La semiotica delle passioni e delle emozioni

La semiotica delle passioni, terminologia suggestiva e che riguarda tutti noi, nasce dalle ipotesi teoriche della semiotica generale; lo studio delle dimensione pragmatica e cognitiva dei discorsi infatti lasciava da parte l’aspetto più legato ai sentimenti, alle emozioni e alla passioni che occupano un posto molto importante nei discorsi. Tuttavia le passioni implicavano un riferimento alla soggettività ed è per questo motivo che esse sono state introdotte con molta prudenza. La ricerca semiotica quindi considera come “effetto di senso inscritto e codificato nel linguaggio”.

Vi sono due approcci semiotici alla questione delle passioni: il primo mette in evidenza la dimensione passionale della semiotica dell’azione, considerando l’universo passionale dal punto di vista sintattico; tale approccio è illustrato nell’opera di Greimas e Fontanille, Semiotica delle passioni. Dagli stati di cose agli stati d’animo (1991). Il secondo approccio fonda la dimensione passionale a partire dallo statuto del soggetto della passione, in quanto si oppone al soggetto del giudizio, riattivando in questo modo la categoria topica passione-ragione. Esso è illustrato nell’opera di Coquet, La quiete del senso (1997).

Il modello narrativo di ricerca di conseguenza, è incentrato sui rapporti tra soggetto e oggetto dove gli enunciati di giunzione costituiscono l’operazione di base della sintassi della semiotica delle emozioni, fondata sulla discontinuità tra stati. Per quanto riguarda il lessico della passione, ci si rende conto dell’importanza assunta dalla relazione giuntiva: in questo modo l’incapacità abituale a contenersi rimanda alla definizione della pazienza intesa come “disposizione d’animo di una persona che sa attendere, conservando la calma”. Trasferita nel metalinguaggio semiotico, l’impazienza esprime lo stato iterativo di un soggetto disgiunto che virtualizza sul modo dell’intensità la propria congiunzione con un oggetto desiderato. La collera invece esprime la frustrazione di un soggetto in relazione ad un oggetto del quale è privato e al quale crede di avere diritto. Tale stato intensifica la disgiunzione.

Lo spazio passionale è fatto di tensioni il cui statuto ancora non è stato precisato, data la sua natura continua che si colloca intorno alla trasformazioni narrative. Tornado ai due saggi menzionati, prendiamo in considerazione quello di Coquet, il quale, nella Prefazione a La quiete del senso, alludendo al potere della fenomenologia, afferma l’importanza della materialità sensibile del significante che individua una struttura della passione, la quale passione è ricondotta all’istanza del non-soggetto, il quale è essenziale in virtù dei rapporti dialettici che intrattiene con il soggetto. Coquet associa l’identità fenomenologica di Merleau-Ponty, fondata sull’irriflesso della presenza sensibile del mondo, e l’identità enunciativa di Benveniste che  invece è fondata sull’affermazione dell’ego. La passione è ricondotta all’istanza del non-soggetto, perché, secondo Coquet, l’atto del giudizio interviene solo “in una sequenza successiva al momento dell’esperienza passionale”.

Coquet inoltre assegna una grande priorità al discorso in atto, responsabile del modo il cui il soggetto è presente nel mondo; la semioticità cui dà vita è definita appunto come una fenomenologia discorsiva. In sintesi il non-soggetto “classe attanziale costruita a partire  dall’esclusione del giudizio”, designa l’attante che esegue solamente ciò per cui è programmato. Tuttavia il non soggetto caratterizza anche l’istanza del soggetto passionale, ad esempio: il lupo della favola è analizzato con un non soggetto che, sottoposto alla programmazione meccanica della propria natura predatrice, tenta inutilmente di sottrarsi al proprio statuto. attanziale. Anche il soggetto patemico non può prescindere dal suo essere intrinseco a se stesso ed è alimentato dagli imperativi sensibili del proprio corpo, che è l’istanza del non soggetto.

