitus critico del lettore di professione e del saggista di forte temperamento, che si prende le dovute libertà e non si fa scrupolo di lasciar cadere dalla penna impertinenze.

Walter Pedullà costruisce pazientemente un discorso culturale in senso lato e lo governa di forza nella prospettiva politica che ne risulta. La letteratura del benessere non comporta licenze critiche né celebrazioni di glorie avventizie, ma si testimonia dell’onestà e della concretezza di un approfondimento verticale, incalzante e severo, forte d’antichi umanismi e appassionato del nuovo.

Anziché elaborare una teoria, e al di là dell’apparenza di un bilancio, Pedullà propone un protagonismo intellettuale che s’assume i dati sparsi di un panorama culturale, richiamati ad un confronto individualizzante che li vivifica, lo fornisce di un senso che solo parzialmente detengono, li costruisce alla fine di una esperienza complessiva di critico militante.

Il critico calabrese non vuole perdonare chi “contrabbanda per amore della poesia un pusillanime redditizio e solo incosciente disimpiego ideologico e culturale”, ma indica significativamente nella presenza politica e nell’attenzione ferma alla realtà sociale i compiti precipui dell’intellettuale.

“L’irrinunciabile valore della ragione” si esercita sempre più torturando testi altrimenti muti, sia che scelgano di negarsi, sia che approdino a “un’inutile prevaricazione al silenzio”, negandosi di fatto, con la rinuncia alla propria storia. Il debito riconosciuto nei confronti di Debenedetti costituisce un punto di riferimento sicuro, e si rinnova quotidianamente come ossequio di un magistero irripetibile e affascinante, decisivo al punto di determinare la propria continuazione. Per Pedullà è sempre più evidente che l’opera non può acquisire i suoi significati e la sua completezza che con la collaborazione invadente del critico, il quale si trova ad essere l’unico scrittore non dimidiato, l’unico continuatore della grande letteratura, capace di reintrodurvi la passione politica e morale, la razionalità e la storia.

Renato Serra e la letteratura come oggetto di consumo

Nel critico letterario Renato Serra vi è sempre stato un bisogno di trovare nei romanzi che leggeva, nelle ragioni per cui li amava, le garanzie del verismo. Nelle Lettere, il critico italiano affronta la narrativa precedente al 1914 e parla di prosa d’arte e diversamente da quello che si è convenuto dieci anni dopo, quando i modelli divennero i prosatori non narrativi della <<Ronda>> e i Pesci rossi di Cecchi, intende “romanzi e novelle e simili cose”. E subito lo spettacolo gli si presenta piatto, opaco tale da scoraggiare ogni buona intenzione di distinguere correnti e indirizzi ideali.

Tutto è inutile ormai, visto che si è logorato il solo modello che poteva garantire esistenza e significato al romanzo, cioè al verismo. Oltre la constatazione dell’esaurimento del verismo, c’è un’altra premessa che nel 1914 può destare stupore: insomma Serra vede nella narrativa dei suoi giorno, l’influsso, sempre abbastanza preoccupante di quella che potremmo chiamare una specie di industria culturale. Nel 1914 ovviamente non si poteva ancora parlare di civiltà di massa originata dal neocapitalismo o dal socialismo; ma gli anni di relativo benessere a cui la politica democratica e radicaleggiante di Giolitti aveva portato l’Italia, erano riusciti anche a fruttare una certa promozione del ceto medio. Una delle conseguenze era stato l’allargamrnto del pubblico leggente e un affinarsi dei propri gusti.

Il “censimento” di Renato Serra

A tal proposito, in riferimento all’esigenza di dimostrare questi fatti attraverso un’accurata analisi sociologica, Serra, che davvero non si confonde con la sociologia, abbozza per tocchi descrittivi e pittoreschi un censimento: vede gli impiegati, le ragazze che lavorano, sarte, cassiere, commesse, piccoli borghesi a metà strada tra un mestiere e una professione. Queste reclute della lettura  creavano l’esigenza di una diversa e più abbondante offerta di materiale di consumo, soprattutto di narrativa, atta a soddisfare le aspirazioni intellettuali più ambiziose di quelle a cui erano andati incontro i romanzi di appedice con il loro smodato carico di romanzesco e di sviluppi a sorpresa. Serra, nella sua acuta sensibilità, si inventa addirittura una di quelle applicazioni del linguaggio degli economisti oggi sfoggiate dai tecnologi della cultura: <<Da noi la letteratura è un oggetto di consumo>>.

Insomma: era una sempre più numerosa clientela piccolo-borghese a comprare libri e a fabbricarli e a metterli sul mercato provvedeva molto meno l’editoria libraria che quella giornalistica; e lo scrittore era condizionato da questi committenti (periodici e quotidiani). Dato questo discorso, diventa addirittura un corollario l’affermazione che Serra pone come premessa: <<Romanzi e novelle ormai in Italia hanno realizzato il tipo unico con una felicità da fare invidia ai produttori di vino toscano>>.

Gli influssi simbolisti sulla narrativa italiana del 1914

Esistono naturalmente degli scrittori che si leggono più o meno volentieri, ma in sostanza, secondo Serra, il tipo della merce non cambia, tanto che si può addirittura determinare la formula di quella narrativa, riconoscere in una sorta di uguaglianza generale, “l’uniformità dello stampo”. Cosa si trovi in questo stampo è analizzato da Serra con grande attenzione; egli sostiene che c’è prima di tutto, del Maupassant e dello Zola, poi del Verga e anche del D’Annunzio e del France. Influssi di cose più moderne non si avvertono, perché gli stranieri più vicini, come Kipling o Rolland sono stati letti e hanno fatto chiasso, ma senza un effetto vero e proprio.

