Quasimodo: tradizione, impegno civile e società di massa desacralizzata

Quasimodo, nonostante le sue sperimentazioni e le sue revisioni stilistiche, fu sempre legato alla tradizione, grazie alla musicalità dei suoi versi e al suo classicismo (non a caso tradusse i lirici greci).

Inizialmente il poeta cantò il mito della Sicilia, la nostalgia e lo sradicamento dalla sua terra; nelle sue prime raccolte rievocò l’infanzia e i paesaggi che lo avevano visto nascere e crescere.

Quasimodo caposcuola ermetico

In quegli anni fu ermetico. Alcuni lo hanno considerato un caposcuola, mentre altri solo un fiancheggiatore di questa corrente letteraria.  Coloro che lo criticano negativamente per questa sua adesione dovrebbero però ricordarsi che erano gli anni della formazione del suo immaginario e del suo apprendistato poetico: non era ancora nella fase della maturità.

L’ermetismo aveva il grande pregio di proporre “la letteratura come vita” e di opporsi all’autoesaltazione, all’enfasi, alla megalomania di D’Annunzio. Alcuni critici però hanno sempre accusato gli ermetici di essere oscuri e di utilizzare un linguaggio allusivo.

Ma Quasimodo anche in questo suo periodo non fece mai un utilizzo eccessivo dell’analogia. Poteva sembrare di primo acchito non totalmente originale, eppure successivamente si dimostrò unico sia dal punto di vista espressivo che per quel che riguarda la visione del mondo.

Il distacco dalla retorica carducciana e dall’estetismo di D’Annunzio

Il poeta seppe distaccarsi dalla retorica di Carducci, dall’estetismo e dall’irrazionalismo di D’Annunzio, dall’intimismo e dalla stanchezza di vivere dei crepuscolari, dall’esaltazione del progresso dei futuristi, dal nazionalismo di altri artisti; il poeta siciliano non scavò mai nella parola e non distrusse il verso come fece Ungaretti.

Non distrusse mai le strutture logiche e sintattiche; non si abbandonò all’estetismo; non si lasciò corrodere dall’autodistruzione e dalla nevrosi; non fu mai preda dell’intellettualismo e ricordo che ad esempio per Croce l’autentica poesia era priva di sovrastrutture ideologiche, di allegorie, di tematiche filosofiche e teologiche.

Quindi secondo i canoni estetici crociani i suoi componimenti erano poesia. Il grande critico letterario Oreste Macrì scrisse un saggio sulla “Poetica della parola” di Quasimodo. Come poeta sono pochissimi coloro che lo giudicano in modo negativo. Come uomo all’epoca alcuni lo criticarono per non aver partecipato alla Resistenza.

Ma come scrisse lo stesso Quasimodo “il poeta modifica il mondo” e non è detto che lo possa fare soltanto con l’impegno politico-sociale, ma lo può fare anche con i suoi versi. Dopo la fase ermetica non scrisse più dell’Eden perduto ma trattò della sofferenza dell’uomo in guerra.

L’importanza della tradizione

Quasimodo dimostrò di saper compiere una evoluzione dal punto di vista umano, affrontando nuove tematiche. Aveva sempre nostalgia di casa, ma non era più il paesaggio siciliano ad avere la meglio: era piuttosto la coscienza civile ad essere presente in ogni lirica.

Il poeta non poteva stare nella sua torre eburnea, ma doveva esprimere sentimenti come solidarietà, partecipazione emotiva, fraternità.

Evitò così di descrivere l’incomunicabilità e divenne forse il più comunicativo dei poeti del novecento, addirittura forse più di Ungaretti: sicuramente uno dei più semplici e più comprensibili a leggersi, il più efficace a descrivere la crisi esistenziale dell’uomo moderno conseguente alla tragedia e all’orrore della guerra.

I suoi messaggi erano chiari ed espliciti.

Come non ricordare la lirica “Uomo del mio tempo”, in cui scrive che l’uomo è sempre lo stesso di quando usava la pietra e la fionda e che ora utilizza le sue scienze esatte per sterminare i suoi simili?

Oppure come scordarsi “Alle fronde dei salici” che necessita di una parafrasi solo se letta da un bambino delle elementari o al massimo delle scuole medie inferiori? Oppure della lirica “Quasi un epigramma” in cui definisce la società moderna come “la civiltà dell’atomo”? Non era forse questa poesia civile?