Il percorso passionale si sviluppa dando luogo a uno schema il quale è stato sviluppato da Greimas e Fontanille in Semiotica delle passioni e si presenta invece come la concatenazione di quattro sequenze:

disposizione→sensibilizzazione→emozione→moralizzazione, o meglio: contratto→competenza→azione→sanzione.

Alla disposizione corrisponde lo stato iniziale, ovvero la disposizione del soggetto ad accogliere l’uno o l’altro effetto passionale. Quanto all’emozione, è la fase alla quale corrisponde la crisi passionale che attualizza la sensibilizzazione che è il momento della vera e propria”patemizzazione”, manifestato ad esempio nel discorso appassionato.

Lo studio della dimensione patemica del discorso, dunque non riguarda tanto la trasformazione degli stati di cose (di questo se ne occupa la narratività), ma la variazione degli stati del soggetto, gli stati d’animo (gelosia, collera, ambizione, ecc.)

 

 

Erich Auerbach e la critica stilistica di scavo retorico

Erich Auerbach è uno dei massimi critici e tra i più importanti filologi  tedeschi e mondiali e tra gli iniziatori della cosiddetta critica stilistica. Nato a Berlino nel 1892, muore negli Stati Uniti, a Wallingford nel 1957. Fu successore di Leo Spitzer all’università di Marburgo come professore di romanistica. Costretto dal regime per le sue origine ebraiche ad abbandonare la Germania, si trasferisce in Turchia dove insegna presso l’università di Istanbul  dal 1936 al 1947; dalla Turchia si reca negli Stati Uniti dove dal 1950 prestò la sua opera presso l’università di Yale. Di rilievo mondiale è la sua attività di dantista svolta per oltre un trentennio i cui risultati hanno condizionato tutta la moderna esegesi del poeta medievale.

Il primo saggio di argomento dantesco Dante als Dichter der irdischen Welt s’inserisce nella discussione sull’interpretazione crociana del romanzo teologico come una difesa della struttura nella Divina Commedia. Il saggio Figura pubblicato nove anni dopo sulla rivista  Archivum romanicum  è il risultato più cospicuo di un lungo periodo di riflessione intorno al problema semantico, succeduto alla sistemazione e alla definizione dell’universo dantesco svolto nel lavoro precedente. Dall’indagine sui rapporti tra struttura e poesia nella Commedia l’analisi si sposta sul terreno della ricerca del principio di costruzione dantesca e sul suo modo d’invenzione. Essa stabilisce tra due fatti o persone un nesso per cui l’uno non significa soltanto sé stesso, ma anche l’altro, e l’altro comprende e adempie sempre il primo. Qui le estensioni e le modifiche del principio figurale non contravvengono mai dall’esigenza che aveva dettato quella formula e l’aveva resa straordinariamente efficace: la lettura unitaria del poema.

L’ampiezza dell’indagine dantesca di Auerbach è determinata anche da quell’attenta opera di ricerca e di scavo retorico e stilistico, attraverso la quale particolari della lingua o dell’espressione, modificazioni sintattiche e lessicali divengono spie di un uso o di innovazione di gusto da ricondursi a una trasformazione dell’interpretazione della vita. Anche questa strada è percorsa dal critico che mette a fuoco atteggiamenti e caratteri dei personaggi della Commedia.

Forse la più grande ricerca del critico tedesco resta il suo Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. L’opera è composta da due volumi e si propone di esaminare in venti capitoli la realtà rappresentata nel romanzo. La realtà è sempre presente nell’opera artistica in modi più o meno diversi: già Dante – di cui è ripreso l’episodio con Farinata nel canto X dell’Inferno -, nel suo viaggio ultraterreno, si porta dietro buona parte del suo mondo fisico, politico e sociale. Anche dopo la fine del romanzo realistico ottocentesco per eccellenza, la realtà permane, nonostante il turbamento delle strutture spazio temporali (si pensi all’opera di Virginia Woolf).