Serra poi nota in questa prosa narrativa tracce del cosiddetto simbolismo e decadentismo della poesia francese che in Italia è stata solo letta ed invidiata. In parole povere Serra non vede un romanzo simbolista che si sia sostituito alla narrativa precedente, ne abbia modificato l’impianto: senso dei personaggi, valore delle vicende in rapporto ad un nuovo sentimento totale della vita e del mondo; riconosce unicamente delle influenze di scrittura esercitate dai poeti del simbolismo. Si potrebbe dire che Serra sarebbe stato disposto ad ammettere in quella narrativa italiana corrente e piuttosto commerciale  un’eccedenza di eleganza e raffinatezza, pensiamo ad esempio alle analisi di Leo Spitzer del simbolismo francese.

Altri iflussi registrati da Serra nella narrativa del 1914 sono la curiosità snobistica di Bourget e certe “novità portate dal linguaggio della cronaca mondana e sportiva”. Le richieste e aspirazioni del nuovo lettore di narrativa, di cui Serra avverte in se la presenza, non miravano al nuovo, ma di certo non si interessavano al vecchio. Dal punto di vista superficialmente economico secondo il quale  l’offerta del produttore è condizionata dalla domanda del consumatore, questo spiegherebbe perché i maggiori narratori del verismo si presentassero ormai come stanchi epigoni e continuatori di se stessi. Il perché probabilmente va ricercato nel nuovo rapporto tra uomo e universo, che si manifesta in tutti i campi della conoscenza, soprattutto nella scienza. Ma Serra non va in cerca di questi perché, si limita a constatare e a descrivere i fenomeni, vedendo in una solitudine sempre  più distaccato Giovanni Verga non più in grado di rigalvanizzare il verismo: <<Il maestro del verismo di perde, ma lo scrittore grandeggia>>. Sempre vivo Luigi Capuana sebbene non aggiunga nulla di rilevante al verismo. Bisogna anche sottolineare come a questo tipo di verismo sia ascritta anche la narrativa di Pirandello, citata come qualcosa di non molto differenziato.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

 

Albert Camus e l’assurdo: quando il destino ci appartiene come le tragedie della vita

Per dibattere intorno alle ragioni dell’esistenza nel Novecento, nulla era più utile del colloquio con una delle personalità più rappresentative e attuali di una stagione irripetibile dl’Europa, quella di Albert Camus, in cui il critico piemontese Giacomo Debenedetti individua l’emblema dell’interrogazione radicale dell’uomo occidentale alla ricerca di se stesso in un contesto ostile. Nel saggio dedicato al grande scrittore francese, il discorso si struttura tra le due nozioni contrapposte di “avventura” e “destino”; la prima è essere gettati nel mondo senza punti di riferimento, senza padre, madre, Dio e trovarsi nella solitudine circondati dalla foresta di cui non si conoscono più i sentieri. La seconda consisterebbe invece nel proseguire questa ricerca fino in fondo riconoscendo ed abbracciando la dolorosa opera come propria. L’uomo occidentale ha distrutto ogni certezza, ma è nella fase dell’avventura, è solo e turbato, incapace di vivere nel mondo.

Albert Camus e l’esistenzialismo

I temi dell’esistenzialismo hanno raggiunto al cuore le desolazioni che gli uomini di oggi sperimentano nel loro buio, ma come ha notato Albert Camus, molti filosofi esistenziali di fronte alla ragione umiliata dal non poter dare una risposta ai perché del mondo, abdicano ad essa: in Dio o nell’essere trascendentale o nelle essenze extra-temporali. Camus no. Con grande ostinazione, egli si aggrappa all’unica certezza dell’assurdo, che non è una verità che si dimostra logicamente, ma una sensazione che si manifesta in modo evidente all’uomo e che scaturisce dall’incontro tra ciò che è umano, la ricerca di senso e di unità, con il mondo irrazionale, con cui si può convivere o da cui bisogna fuggire attraverso il suicidio. Ma fuggire significa sopprimere l’assurdo e la sola opzione possibile è quella di vivere in un mondo dove non ci sono ragioni di vita. Il discorso del Mito di Sisifo ne segnala il coraggio presentando le tre regole della rivolta, della libertà e della passione. Più cordiale risulta la considerazione di Debenedetti riguardo a Lo straniero e del suo protagonista, personaggio profondo fino a toccare “le radici di un essere predestinato alla rivelazione dell’assurdo”. Alle spalle dell’avventura assurda c’è Freud con la sua presa d’assalto della centrale dei divieti. I comportamenti di Meursault esprimono della loro apparente gratuità, un segreto che si nasconde in una zona anteriore alla rivelazione dell’assurdo. Il suo disastro è “una guarigione sbagliata , la sua malattia è la madre”, intesa come sistema di autorità e di divieti cui l’uomo continua a subordinarsi. Chiudendola in un ospizio il protagonista del romanzo, allontana la madre da sé unicamente dal punto di vista fisico e solo alla sua morte, vorrà dimostrarsi che non esistono più divieti. Come Sisifo, Meursault diviene l’autore del suo destino.

Dice infatti Albert Camus: “C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia”. Per lo scrittore francese gli argomenti etico-religiosi e sociali tradizionalmente invocati contro il suicidio non valgono perché la vita non ha valore intrinseco, e la realtà ” è senza ragione ” e la morte è comunque l’esito che aspetta ogni essere vivente. La dimensione costitutiva dell’esistenza umana è dunque l’assurdità: le cose e gli eventi non hanno senso, e gli atti umani sono sempre inadeguati in riferimento alle possibilità e ai desideri che ha l’uomo. Prosegue Camus: “L’assurdo è un peccato senza Dio” . Il suicidio quindi è resa all’assurdo, di cui si deve invece prendere coscienza per impegnarsi a vivere nel modo più pieno possibile. Se ci si arrende all’assurdo, allora tutto diventa possibile e giustificabile.