Quando la poesia si trasforma in etica

Non era questo un lirismo fatto da parole semplici che potevano arrivare a tutti? Ancora memorabili i versi di “Lamento per il Sud” in cui descrive un meridione dove si moriva di stenti e nonostante ciò ancora bello e incontaminato, a differenza di un Nord industrializzato e già inquinato.

La lirica più celebre di tutte è senza ombra di dubbio “Ed è subito sera” perché in pochissimi versi sono rappresentate sia la solitudine dell’uomo contemporaneo che la brevità della vita e lo scorrere inesorabile del tempo.

Il poeta cercò sempre di descrivere l’enigmaticità e il non senso di un mondo sfuggente e colmo di brutture: una società di massa desacralizzata (“senza Cristo”) in preda alla barbarie.

Da ricordare anche che dopo la fine del conflitto mondiale si avvicinò al neorealismo e si mostrò critico nei confronti del boom economico e del consumismo.

Per avere più  chiara la sua poetica bisogna ricordare che fu proprio Quasimodo nel suo saggio “Discorso sulla poesia” a scrivere che “la poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza”.

 

Di Davide Morelli

‘Storia di Cristo’, la conversione di Giovanni Papini: una difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea

Giovanni Papini ha impresso il proprio nome nella Storia. Con le sue teorie strampalate, i suoi cambi di bandiera repentini e improvvisi ha stupito la cultura del Novecento italiano comparendo nel registro dei più grandi polemisti di tutti i tempi. Battagliero e feroce, si ritrovò ritto sulle barricate del secolo a infiammare il mondo. Ignorato oggi in patria, il suo nome è noto all’estero: uomini come Jorge Luis Borges, Mircea Eliade, o Henry Miller lo hanno letto, amato e ricordato. Perché non dovremmo farlo anche noi? Almeno ricordarlo…Lettore onnivoro e scrittore frammentario dallo stile dissacrante, e dall’animo irrequieto e trasformista, noto per le sue numerose stroncature, l’arrogante Papini è considerato il capo del primo Sturm und Drang italiano. A lui e Prezzolini si devono l’importazione in Italia di intellettuali come il sindacalista rivoluzionario Sorel, e i filosofi Bergson e James. Benedetto Croce fu invece il suo nemico più temibile. Inveì contro i liberali, i socialisti e i preti. Si mosse là dove vi era fervore.

Un estremista nato. Si autodefinì “l’uomo che non accetta il mondo”. Il suo pensiero è ricollegabile alla corrente reazionaria, conservatrice e antidemocratica del primo Novecento Italiano. Con le sue riviste ha influenzato filosofi della portata di Julius Evola. Sempre fiero del suo viso dai tratti demoniaci, Papini è uno di quegl’uomini a metà tra il diavolo e l’acqua santa. Da feroce iconoclasta divenne un fervente cattolico, senza mai smettere di essere un mangiatore di preti. Amò Dante e Machiavelli, Michelangelo e, poi, Sant’Agostino. L’autore di Chiudiamo le scuole rifiutò più volte le cattedre offertegli come accademico di Italia, fino a quando finì per accettare, nel 1937, la direzione dell’Istituto di Studi sul Rinascimento. Non aderì né alla RSI né alla Resistenza. Fece l’apota, come il suo amico Prezzolini. Nel 1938 firmò, tra gli altri, il “Manifesto della Razza”. Quando rimane fedele a se stesso, trincerato sulle sue posizioni, sorprende. Quando aderisce a una qualsivoglia “chiesa”, delude. Eccezione fatta per la Storia di Cristo, grande opera letteraria dall’immediato successo, sia in Italia che all’estero.

Sulla testimonianza dei Vangeli canonici, e, talora, di quelli apocrifi, narra dalla nascita all’ascensione la vita del Redentore per invocarne la grazia e la giustizia verso l’umanità corrotta: perché tutte le generazioni rifiutano e crocifiggono il Cristo, ma nessuna come questa è caduta tanto in basso. La Storia di Cristo è il libro magno della conversione di Papini; il bestemmiatore ha portato la sua violenza al servizio della fede; l’«uomo finito» ha fallito nella sua pretesa alla divinità, si è dichiarato vinto e disfatto; rinasce come apostolo della fede e la difende con tutti i suoi mezzi oratori. Dal punto di vista storico la Storia di Cristo rappresenta l’ultimo tentativo di difesa tradizionale contro l’anarchia morale contemporanea. È una difesa non ragionata, ma impetuosa e travolgente, una multiforme adesione al verbo di Cristo senza nessuno scrupolo di conformismo cattolico come nota giustamente Raffaele de Grada nella prefazione Bompiani.