Il tema è affrontato da Auerbach in modo singolare: usando come pretesto la poca disponibilità di letture della biblioteca di Istanbul Auerbach traccia una storia generale della rappresentazione realistica considerando solo una ventina di testi nella storia della letteratura; di ogni testo esamina solo un breve brano, secondo il modello della critica spitzeriana. Il brano viene utilizzato poi per estendere lo studio all’opera omnia dello scrittore inquadrandolo nell’ambiente storico e culturale in cui questi ha operato. Questo procedimento gli assicura un’analisi totale, mai incompleta, arguta ed originale.

Di fondamentale importanza è la raccolta degli Studi su Dante, nei quali il critico definisce il concetto di figura nella cultura tardo-antica e ricostruisce il complesso rapporto tra struttura e poesia nella Divina Commedia. L’autore giunge al risultato allargando l’indagine a tutta la civiltà cristiana e mostra come l’intelligenza di Paolo, Agostino, Tertulliano sia necessaria per una lettura totale del capolavoro dantesco. Afferma lo studioso tedesco:

“Il fatto terreno è profezia o figura di una parte della realtà immediatamente e completamente divina che si attuerà in futuro. Ma questa non è soltanto futura, essa è eternamente presente nell’ochio di Dio e nell’aldilà, dove dunque esiste in ogni tempo o anche fuori del tempo, la realtà vera e svelata. L’opera di Dante è il tentativo di una sintesi insieme poetica e sistematica, vista a questa luce, di tutta la realtà universale”.

Ciò che emerge dalla lettura dei saggi di Auerbach è che la sua cultura, seppur rigorosa, è aperta al fascino dell’universale, infrangendo ogni barriera linguistico-culturale. Secondo il critico, Dante esprime nella dimensione narrativa di un viaggio la consonanza del proprio destino con quello dell’umanità peccatrice e redenta e la quintessenza del pathos umano della anime dell’aldilà, prendendo spunto dalle riflessioni di Hegel. Senza dubbio Erich Auerbach ha posto una pietra miliare nella bibliografia su Dante e ha spianato un campo interpretativo ancora molto fertile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dante Isella e la filologia d’autore

Il critico letterario e filologo Dante Isella nasce a Varese l’11 novembre 1922, da una famiglia della nascente borghesia imprenditoriale, impegnata attività nei primi tempi circoscritta e pionieristica poi, dal dopoguerra, accresciuta nelle dimensioni e nel volume degli affari. Compie gli studi superiori presso il liceo ginnasio Cairoli di Varese e iscrivendosi successivamente alla facoltà di lettere di Milano. Ben presto la guerra lo conduce lontano: va in Svizzera e poi a Friburgo. Qui incontra Gianfranco Contini, il suo unico riconosciuto maestro, che gli lascerà il ricordo di un’esperienza esplosiva e fondamentale. A Friburgo incontra anche gli amici che furono poi i compagni di tutta una vita: Giorgio Orelli, Luciano Erba, Romano Broggini, Adriano Soldini e Giansiro Ferrata; durante l’anno passato in Svizzera lavora alla tesi di laurea su la lingua e lo stile di Carlo Dossi.