Infatti, in opposizione al suicidio, l’autore auspica un’etica fondata sul “vivere” più intensamente, nel senso di «trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile»; in questo senso la vita dell’uomo ha valore in relazione ai grandi progetti che è capace di realizzare. Non a caso Camus chiude con la figura di Sisifo felice e la felicità è l’altra faccia della medaglia dell’assurdo. Tutta la gioia di Sisifo risiede nella consapevolezza che il destino gli appartiene come le tragedie della vita.

Tale ragionamento si approfondisce nel saggio Personaggi e destino in cui si individuano nell’epica moderna due momenti: l’epica della realtà e l’epica dell’esistenza. La crisi dell’epica della realtà è segnata per Debenedetti dalla rivolta, dallo “sciopero dei personaggi”, dalla loro richiesta di nuovi diritti nei confronti dell’autore.

 

Bibliografia: Angela Borghesi, La lotta con l’angelo.

L’intellettuale dissidente

Albert Thibaudet e gli ordinamenti della letteratura

Storia della letteratura- Thibaudet. Quale periodo si deve abbracciare per lo studio del romanzo italiano contemporaneo? Fissare i limiti di un periodo storico significa sempre accettare date convenzionali, scelte per opportunità pratica, ma è facile, come afferma Giacomo Debenedetti, che diversi osservatori possano vedere in quella convenziona un arbitrio. Ad esempio è utile oltre che comodo, far cominciare la penultima epoca storica dalla rivoluzione francese; ma quante premesse, quanti fatti dell’età borghese che si sono avverati, si lasciavano fuori con quel taglio crudo che occorreva per ristabilire il punto di inizio dell’anno 1789? Storici rigorosi, come Tocqueville hanno dimostrato quanto quella data convenzionale fosse arbitraria. Esiste inoltre una contemporaneità come sentimento personale e una come valutazione cronologica. Ma contemporaneo vuol dire anche coetaneo e ciò ci lascia concludere che, dovendo studiare un fenomeno letterario contemporaneo, la data di arrivo deve essere quella più vicina possibile.

La data di partenza è sempre problematica, non sempre si riesce a trovare un fatto peculiare, dei segni nella continuità del tempo e per il romanzo, a differenza della poesia, risulta ancora più complesso. Se accettassimo l’idea che il romanzo italiano contemporaneo rientra in un divenire letterario, ci ritroveremo di fronte ai problemi ricorrenti che si ripresentano ogni volta che si tenta di ricostruire un aspetto della storia letteraria.

Tali problemi sono stati esposti con singolare intelligenza ed ingegno dal critico francese, allievo di Henri Bergson e tra i fondatori della cosiddetta Scuola di Ginevra, Albert Thibaudet (Tournus, 1º aprile 1874 – Ginevra, 1936), nella prefazione alla sua Storia della letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni, libro uscito postumo.

Sostiene Albert Thibaudet: le Belle Lettere, i libri che si leggono e si gustano, non bastano ancora a fare una letteratura, che è uno Stato, un ordine, una gerarchia, un susseguirsi logico che si stabilisce mediante il ripensamento, la conoscenza sistemica e organizzata di opere e di autori. Lo schema, l’archetipo per eccellenza secondo il critico francese è quello di uno dei discorsi più famosi che siano mai stati scritti in Francia, Il discorso sulla storia universale di Bossuet, diviso in tre capitoli: Epoche, Concatenamento, Imperi.

La divisione per epoche letterarie contraddistingue tali epoche datandole in base ad un importante evento letterario: in Italia, ad esempio, la Divina Commedia o l’Orlando furioso; gli scrittori rivestono un’importanza quando fanno epoca. Trasferendo tale sistema al romanzo contemporaneo, dateremmo questa epoca con Gli indifferenti di Moravia o meglio ancora con Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno di Svevo. Tuttavia il sistema delle epoche opere ad influsso ritardato, si pensi ad esempio a Verga, rivalutato solo dopo la sua morte.

L’altro sistema di ordinamento storico della letteratura è quello che si basa sul concatenamento, il quale cerca di tracciare una storia letteraria costruita in modo che le opere sembrano chiamate ad attuare una certa idea superiore lottando contro ostacoli e difficoltà; in tal senso potremmo considerare la narrativa moderna e contemporanea italiana come una storia del progressivo affermarsi del realismo. Si potrebbe dunque partire da Federigo Tozzi, o da Giuseppe Antonio Borgese con il suo Rubé, il quale, prendensosi qualche rischio, ripropone la dignità letteraria del genere romanzo.

La poetica del realismo è attualmente la più storicamente opportuna, da essa sono nate le opere di maggiore importanza; nel realismo narrativo entrano racconti e romanzi che il vulgar realismus considera astratti, si pensi al Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda.

Il terzo tipo di sistema proposto da Thibaudet per periodizzare una storia letteraria è quello che si fonda su un succedersi di imperi, ciascuno dei quali è rovesciato da una guerra letteraria o da una rivoluzione e al quale succede un nuovo impero. Questo tipo però si può applicare correttamente solo alle grandi estensioni temporali, seppur non privo di suggestioni: il futurismo ad esempio ha rovesciato l’impero della letteratura degli accademici, la nuova poesia quello del dannunzianesimo.

Il sistema di Albert Thibaudet ha molti punti in comune con quello italiano, ma il critico francese, nel trattare un periodo relativamente breve, poco più di un secolo e mezzo, opta per una quarta via: l’ordine per generazioni che, come afferma lui stesso, “ha il vantaggio di seguire più da vicino il procedere della natura, di coincidere con maggiore fedeltà con il cambiamento imprevedibile e la durata viva, di meglio adattare alle dimensioni ordinarie  della vita umana, la realtà e il prodotto di un’attività umana”, quale è appunto la letteratura. In questo modo, si troverà più facilmente la data di partenza del romanzo italiano contemporaneo: siamo nel 1960, sottraendo i 30 anni della presente generazione, si troverebbe come data di inizio il 1930, anno infatti che concerne il romanzo italiano. Ritroviamo intorno a questo anno fatti e opere capaci di fare epoca: la riscoperta di Svevo nel 1925, l’uscita degli Indifferenti nel 1929.