Storia di Cristo di Papini: struttura e contenuti

Per comodità più che per spirito di classificazione, si potrebbe iniziare il percorso dell’opera di Papini da alcune Vite di Gesù, forse tra le più note, scritte nell’ultimo secolo.
La vita di Gesù, presentata per brevi capitoli, inizia con una lunga presentazione, nella quale Papini spiega i motivi del suo scritto e i suoi intendimenti nel proporre un argomento così contro-corrente.
Ne riportiamo alcuni brani. “… Cristo, invece è sempre vivo in noi. C’è ancora che l’ama e chi l’odia. C’è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione… Nessun tempo fu, come questo, tanto diviso da Cristo e così bisognoso di Cristo. Ma per ritrovarlo non bastano i vecchi libri… Le vite di Gesù destinate ai devoti esalano quasi tutte un non so che di mucido e stantio che respinge, fin dalle prime pagine, il lettore avvezzo a più delicati e sostanziali pasti…”

Dopo tali premesse l’autore presenta cosa l’uomo di oggi desidera incontrare: “… un libro vivo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d’una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza – perenne epperciò anche attuale – a quelli che l’hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia…” A questo punto Papini può “giustificare” la sua opera di laico già miscredente per credenti e miscredenti, un’opera quindi accreditata dalla vicenda passata del suo stesso autore: “… un libro siffatto l’autore del presente non pretende d’averlo fatto lui, benché confessi di averci pensato spesso: ma per lo meno ha tentato, per quanto arrivavano le sue capacità, di accostarsi a quell’idea… pur tenendomi fedele alle parole delle Rivelazione e ai dogmi della Chiesa Cattolica s’è studiato, talvolta, di ripresentare quei dogmi e quelle parole in modi diversi dai soliti, con uno stile violento d’opposizioni e di scorci, ravvivato da termini crudi e risentiti, per vedere se l’anime d’oggi, avvezze ai pimenti dell’errore, potessero svegliarsi ai colpi della verità…” L’autore stesso, quindi, motiva l’uso di un linguaggio violento, quasi ad invettiva, proprio per risvegliare alla Verità la coscienza addormentata dei lettori moderni.

Non ci soffermiamo sui capitoli relativi all’infanzia e alla vita di Gesù, ne proponiamo invece alcuni tratti dal secondo tomo sulla passione, morte resurrezione del Cristo. Tutti gli autori, e Papini compreso, si interrogano in particolar modo su Guida Iscariota (Ishkarioth), sul mistero del suo tradimento, soprattutto sulle motivazioni di tale azione ignobile.
Ma chi è in realtà Giuda, che personalità si nasconde nelle parole lapidarie della Scrittura?
Papini presenta un ampio ventaglio di ipotesi, ma non ne abbraccia alcuna: “… Il mistero di Giuda è legato a doppio nodo al mistero della Redenzione e rimarrà per noi miseri un mistero”; ma poi aggiunge “… se Gesù non fosse stato venduto sarebbe mancato qualcosa alla perfetta ignominia dell’espiazione…”, quindi Giuda non solo è traditore, ma è colui che ha venduto, barattato a basso prezzo un uomo, l’Uomo; Giuda fu un venditore di sangue.

Dopo aver descritto in più capitoli l’ultima cena, l’autore si addentra nel vivo del racconto evangelico con l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Solo Papini presenta questo momento come una seconda tentazione del Cristo, dopo quelle che egli subì nel deserto prima della sua vita pubblica “… ora, in questo nuovo deserto, in questa tenebra dove Gesù è solo, spaventosamente solo… Satana torna ad insidiare il suo nemico… L’altra volta gli prometteva le grandezze dei regni….ora ricorre al contrario: spera nella sua debolezza…”.