Il lavoro di Dante Isella sul poeta dialettale Carlo Porta non è circoscritto alle sole splendide edizioni: la valutazione letteraria del dialetto milanese rimane forse l’acquisizione più importante di questa stagione di studi. Il dialetto portiano non ha nulla di ‘naturale’, non è mimetico della realtà ma la interpreta: esistono vari livelli al suo interno, sovrapposizioni fra lingua e dialetto, fra latino e dialetto, fra francese e dialetto. È un vero e proprio universo stilistico che il critico definisce pastiche portiano.
Isella approda alla carriera universitaria con un incarico al magistero di Parma; nel 1966 inizia a insegnare a Catania come ordinario e nel 1967 è alla facoltà di lettere e filosofia di Pavia. Nel 1972 assunme un incarico presso il Politecnico federale di Zurigo. È accademico della Crusca dal 1988 e dei Lincei dal 1997. Nel 1962 coadiuvato da Niccolò Gallo, Geno Pampaloni e Vittorio Sereni fonda Questo e altro. Dirige inoltre, sin dagli esordi, assieme a Maria Corti, d’Arco Silvio Avalle e Cesare Segre, la rivista Strumenti critici. Nel 2001 fonda I quaderni dell’Ingegnere. Testi e studi gaddiani. Ha diretto anche i Classici italiani di Mondadori dal 1961 al 1993 e, dal 1978, la collana di Testi e strumenti di filologia italiana della Fondazione Mondadori; con Giorgio Manganelli dà vita, nel 1987, presso la casa editrice Guanda, alla collana di classici della Fondazione Pietro Bembo.

Gli interessi culturali di Isella sono molteplici: filologo testuale, prima di tutto, sulle orme di Contini. Ma anche storico della lingua, commentatore raffinato di classici e storico della letteratura. Le linee di ricerca fondamentali nella sua attività possono essere individuate nella particolare attenzione ai processi variantistici, all’interno di ricostruzioni filologiche di tipo stemmatico; un interesse definito e metodologicamente strutturato che arriva a costituirsi in una disciplina autonoma, quella filologia d’autore di cui Isella è stato riconosciuto maestro. L’altro polo centrale dei suoi studi fu la cultura lombarda, la letteratura in italiano e in dialetto nel senso di ‘lombardità’ in accezione più ampia di quella geografica, come valore culturale e soprattutto etico. I nomi che si possono ricordare, oltre a Manzoni e Parini sono quelli di Carlo Dossi, Carlo Emilio Gadda e Vittorio Sereni e in più un milanese d’adozione come Eugenio Montale.

Alla ‘linea lombarda’ dedica i tre fondamentali volumi di storiografia letteraria, pubblicati presso Einaudi I lombardi in rivolta: da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda (Torino 1984), L’idillio di Meulan: da Manzoni a Sereni e Lombardia stravagante: testi e studi dal Quattrocento al Seicento tra lettere e arti. Carlo Maria Maggi.

Fondamentale anche la tensione etica che Dante Isella individua nei testi di Maggi anche qui il dialetto rappresenta l’espressione autentica di un mondo di profonda moralità. La “lombardità” non è veicolata solo dal dialetto e Isella si dedica anche a scrittori in italiano. Parini e Manzoni fino al Novecento. Nomi grandi ma anche autori minori, funzionali all’individuazione di una linea culturale alternativa a quella dominante “fiorentino centrica” della nostra letteratura. I caposaldi della filologia di Isella su testi lombardi in italiano sono indubbiamente i lavori su Parini su Manzoni e su Gadda.

Lo studio gaddiano soprattutto sugli inediti segna un vero punto di svolta; le dinamiche testuali hanno consentito a Isella di elaborare un modello di apparato mai sperimentato: allo sviluppo del testo narrativo si intrecciano di continuo, sulle stesse pagine, riflessioni di carattere strutturale. Un critico che non abbandona mai la sua ricerca.
Nel 2007 in occasione del conferimento del Premio alla carriera Dante Isella ci tiene a sottolineare che la filologia è un’attività che sarà sempre necessaria pur restando sempre nell’ombra. E così come la filologia lavora restando nell’ombra, sceglie lo stesso per sé quando dice: «Fa anche parte del mio gusto non scrivere più nulla che porti alla disperazione di gente frettolosa. La filologia è lesinare tempo, divenire silenzioso, divenire lento. Non si raggiunge nulla se non lo si raggiunge lentamente. Leggere bene è leggere lentamente, in profondità, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati».

Di Michela Iovino.