La domanda qui sorge spontanea: perché in quel momento si è potuto rivalutare il fino ad allora ignorato Italo Svevo? Semplicemente perché era nato nei critici quel gusto del romanzo che nello scrittore triestino era innato.

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

Personaggi e destino nel romanzo del ‘900

“Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l’uomo e il suo destino”. Queste parole del critico Giacomo Debenedetti registrano acutamente i mutamenti dell’assetto del romanzo del ‘900, muovendosi in quella terra di nessuno nella quale pare essersi lacerato il ruolo storico dell’“epica della realtà” senza che vi abbia trovato spazio l’“epica dell’esistenza”.

Debenedetti ha indicato in Proust, Pirandello, Kafka, Svevo, Joyce i testimoni esemplari di una crisi dell’epica della realtà, epica che ha caratterizzato il romanzo ottocentesco con il suo naturalismo e che nel ‘900 si risolve in “rivolta dei personaggi“, non più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. I personaggi “scioperano”, desiderano l’autonomia letteraria. Tale tema, già analizzato da Debenedetti nel saggio L’avventura dell’uomo d’occidente (1946), è oggetto in Personaggi e destino, “di un ripensamento non neutrale alla luce delle risposte successivamente offerte dalla psicoanalisi e dall’esistenzialismo: la ratifica dello scarto che separa l’ottimismo progressivo di Freud dalle diverse filosofie dell’assurdo è compiuta da Debenedetti opponendo alla distruzione di ogni nesso tra personaggio e vicenda prodotta dalla morale provvisoria degli esistenzialisti” (F. Contorbia).

Nell’epica moderna quindi vi sono due specie di romanzo, la prima è rappresentata dall’epica della realtà, la seconda dall’epica dell’esistenza. Nella prima vediamo il personaggio muoversi in un mondo con il quale c’è ancora una possibilità di intesa reciproca, l’uomo è fiducioso, riesce a concepire un collegamento tra se e il mondo, riuscendo a dare delle spiegazioni ai problemi che gli si presentano. Nell’epica dell’esistenza invece il personaggio è abbandonato da tutto e ciò che gli succede è visto come qualcosa di assurdo e inspiegabile. Non c’è più un collegamento, una possibile intesa tra uomo e mondo. Ma la stessa epica della realtà, è davvero riuscita a trovare le favole giuste per i propri personaggi? Per un po’ di tempo era sembrato che l’America avesse inventato un nuovo repertorio di queste favole, ma anche quel tipo di mitologia moderna ha accusato i colpi del tempo e appare stanca, usurata. L’epica della realtà ha trovato i suoi più validi protagonisti in Zola, Vittorini, Pavese, Flaubert e ha vinto ma come le è accaduto di morire?

Sono stati tentati dei prestiti di linguaggio, innesti di vite americane, per sollecitare il punto di intesa tra romanzo nostrano e quello d’oltreoceano. Pensiamo ad esempio a Paesi tuoi di Pavese: il passo all’americana impresso ad alcuni contadini piemontesi consente che il loro muoversi risuoni come qualcosa di straniero, ma la persuasione è più nell’autore che nei personaggi. Il Vittorini della Conversazione in Sicilia ha vinto la sua partita sfogando nel surreale la carica che il linguaggio aveva addensato nel protagonista. L’epica della realtà dunque ha avuto una scossa. Ma poi ha fatto capolino il problema dell’assurdo: l‘epica della realtà e dell’esistenza possono apparentemente influenzarsi, ma sostanzialmente si escludono. Si giunge inevitabilmente a Proust, tra gli scrittori più amati da Debenedetti: ci aiuta infatti la piccola lapide in memoriam che l’autore de La Recherche ha posto all’epica della realtà in uno dei saloni della Marchesa di St. Euverte, mentre si svolge la scena dei monocoli. M. de Breauté domanda: “Come, caro, voi qui? Ma che potete aver da fare voi qui?” ad un romanziere mondano da poco installatosi all’angolo dell’occhio di un monocolo e che risponde con aria misteriosa: “Osservo”. I personaggi di Dalla parte di Swann appartengono all’ultimo ventennio del secolo scorso ma Proust scriveva nel primo ventennio del nostro ed è palese che proietta su quel passato le opinioni del suo presente. E allora cosa è accaduto in meno di quarant’anni? Quel fatto, dice il critico piemontese, che si chiama Proust, Pirandello, Joyce nelle cui opere si pronuncia una rivolta dei personaggi i quali non sono più disposti ad accettare i loro precedenti rapporti con l’autore. Il personaggio reclama i propri diritti, non vuole più essere trattato come un fenomeno di fisica; Proust seguita a dichiarare che sta cercando delle leggi, ma in lui si è potuto vedere quasi immediatamente il cosiddetto“sciopero dei personaggi”. In effetti i personaggi di Proust, vivi come sono, finiscono col fare coro per testimoniare una finalità, una destinazione del vivere che non vale per essi, ma per il loro autore. Proust conduce l’autore ad una delle più alte esperienze religiose del ventesimo secolo.

Pirandello invece è lui ad esigere la rivolta dei personaggi, animato da profondo dolore e passione per le sue creature troppo smaniose e vive, che, pur di stare nel mondo, accettano di contraddirsi e si sa quale sentenza di patimento il grande scrittore siciliano pronunciava contro quella smania di vivere. Joyce invece, nel suo Ulisse, usa il metodo opposto: cerca di lenire il male dei personaggi che hanno perso il mondo della sicurezza, i destini a chiusura garantita, di cui godevano al tempo di Zola e di Maupassant, ed esprimono la loro sofferenza, appunto, con la rivolta. E cosa propone Joyce ai suoi personaggi? Di identificarsi psicologicamente con gli eroi dell’Odissea; sulle ermetiche pagine dell’Ulisse, questa soluzione “magica” dello scrittore irlandese può apparire complicata ma in realtà è molto semplice. Nel punto stesso che constata la crisi dei personaggi, Joyce offre anche una via di accomodamento, perlomeno provvisoria. La soluzione provvisoria di Joyce è stata ripresa anche dai nostri contemporanei, nota Debenedetti, ogni volta che la crisi dei personaggi diventava sempre più aggrovigliata.