Papini accenna solo a questo profondo tormento del Cristo, poi si ritrae, quasi impaurito da tanto suo ardire “… il racconto di questa notte è il mistero di Gesù. Il mistero di Giuda è il solo mistero umano dell’Evangelo, la Preghiera del Getsemani è il più imperscrutabile mistero divino della storia di Cristo.” Ora il Cristo in questa lotta con le Tenebre gronda sangue, “suda per tutta la persona… il sangue che ha promesso agli uomini comincia a versarlo sull’erba del Monte degli Ulivi.” La lotta che Gesù affronta è il diretto confronto tra arbitrio ed obbedienza, cioè tra arbitrio e vera libertà: “la volontà abdica nell’ubbidienza che sola assicura la libertà universale. Non è più un uomo ma l’Uomo; l’Uomo tutt’uno con Dio, una cosa sola con Dio: voglio quello che vuoi.”Inquietante la descrizione che viene fatta di Anna (Hanan) e di Caifa (Cajafa, soprannome che ha diverse assonanze con Cefa, fa notare Papini): uomini senza scrupoli, più attenti agli intrighi di potere che alla religione dei Padri, più interessati ai risvolti politici della predicazione di questo sedicente messia che alle sue parole.
Con Giuseppe Cajafa, Pietra, appare anche Simone Cefa, Pietra nel momento culminante del suo tradimento e del successivo, desolato pentimento al canto del gallo, raccontato dallo scrittore con toni lirici e struggenti: “… quel canto ilare e baldanzoso fu per Simone come il grido che sveglia di colpo l’assopito da un incubo; Come il ricordo improvviso di un discorso udito in un’altra vita, come il ritorno alla casa della puerizia, all’orto mattiniero, disteso fra il lago e le campagne, come una voce da tanto tempo dimenticata che illumina una vita come un lampo la notte. Allora si poté vedere, nell’incertezza dell’albore, un uomo che andava via come un ubriaco, col capo nascosto nel mantello, e le spalle scosse dai singhiozzi d’un pianto disperato”. Sono numerosi i capitoli che Papini dedica alle torture inflitte a Gesù, ben otto, quasi volesse raccontare in tempo reale, attimo per attimo, la sofferenza fisica e spirituale del Cristo. I toni sono realistici, forti, impietosi sia nel tratteggiare giudei, romani che lo stesso Gesù sotto il peso dei tormenti.

Il consiglio ebreo che giudica il Signore è un canile di spettri; i giudei sono vecchi, massicci, nasuti, arcigni, cipigliosi, chiusi nei manti bianchi, le teste coperte da un panno, le barbe carezzate e reverenziali, gli occhi pugnaci. Il Cristo in questo consesso, “sempre colla fune annodata ai polsi spinto in mezzo a codesto canile”, pareva il condannato ad bestias negli anfiteatri romani; Egli tace e i suoi silenzi sono gravi di una soprannaturale eloquenza che ha il potere di invelenire i suoi giudici. Tutto ciò fino alla domanda diretta di Caifa, alla quale Gesù non può non rispondere perché per quella suprema testimonianza è venuto.

I gaglioffi del Tempio prendono in consegna Colui che con le sue stesse parole si è condannato: “l’uomo bestia, quando è certa l’impunità, non conosce più bel sollazzo di questo: sfogarsi contro l’inerme, con maggior gusto quando l’inerme è innocente…”, poche parole che bastano a farci comprendere le bestialità cui fu oggetto l’Innocente per eccellenza.
Un altro personaggio di questo dramma è Ponzio Pilato, il procuratore romano: se da principio il giudizio che Papini da su di lui pare abbastanza attenuato, poi però non gli risparmia le sue incapacità, i suoi tentennamenti, o meglio, l’essersi mosso per ragion di Stato e non per amore di Verità: “Pilato, a forza di stratagemmi, di rinvii, d’indolenti interrogazioni, di mezzi termini e mezze misure, di titubanze, di risoluzioni maldestre e ringoiate, di mosse mal eseguite, si trovava ora precipitato lentamente dove non sarebbe voluto cadere…”. Unica nota luminosa e positiva Claudia Procula, la moglie del procuratore, che la Chiesa orientale venera come santa, poiché si è mossa a favore di Gesù.