Mario Praz, l’anglista raffinato

(Roma, 6 settembre 1896 – Roma, 23 marzo 1982)

 

La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica

Figura di spicco tra gli studiosi delle letteratura inglese, Mario Praz  è stato anche traduttore, giornalista e critico d’arte.Elegante e raffinato Mario Praz non è considerato una figura di rilievo nella compagine culturale italiana, mentre, come spesso accade, in Inghilterra e negli Stati Uniti è stato ampliamente apprezzato.

Complice la figura estetica, alquanto particolare e a tratti inquietante, e la trattazione da parte del critico degli aspetti demoniaci della letteratura, Mario Praz si è portato dietro per tutta la vita la triste fama di “jettatore”, molti addirittura lo indicavano con gli appellativi di “Maligno” e “L’ innominabile”. In verità l’anglista non faceva nulla per smentire questa fama, anzi sosteneva che era molto producente per i suoi studi.

Nato in una  famiglia di origine svizzera,  il padre di Mario era un impiegato di banca mentre la madre era una contessa  discendente dalla famiglia dei Conti di Marsciano. Trascorre i primi anni in Svizzera, nel 1900 si trasferisce a Firenze dove frequenta il ginnasio-liceo “Galileo Galilei” e  successivamente facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, per poi trasferirsi, nel 1915 a Roma dove si laurea nel 1918 .Ma la vera passione di Praz è la letteratura ed infatti si laurea anche  in Lettere presso l’Istituto di Studi Superiori dell’Università di Firenze con una tesi su “La lingua di Gabriele D’Annunzio”. Lo stesso anno, grazie al British Institute, entra in contatto con l’ambiente artistico degli aristocratici inglesi di Firenze, e comincia ad interessarsi al saggio critico.Traduce poesie inglesi ottocentesche per Giovanni Papini e collabora con la rivista <<Cultura>>. Nel 1923 si trasferisce a Londra ed entra in contatto grazie all’amica scrittrice Vernon Lee con l’ambiente culturale dell’epoca, diviene lettore di italiano presso l’Università di Liverpool, in questo periodo escono anche le opere ” I poeti inglesi dell’Ottocento”,  “Studi sul concettismo”, “Storia della letteratura inglese”,”Secentismo e Marinismo in Inghilterra” e soprattutto “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”, saggio  di critica tematica che sarà molto apprezzato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti ma, tanto per cambiare, non in Italia dove impera la cultura crociana.

la casa – museo romana di Praz

Ed infatti la critica negativa di Croce non si fa attendere; l’amore, la morte, il concetto di bellezza, la ricorrenza dei personaggi satanici, il gusto per l’esotismo, la figura della donna fatale, il sadismo non sono certamente aspetti di particolare rilevanza secondo il critico abruzzese. Sono tematiche troppo appariscenti e gotiche quelle analizzate da Praz che tralascia la globalità; troppo superficiale quindi per Croce il suo  studio critico.

Ma l’analisi degli aspetti più perversi, bizzarri ed esagerati di un romanzo è da considerarsi davvero un approccio privo di metodo e non degna di rientrare nei validissimi studi letterari? In realtà Mario Praz ha dato un prezioso contributo per lo studio critico del decadentismo che nasce proprio dal romanticismo più esacerbato anche attraverso arguti parallelismi con l’arte ( come dimostra il saggio “Milton e Poussin”e “La filosofia dell’arredamento. I mutamenti del gusto dell’arte decorativa interna attraverso i secoli”).

Più in linea con il suo tempo risulta “La casa della vita”, storia della casa-museo dell’anglista, una vera e propria attrazione nella Roma moderna, nella quale si intrecciano artificio e verità, incanto e segreto.