Una grande stagione di epica della realtà era morta di questa crisi, probabilmente, solo Zola, distinguendo un tempo dell’immaginazione e un tempo di senso della realtà, segnava i corsi e ricorsi della storia dell’epica. Tocca infatti all’immaginazione prestare i suoi servizi, inventando storie piacevoli affinché l’homo sapiens, accetti l’invasione nello spazio della propria vita, dell’homo fictus, nato da una massa di parole. Ma se il personaggio è tornato uno sconosciuto e il patto è rotto, è necessario riconciliarsi nuovamente. L’epica della realtà cerca di prolungare i suoi giorni guardando stupita le risposte dei suoi personaggi, mentre l’epica dell’esistenza approfitta della condizione di “sconosciuto” dei propri personaggi, compiendo il lavoro che toccherebbe all’immaginazione.

Vi è una sola famiglia di nuovi personaggi che consolida l’epica della propria realtà ma probabilmente Kafka è riuscito proprio per le ragioni per le quali altri hanno fallito. Egli ha obbedito con grande zelo al dettame dell’Antico Testamento: “Non ti farai simulacri del dio ignoto”. Ha avuto il coraggio di rinunciare a ogni garanzia e aiuto della realtà prestabilita; dietro la materia opaca e invisibile, il personaggio di Kafka somiglia solo all’invisibile delle proprie angoscie e conflitti. La differenza tra Kafka e i romanzieri esistenzialisti italiani, è che lui, arrivato sugli orli dove si apre lo spazio non più euclideo,, ha guardato senza soffrire di vertigini e non ha più chiesto riferimenti alle forme della buona geometria che misurava la Terra. In parole povere, e qui entra in gioca la psicoanalisi di Freud (“Tu soffri, ti incolpi e ti umilii del tuo male di vivere. Danne invece la colpa al padre; è stato lui a fabbricare il coperchio di divieti, con cui reprime il naturale, sacro ribollire dei tuoi istinti e lo ricaccia nel fondo a fare da corpo estraneo”. Non è vero che il padre se ne sia andato, è stato più maligno. Si è nascosto nell’angolo buio per continuare a farti soffrire con i suoi divieti, senza più aiutarti con la sua presenza”), è il figlio che ha perso il padre e della propria orfanezza e degli squallori della solitudine, fa la sua nuova condizione umana, con uno spietato coraggio che non scende a compromessi con la nostalgia.

 

Bibliografia: G. Debenedetti, Saggi, a cura di F. Contorbia.

Giovanni Macchia: il francesista italiano

Giovanni Macchia (Trani 1912 – Roma 2001), è stato un critico e saggista italiano che ha curato edizioni di autori italiani e francesi, e pubblicando numerosi saggi di solida impostazione storica, critica e psicologica, accompagnata da una piacevole narrazione.

Macchia è stato professore di letteratura francese alla Scuola normale superiore di Pisa dal 1938 al 1947 poi all’Università di Catania e dal 1949 all’Università di Roma. Nell’ateneo romano fonda, nel 1952, l’Istituto di storia del teatro e dello spettacolo. Si è dedicato a studi su Baudelaire con i testi Baudelaire critico del 1939, Baudelaire e la poetica della malinconia del 1946 e a Marcel Proust con L’angelo della notte, del 1979, Proust e dintorni, del 1989). I saggi di Macchia sono di solida impostazione storica e di fine interpretazione critica e psicologica, nei quali la acuta perizia esegetica accompagna una notevole e piacevole dote narrativa. Il critico approfondisce e rinnova i principali problemi della letteratura francese studi raccolti successivamente in La letteratura francese, I. Dal Medioevo al Settecento del 1987; un’attenzione particolare è riservata agli aspetti “anticartesiani”, alle zone d’ombra, ai miti, ai poeti satirici della letteratura francese nascono da questi riflessioni Il paradiso della ragione del 1960, La scuola dei sentimenti del 1963, Il mito di Parigi del 1965, I fantasmi dell’opera del 1971 e Le rovine di Parigi del 1985 e Il naufragio della speranza: la letteratura francese dall’illuminismo all’età romantica del 1994.

La stessa cura e lo stesso zelante impegno prevalgono anche nei suoi studi di letteratura italiana nel suo Manzoni e la via del romanzo (1994) in Saggi italiani del 1983 e in altri saggi aperti all’indagine comparativa come I moralisti classici (1961) La caduta della luna e Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, Scenari secenteschi (1989) Elogio della luce del 1990. Il suo amore per il teatro e la musica rivela la sua vivacità nei volumi dedicati al teatro francese con Il teatro francese del grande secolo (1960), Vita, avventure e morte di Don Giovanni (1966), Il silenzio di Molière (1975), Pirandello o la stanza della tortura (1981), e il particolarissimo Il principe di Palagonia: mostri, sogni, prodigi nelle metamorfosi di un personaggio, del 1978 che esplora i confini tra arte e follia.