Terribile il capitoletto Un re incoronato, per la crudezza di descrizione, per la violenza trattenuta a stento dalle parole nel suggerire le flagellazione. Il triste corteo con il condannato a morte procede alla volta del Calvario “… in cima alla callotta del Teschio le Tre Croci, alte, scure, colle traverse aperte, come giganti pronti all’abbraccio, campeggiano sul gran cielo amoroso di primavera. Non gettano ombre ma sono orlate dalle riverberazioni scintillanti del sole. È tanta la bellezza del mondo, in quel giorno, in quell’ora, che non sembra possibile pensare ai tormenti; non si potrebbe, quell’antenne di legno, fiorirle con fiori di campo e sospendere, dall’una all’altra, festoni di foglie nuove, mascherate i patiboli con muraglie di verdura e sedere all’ombra, fratelli riconciliati e benevoli, per tutta la siesta?...”. Stupiscono questi squarci lirici che frammezzano la narrazione dell’orrore, dell’odio degli uomini verso il Cristo, eppure Papini sceglie di procedere così: allenta la tensione di un narrare serrato con la calma e la tranquillità di questi paesaggi interiori.

Con quattro chiodi, impietosamente, Cristo è conficcato alla croce tra il clamore dei suoi avversari e il silenzioso compianto delle donne, della madre e di Giovanni. Accanto a lui soffre Dismas: “… in un impeto di fede, come se invocasse la comunanza di quel sangue che grondava nello stesso momento dalle sue mani di criminale e da quelle mani d’incolpevole, proruppe in queste parole: Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo Regno!”
“Il respiro di Gesù si faceva sempre più rantolante… Il cielo, ch’era stato limpido tutta la mattina, quasi improvvisamente si oscurò… Cristo è morto. È morto sulla croce come gli uomini hanno voluto, come il Figlio ha scelto e il Padre accettò. L’agonia è finita e i Giudei son contentati. Ha espiato fin all’ultimo ed è morto. Ora comincia la nostra espiazione – e non è ancora finita.“.

I capitoli conclusivi rivivono, con commozione intensa in cui balena la medesima esperienza trasfigurante dell’autore neo-convertito, gli episodi che dalla resurrezione si dipanano fino all’ascensione di Cristo al Padre. Veramente degna di nota è la preghiera finale, nella quale si condensa tutta la fede ardente di Papini: “Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per tutti noi che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso… Ma noi, gli ultimi, ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore.”

 

 

Fonte: http://universalautori.blogspot.it/2012/08/letteratura-papini-g-storia-di-cristo.html

L’intellettuale dissidente

Giuseppe De Robertis, la critica del saper leggere

Se c’è stato un critico, tra tutti quelli che contano nel Novecento, capace di pervenire ad un giudizio attraverso un modo tutto proprio di leggere e di capire un’opera letteraria, questi risponde al nome di Giuseppe De Robertis (Matera, 7 giugno 1888 – Firenze, 7 settembre 1963). Il critico nato a Matera ha dimostrato  infatti di dare peso come pochi all’atto del leggere; perché bisogna anche sapere leggere per poter essere in gradi di dar un giudizio valido come ha affermato lo stesso critico nel volume “Scrittori del Novecento”:<<Alla fine il vero modo di leggere si capisce dal modo come si giudica>>.

Nella sua città natale De Robertis compie gli studi ginnasiali e liceali, e nel 1907 si trasferisce a Firenze dove completerà anche gli studi universitari, allievo di grandi filologi e storici come Parodi, Mazzoni, Vitelli. Nel 1912 inizia  a collaborare con rivista letteraria <<La Voce>> e negli anni successivi ne diventa direttore con il consenso di Giuseppe Prezzolini suo predecessore. Durante la sua direzione, la rivista accoglie scrittori come Ungaretti, Cacchelli, Campana. Dopo aver insegnato materie umanistiche presso il Conservatorio di Firenze, nel 1920 gli venne assegnata la cattedra di Storia della letteratura italiana presso l‘Università di Firenze.

Da questo momento comincia la sua ricca produzione critica, scegliendo lo “Zibaldone” di Giacomo Leopardi e le poesie di Salvatore Di Giacomo, argomento peraltro della sua tesi di laurea. Dopo un breve periodo a Bologna, ritorna a Firenze per insegnare  materie letterarie presso il Conservatorio L. Cherubini.