Mario Praz

Curioso e sardonico, il comparatista e collezionista di antiquariato Mario Praz  ha creato la prima scuola di anglistica in Italia ed insegnato lingua e letteratura inglese presso La Sapienza di Roma; per chi volesse approfondire la conoscenza di questa figura letteraria anomala, consigliamo la lettura del volume che fa parte dei “Meridiani classici”, “Praz, bellezza e bizzarria”del 2002. Un critico del Novecento che ha rivolto la sua attenzione all’Ottocento romantico e alla letteratura degli emblemi, restituendo dignità al periodo neoclassico, condannato da molti critici, con il saggio “Gusto neoclassico” nel quale il critico romano evidenzia i pregi e le sfumature di quel periodo.

Mario Praz, uno studioso fuori dal coro che induce a chiederci: perché un critico del Novecento non si è occupato della crisi del personaggio-uomo, delle sue angoscie e turbe esistenziali prediligendo la letteratura dei secoli precedenti, in particolare quello romantico? La risposta è semplice: pura passione  anglosassone e desiderio intellettuale di presentare ed esaminare aspetti e tematiche particolari mai trattate o trattate superficialmente prima. Tuttavia il tema del “diavolo” è molto presente e caratterizza profondamente anche il Novecento come ha sostenuto  Thomas Mann.

Addio a Cesare Segre, semiologo di fama internazionale

Si  è spento il 16 marzo scorso a Milano il grande critico e filologo  italiano Cesare Segre, curatore della celebre edizione critica de “L’Orlando Furioso”.

Classe 1928,  il critico letterario, saggista, semiologo e filologo Cesare Segre, era  nato a Verzuolo (Cuneo) da una benestante famiglia  israelitica,  ha vissuto e ha studiato a Torino, dove si è laureato nel 1950. Ha attraversato gli anni difficili della Seconda Guerra Mondiale e delle persecuzioni razziali.  Libero docente di filologia romanza dal 1954, ha poi insegnato presso le Università di Trieste e di Pavia, dove, più tardi, è diventato ordinario della materia. In questo periodo cura l’edizione critica di molti capolavori della letteratura tra i quali “Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e 1521”, “La chanson de Roland” , e le “Satire di Ariosto”. Accademico della Crusca, Segre è stato anche visiting professor presso le Università di Manchester, Rio de Janeiro, Harvard,Berkeley,Princeton. Ha collaborato a numerose riviste: tra le quali, <<Studi di filologia italiana>>, <<Cultura neolatina>>, <<L’Approdo letterario>>; è stato direttore, con  D’Arco Silvio Avalle  Dante Isella e Maria Corti, di <<Strumenti critici>>, condirettore di <<Medioevo romanzo>> e della collana <<Critica e filologia>> dell’editore Feltrinelli.

Inizialmente  Segre  si  era dedicato  alla critica stilistica  seguendo le orme di Benvenuto Terracini, per poi imporsi come uno dei più autorevoli e brillanti esponenti italiani dello strutturalismo. La sua produzione è molto vasta, frutto di un’ intensa attività di studio: “I segni e la critica”, “Le strutture e il tempo”, “Semiotica filologica”, “Testo e modelli culturali”,  “Avviamento all’analisi del testo letterario”, “Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà” , “Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento”, “Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?”, “Per curiosità. Una specie di autobiografia”, “Ritorno alla critica”, “La pelle di San Bartolomeo”, “Discorso e tempo dell’arte”, “Tempo di bilanci. La fine del Novecento” . Proprio poche settimane fa Mondadori gli aveva dedicato un Meridiano, “Opera critica” che raccoglie parte della produzione del critico.

Anche la sua vita privata è  stata segnata dalla presenza della filologia: sposò infatti Maria Luisa Meneghetti, docente di filologia romanza proprio come lui.

 Cesare Segre è stato un convinto sostenitore dell’importanza di una migliore conoscenza della lingua italiana, e ha considerato inutili tutte quelle campagne didivulgazione dell’inglese, se non si conosce bene prima la lingua madre.