Vanno  ricordati inoltre gli studi raccolti in Scrittori al tramonto: saggi e frammenti autobiografici del 1999 libro in cui Macchia si sofferma sul sentimento della fine indagando alcune pagine di grandi scrittori e il volume La stanza delle passioni: dialoghi sulla letteratura francese e italiana.
Pubblica un volume di ricordi dal titolo Gli anni dell’attesa (1987) e cura un’antologia dei suoi scritti uscita col titolo Il teatro delle passioni del 1993, dove il critico in modo perfettamente simmetrico, ma senza contrapposizioni polemiche, definisce l’opera come la “teatralizzazione dell’umano”, ed introduce uno di quei paradigmi rivoluzionari che comportano una serie di reazioni a catena: prima di tutto, il testo cessa di essere un oggetto chiuso su di sé, autoreferenziale, e diventa un oggetto mentale infinitamente esplorabile. In secondo luogo esso cessa di essere un mero “effetto di linguaggio”, frutto di sperimentazioni tecniche nel chiuso di sofisticati laboratori, e diventa il “luogo” enigmatico in cui si esaltano sensazioni, impressioni, emozioni e relazioni appassionate che s’incarnano in figure e immagini, personaggi e fantasmi. Si potrebbe affermare che, per la teoria della letteratura, questo ultimo lavoro di Macchia rappresenta quel che, nel campo della filosofia, è stata “La crisi delle scienze europee” di Husserl (Cacciavillani). L’intero percorso critico dello studioso è ricostruito nel volume dal titolo Ritratti, personaggi, fantasmi (a cura di M. Bongiovanni Bertini, del 1997).

Macchia è stato dunque un critico dagli ampi e appassionati orizzonti, lo si può certamente definire uno dei maggiori francesista del secolo. Accademico dei Lincei, vince nel 1963 il Premio Marzotto, nel 1980 il Premio Bagutta, nel 1988 il Prix Médicis essai; nel 1990 riceve la Legion d’Onore e nel 1992 il Premio Balzan per la storia e critica delle letterature infine nel 1995 ha ricevuto la Penna d’Oro della Presidenza della Repubblica Italiana. Nel 2000 ha ricevuto il Grand prix de la francophonie, premio istituito nel 1986 dall’Académie française e destinato a coloro contribuiscono con la loro opera a illustrare e diffondere la lingua e la cultura francese nel mondo. La sua biblioteca formata da circa 30 mila volumi è stata donata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Al fondo Giovanni Macchia è riservata una sala apposita della sede di Castro Pretorio.

Come ha giustamente evidenziato Eugenio Montale, Macchia è uno di quei saggisti tipicamente italiani che sanno contemperare l’analisi psicologica e il giudizio estetico con un vivo senso della prospettiva storica.

Giuseppe Antonio Borgese, il critico della fortunata formula ‘tempo di edificare’

Di temperamento focoso e geniale, abile manovratore dialettico (con le sue schematizzazioni e spesso semplificazioni), il critico letterario, scrittore e giornalista Giuseppe Antonio Borgese (Polizzi Generosa, 12 novembre 1882 – Fiesole, 4 dicembre 1952) si è distinto per il suo gusto per gli scorci e per le sintesi fulminee, di sicura efficacia sul lettore, ma talvolta anche critico imprudente e disinvolto. Ha sempre trovato la frase giusta Borgese, quella definitiva che teneva a battesimo il fenomeno letterario; è stato lui infatti a coniare le fortunate formule di “poesia crepuscolare” e “tempo di edificare” in riferimento all’auspicato ritorno del romanzo che coincide con un “nuovo tempo” dell’intera letteratura italiana.

Negli anni 1899-1900, su pressione del padre che lo vuole avvocato, si iscrive alla facoltà di Legge a Palermo, ma già nel 1900 si trasferisce a Firenze dove segue i corsi di Vitelli, Rajna, Villari e Mazzoni. L’anno successivo inizia la collaborazione all’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» di Pitrè e, di lì a poco, anche al «Regno» di Corradini e al «Leonardo» di Papini, mostrando negli scritti critici un’impronta estetica di matrice crociana. Nel 1903 Benedetto Croce recensisce positivamente su «La Critica» due interventi di Borgese relativi all’opera di Gabriele D’Annunzio e sarà proprio Croce che pubblicherà la sua tesi di laurea, discussa a Palermo: Storia della critica romantica in Italia. Nel 1903, Borgese fonda la rivista «Hermes», che avrebbe proseguito le pubblicazioni fino al 1906 e sulle cui pagine compaiono le sue prime prose; nel 1908 pubblica una raccolta di liriche presso Ricciardi, ma mai messa in commercio per sua volere.

Tra il 1907 e il 1908, Borgese si reca in Germania in qualità di giornalista presso <<Il Mattino>> di Napoli e qui conosce Hauptmann e la musica tedesca che gli permettono di scrivere articoli e saggi per una cultura italiana. Da questa esperienza nasce il volume La nuova Germania che raccoglie le corrispondenze pubblicate sui due quotidiani. Sono questi gli anni in cui Borgese si afferma come il punto di riferimento probabilmente più significativo, in Italia, per la “critica militante”.

Contemporaneamente inizia la carriera accademica, con la nomina a docente di letteratura tedesca all’Università di Roma. Nel 1912 comincia la collaborazione al <<Corriere della Sera>> che avrebbe mantenuto fino alla morte. Comincia anche la rottura con Croce e in questo periodo si collocano due fra i più importanti contributi saggistici di Borgese: le tre serie di La Vita e il Libro e Studi di letterature moderne oltre alle due riviste da lui fondate «La Nuova Cultura» e «Il Conciliatore». Durante la seconda guerra mondiale il critico svolge anche delicate missioni diplomatiche, sotto le direttive del sottosegretario alla propaganda Romeo Gallenga Stuart.

Nel 1918 Borgese dà vita, a Roma, al “Congresso delle nazionalità oppresse dall’Austria-Ungheria”, che rappresenta, di fatto, una diversa piattaforma per le trattative di pace. All’inizio degli anni Venti, a causa della delle posizioni politiche e degli ideali di Borgese, vengono a deteriorarsi anche i rapporti con il Corriere della sera.

La sua produzione artistica si arricchisce, fino al 1931, di numerose opere, tra romanzi, racconti, drammi teatrali, prose di viaggio, saggi critici e storici: Tempo di edificare, Ottocento europeo, Il senso della letteratura italiana, Poetica dell’unità. Il critico si domanda come si possa spiegare il decadimento del gusto di questi anni e dopo aver espresso chiaramente  che quel decadimento coincide con il frammentismo, risponde in maniera sbrigativa, che esso è un aspetto sincrono e concomitante di tante altre decadenze e che quindi non c’è bisogno di spiegarlo.

Nel 1931 la svolta: Borgese si imbarca alla volta degli Stati Uniti, accettando l’invito di trasferirsi a Berkeley per tenervi una serie di lezioni come professore in visita all’Università della California Berkeley. Il soggiorno accademico si trasforma ben presto in un volontario esilio, durato fino alla fine della guerra, per il rifiuto opposto all’ingiunzione di prestare il giuramento fascista, in qualità di docente universitario. Nell’agosto 1931, infatti, il regime impone il giuramento di fedeltà ai professori universitari del Regno. Su 1251 accademici solo 13 si oppongono e rinunciano alla cattedra, tra i quali Borgese, ovviamente, anche se il suo rappresenta un caso particolare in quanto in questo periodo si trova ad insegnare in America alle dipendenze del Ministero degli Esteri e il giuramento di fedeltà al fascismo non gli era stato richiesto.

In America il critico comincia una nuova vita: insegna storia della critica ed estetica all’Università di California, Berkeley, dal 1932 al 1936 letteratura italiana e letteratura comparata allo Smith College di Northampton, e all’Università di Chicago, dove rimane fino al 1948. Dal 1931 al 1934 continua a collaborare con il «Corriere della sera» attraverso articoli sull’America. Nel 1938 ottiene la cittadinanza americana e 1939, dopo il divorzio dalla moglie si unisce in seconde nozze con la figlia di Thomas Mann, Elisabeth.

In America Borgese si dedica con passione anche all’attività politica. Nel 1939 con Gaetano Salvemini e altri antifasciti italiani, Borgese fonda la “Mazzini Society”, un’associazione nata per difendere gli ideali democratici, far conoscere in America le condizioni dell’Italia e fornire un aiuto agli esuli e proprio in questi anni nasce uno dei testi più importanti dell’ultimo Borgese: Goliath, The march of Fascism (New York, 1937), un’indagine sulle ragioni e le caratteristiche del regime fascista. Insieme a Richard McKeon si fa promotore dell’attività del “Comitato per la Costituzione mondiale”, volto alla realizzazione di un “Governo mondiale”, un modello di governo unitario.

Nel 1948 Borgese rientra per un breve periodo in Italia e l’anno successivo risale trionfalmente sulla sua vecchia cattedra di estetica all’Università di Milano. Nello stesso anno compare la traduzione italiana del Disegno preliminare di Costituzione mondiale. Fra le opere di saggistica critica, storico-letteraria ed estetica maturate nell’ultimo periodo e alcune pubblicate postume, sono degne di menzione: Problemi di estetica e storia della critica (1952); Da Dante a Thomas Mann (1958), per quanto riguarda la poesia e i racconti: Poesie (1952) e la raccolta di novelle La Siracusana  (1950), nel 1952 vince l’alto riconoscimento del Premio Marzotto per la critica. Muore improvvisamente a Fiesole la notte del 4 dicembre di quello stesso anno.

In una lapide apposta nel centenario della nascita nel Comune di Polizzi, è scolpito: A GIUSEPPE ANTONIO BORGESE – POETA, NARRATORE, CRITICO E POLITICO CHE VOLLE L’UNITA’ DELL’ARTE E DEL MONDO.

Il quadro che Borgese ha tracciato della sua generazione è una sorta di rimprovero (e rimpianto) alla generazione stessa, di essersi perduta a guardare in modo passivo le opere degli altri, con saccenteria pettegola. Il critico ce l’aveva sia con gli autodidatti che con Croce (oltreché con Pascoli), che lo aveva prima salutato con entusiasmo e poi abbandonato in quanto voglioso di contrapporsi persino alla teorizzazione dell’estetica.

Per Borgese l’opera vera è il romanzo, il dramma e non a caso egli abbia aperto la rubrica Le mie letture proprio con la lettura di romanzi, tra i quali spicca il primo romanzo del poeta Marinetti, L’isola dell’amore; in Borgese, studioso di letterature straniere, la tendenza verso l’opera di grande formato è stata incoraggiata anche dalla frequentazione di modelli stranieri e  dal suo essere portato per grandi idee. Col suo “tempo di edificare”, Borgese ha obbedito a motivazioni personali che coincidevano con una spinta oggettiva della letteratura italiana di quegli anni, contrapponendo romanzo e costruzione creativa alla critica e facendosi fautore di una filosofia della storia tutta sua secondo la quale ogni epoca si crea le dottrine che meglio giustificano quanto ha fatto.

Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.

Autobiografismo e morte ne “Il diavolo in corpo” di Radiguet

Una frase del critico francese e fondatore della Scuola di Ginevra, Albert Thibaudet ne Le liseur de romans pare tagliata su misura per definire le avventure dei due protagonisti del romanzo Il diavolo in corpo, di Raymond Radiguet, basta cambiare una parola: “Il romanzo è il genere in cui la donna esiste, dove il mondo gira intorno a lei, dove ci si appassiona per lei o contro di lei. La lettura dei romanzi diventa , in una vita poco affaccendata o introversa, l’equivalente ideale dell’amore”. Si potrà perciò dire come afferma Roberto Cantini che la scrittura dei romanzi diventa l’equivalente dell’amore.

Il diavolo in corpo (1923), secondo il critico Giovanni Macchia, nonostante l’esuberanza dell’invenzione, il colorito drammatico di cui sono rivestiti i personaggi e l’autobiografismo incandescente che pare generarli, è “falso, artificiale e costruito” ed è interessante notare come lo stesso Radiguet abbia riconosciuto che l’eroe del suo libro non dovrebbe essere confuso con l’autore, definendo Il diavolo in corpo una confessione.