Un esploratore che si è addentrato nei complessi meccanismi della lingua quindi, che si è sempre chiesto dove sarebbe andata a finire la critica letteraria nel saggio “Notizie dalla crisi.Dove va la critica letteraria?” che rivela tutta l’attenzione del critico per l’oggetto in relazione agli insiemi testuali, partendo da maestri come Foucault, Greimas, Barthes. Un sottile senso della contraddizione (e come non potrebbe essere altrimenti) e rigore cartesiano contraddistinguono questo mirabile testo.

Per Segre la filologia è uno strumento validissimo per comprendere la realtà nella sua totalità, totalità che oggi risulta meno cercata e ambita dalla critica. Illuminanti sono state anche le riflessioni del critico piemontese sulle corrispondenze biografiche e di sensibilità profonda tra Giacomo Debenedetti e Marcel  Proust, come dimostra anche un articolo del critico su <<Il Corriere della Sera>>, dal titolo “Debenedetti: il mio amico Marcel Proust”.

Cesare Segre, sottile medievista ed appassionato novecentista (leggeva con piacere Primo Levi, Sereni e Gadda), lascia un grande vuoto nella cultura italiana, la sua ironia ed eleganza stilistica ne hanno fatto un teorico di primissimo piano nel panorama critico letterario internazionale; fulminante e veritiero il suo giudizio riguardo al linguaggio contemporaneo usato soprattutto dai politici:

“La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo. Naturalmente questo implica il degrado anche delle argomentazioni, perché, ai livelli alti, il linguaggio è molto più ricco e duttile”.

Caratteristiche della critica contemporanea

La critica contemporanea si è orientata molto verso l’analisi filologica per comprendere il percorso storico-creativo dell’opera di cui i massimi rappresentanti sono: Salvatore Battaglia, Vittore Branca, Lanfranco Caretti, Dante Isella, Giorgio Petrocchi; e verso quella linguistica rinnovata da Saussure tramite il metodo e il concetto di lingua come sistema e da Jakobson tramite la funzione  poetica del linguaggio. Tuttavia non si può analizzare la critica contemporanea senza partire dagli elementi del pensiero di Benedetto Croce scaturiti nel Novecento per cui l’arte è autonoma ed è impossibile concepire la natura di un’opera al di fuori di essa, concetto che se da una parte ha eliminato i giudizi morali e modelli letterari fissi, avendo fortuna presso i post-crociani, dall’altra non ha costruito un metodo preciso.

Si avverte l’esigenza di una critica idealista per dare concretezza alle teorie crociane  che si incontrano con il marxismo per opera di Antonio Gramsci che rifiuta il concetto di autonomia dell’arte e  non distinguendo più tra teoria e prassi; e di Marx e Engels i quali concepiscono l’arte come una forma di ideologia.

Molta influenza ha poi la scuola del “formalismo russo” che vede tra i suoi massimi esponenti Vladimir Propp con la sua “Morfologia della fiaba”dove viene attuata per la prima volta la divisione tra fabula ed intreccio.

Durante il periodo staliniano nasce “il realismo socialista” di Zdanov che promuove i valori del comunismo ma contro i quali si scaglia il filosofo ungherese Luckàcs che rifacendosi allo storicismo romantico elabora il “realismo critico”

Alberto Asor Rosa invece sottolinea il carattere provinciale e piccolo-borghese della letteratura italiana tra Ottocento e Novecento: ma di certo nomi come Verga, Montale, Gadda non sfigurano affianco ai Kafka, Proust o Musil.

Particolare attenzione merita  la critica semiologica attuata da Eco, da Peirce e da Bachtin, da Segre contro lo strutturalismo formalistico per un’analisi delle varie forme dei codici letterari unita allo studio sociologico e antropologico.

Un discorso a parte merita il critico Giacomo Debenedetti che con il suo metodo/non metodo spaziando dalla psicoanalisi alla sociologia, dall’arte alla fisica, dall’antropologia alla musica e al cinema, rappresenta un caso molto particolare, da riscoprire nel panorama della critica letteraria.

 

 

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