Il protagonista del romanzo è un adolescente che racconta in prima persona le sue peripezie amorose che ad inizio romanzo dice: “Forse è colpa mia se ho compiuto dodici anni pochi mesi prima della dichiarazione di guerra?”. Trattasi della Grande Guerra, vista dal protagonista per il quale non viene indicato un nome, dai suoi coetanei e dai suoi fratelli e sorelle come una sorta di vacanza: “Quel che terrorizzava l’Europa era diventata la loro unica speranza”.

Senza dubbio il romanzo riflette un’esperienza autobiografica, nonostante Radiguet abbia smentito; nel libro l’eroe adolescente matura con grande velocità e a quindici anni si innamora di Marthe, sposata e con il marito, Jacques al fronte. Colpisce nel libro l’energia possente di tale amore e la brutalità con cui si impadronisce del ragazzo e della giovane donna di soli quattro anni più grande di lui. Una donna di poca esperienza dunque ma quanto basta per coinvolgere il ragazzo nella sua molle impudicizia:

“Quando dormiva con i capelli sciolti accanto al fuoco, la testa posata sul mio braccio, mi chinavo su di lei per vederle il volto incorniciato dalle fiamme. Era scherzare con il fuoco. Un giorno mi avvicinai troppo, senza però toccare il suo viso con il mio, e fui l’ago che, superando di un millimetro la zona proibita, appartiene alla calamita. La bacia, sbalordito della mia stessa audacia, mentre in realtà era proprio lei che, mentre mi avvicinavo, s’era tirata la testa sulla bocca. Le sue mani si aggrapparono al mio collo; non si sarebbero aggrappate con maggior furia in un naufragio. E non capivo se voleva che la salvassi o che annegassi con lei”.

In realtà questo romanzo, scritto da un ragazzo tra i sedici e i diciotto anni, è il racconto di un naufragio: il protagonista, come ha notato Debenedetti, il quale ha notato che nel romanzo, “tutto l’adulterio si atteggia come la vergine scoperta e celebrazione dell’amore, compiuta in uno stato di natura anteriore alla scoperta del peccato” , tiene a battesimo la sua carriera amoroso con un adulterio, potrebbe ripetere per se i versi famosi dedicati da Rimbaud, poeta che Radiguet amava molto, a quell’adolescenza oziosa; e infatti il ragazzo dilapida le sue giornate, disprezzando il domani, vivendo con furia il presente. Tale furia potrebbe essere giustificata da un dato oggettivo-storico: siamo nel 1917, la guerra finirà e il marito tornerà da Marthe, ponendo termine all’intrigo, alla tresca, diremmo oggi. Ma tale realtà naturale non si percepisce tra le pagine del libro, è un fatto che Radiguet trasforma in una delle tante finzioni che pervadono la vicenda, fa parte di un gioco di specchi che gli consente la narrazione. Marthe, infatti, subito dopo il ritorno del marito, muore dando alla luce il figlio del giovane protagonista e in questo modo termina il romanzo. Ma questa tragedia ha ben poco a che fare con le storie esteriori dei personaggi, con la loro apparente esistenza.

“Ogni essere appena nato può diventare maturo per la morte” ha affermato un biologo e Il diavolo il corpo matura ed evolve verso la morte, in quanto corrisponde alla vocazione più intima del suo autore:

“La notte degli alberghi fu decisiva…Ma se credevo che tutta una vita potesse zoppicare in tal modo, Marthe sul treno di ritorno, rincantucciata in un angolo dello scompartimento, stremata, distrutta, battendo i denti, aveva capito tutto. Forse, vide perfino che al termine di quell’anno di corsa, in un’ auto follemente guidata, c’era solo la morte. Unica via d’uscita”.

Ma a quale figura reale potrebbe corrispondere Marthe? Potrebbe essere una certa Mlle Alice, governante della piccola Carmen, la ragazzina che compare nelle prime pagine del romanzo. Scrive Borgal in un suo saggio: “Se dobbiamo credere ai confidenti dell’autore, Alice dapprima avrebbe intessuto un flirt col padre di Radiguet. Raymond una volta li avrebbe visti insieme sull’imperiale dell’omnibus Saint-Maur-Bastille e si sarebbe innamorato della ragazza”. Ma Marthe non può possedere le sembianze di Alice; ella è il doppio di Radiguet, nel quale scorgere un presagio della morte che incalza: “Un uomo disordinato che sta per morire e lo sappia si mette improvvisamente a riordinare ogni cosa attorno a se. la sua vita cambia. Classifica le carte, si alza presto, va a letto di buon’ora. Rinuncia ai vizi, chi gli sta accanto si rallegra. In questo modo la sua morte brutale sembra ancora più ingiusta. Sarebbe vissuto felice”. Con queste parole lo scrittore francese, a distanza di qualche anno, descrive la propria morte attribuendola a Marthe. Anche lui ha sostituito l’alcool con il latte e si è ritirato in campagna rinunciando alle notti brave dei suoi amici del “Boeuf sur le Toit”.

Quando il tifo attaccò Radiguet, egli volle il suo amico Jean Cocteau accanto a se in clinica al quale disse:

“Vi prego, ascoltatemi. Ho una cosa terribile da dirvi. Tra tre giorni sarò fucilato dai soldati di Dio.  […]. L’ho udito con le mie orecchie”.

Esattamente tre giorni dopo Raymond Radiguet muore. Uno dei suoi amici, quando la salma venne esposta, disse: “Non ho mai visto una faccia altrettanto disperata, orrendamente delusa, terrificante..”

Nella memoria del lettore de Il diavolo in corpo affiorano parole che chiudono il romanzo:

“Come in un attimo agli occhi di chi muore si svolge il film della sua vita, la certezza della sua morte mi rivelò il mio amore con tutto ciò che aveva di mostruoso…proprio il nulla desideravo per Marthe…”

 

Bibliografia: Introduzione a Il diavolo in corpo, a cura di Roberto Cantini.

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