Oltre a collaborare con le più importanti riviste del Novecento, tra cui Pegaso e Pan, De Robertis scrive interessanti analisi critiche,  di edizioni commentate, degli autori classici,  e specialmente le poesie di Poliziano, di Foscolo oltre che del già menzionato  Leopardi. Da queste analisi si percepisce l’attenzione che  De Robertis aveva nei confronti dei valori lirici ed un raffinato gusto per lo stile ai fini di creare un collegamento tra  fra critica militante e cultura accademica, tra critica dei classici e dei contemporanei.

Totalmente concentrato nella lettura, De Robertis fa di questo sua convinzione  un vero e proprio principio; non bisogna aggredire gli scrittori secondo De Robertis, ma bisogna entrare nel loro mondo in punta di piedi, discretamente, dato che la bellezza delle parole (il critico fa riferimento soprattutto alla poesia) non è facilmente accessibile e solo un modo giusto di leggere può permetterci di carpire se non tutto, almeno parte del segreto di un romanzo, di una poesia, di un racconto, di una novella.

L’approccio critico di De Robertis è simile a quello del suo collega ed amico Renato Serra, il quale si opponeva in gran parte alla critica rappresentata da De Sanctis e da Croce; <<De Robertis lavora con accresciuta coscienza storica dell’estetica>> come giustamente nota Giovanni Titta Rosa in “Vita letteraria del Novecento” (Secondo volume), allargando i suoi orizzonti critici, esercitando una grande esperienza poetica e letteraria.

Se Leopardi attraverso lo “Zibaldone” e “Le operette morali” ha fornito al critico un gusto raffinato, “I discorsi sulla lingua italiana” di Foscolo gli ha fatto ricordare quell’idea di arte vichiana e carducciana. Da qui, secondo Titta Rosa, <<si vede come questo lettore, che affida il suo giudizio critico al principio del “saper leggere”, le sue carte in regola le ripeta dai grandi; anche se poi gli può capitare di spenderle, ma con oculata discrezione, a contatto di varie occasioni>>.

La linea seguita da Giuseppe De Robertis è sincera e vera ma il suo è un metodo che necessita di una scelta; egli sa leggere perché, in fondo, sa scegliere i suoi scrittori, lasciandosi guidare dalle loro parole.

 

Renato Serra, il critico umanista

Poco riconosciuto dalla cultura italiana fortemente influenzata dall‘ estetica crociana, Renato Serra (Cesena, 5 dicembre 1884 – Monte Podgora, 20 luglio 1915) durante la sua breve esistenza (mori’ a soli 31 anni, colpito a morte davanti al Podgora durante la prima guerra mondiale), ha anticipato la figura dell’intellettuale antifascista, che avrebbe preso il largo nei decenni successivi, distaccandosi dalle analisi di Benedetto Croce. Riconosciuto più come critico poetico che letterario, Serra, inizialmente convinto della superiorità dell’essere  un uomo di lettere  rispetto all’esistenza ordinaria, ha preso coscienza dei limiti che quella condizione offriva; consapevolezza maturata proprio con l’avvento della guerra, di fronte alla quale il letterato è solo un uomo illuso.

Nato da una famiglia benestante e di tradizione risorgimentale, Renato Serra si forma presso il Regio Liceo Ginnasio Vincenzo Monti di Cesena dove termina gli studi a  soli sedici anni, senza sostenere l’esame di maturità dati i voti altissimi. Si  iscrive  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna e segue le lezioni di insegnanti  celebri come  Carducci e Severino Ferrari, di quest’ultimo apprezza molto anche le idee socialiste. Si laurea  nel 1904 con una tesi sullo “Stile dei Trionfi del Petrarca”.

Qualche anno dopo Renato Serra torna a Cesena, dove svolge  il servizio militare di leva, l’anno successivo  si trasferisce a Torino, e collabora  con Luigi Ambrosini alla creazione di un dizionario Italiano-Latino e pubblica molti articoli per la rivista <<La Voce>> entrando in contatto anche con Croce. Diviene anche  direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Carducciano e tradizionalista, Serra dovrà fare ben presto i conti due eventi che lo sconvolgeranno, uno di portata mondiale, la prima guerra mondiale (come si è  già accennato), e l’altro, privato, ovvero il matrimonio della donna che amava con un altro uomo. Questi fatti incideranno fortemente anche sul pensiero critico di Serra.

Il critico  riflette ed espone le sue posizioni nella sua opera più importante, “Esame di coscienza di un letterato” del 1915; egli condanna la guerra e gli intellettuali di propaganda, difende il valore salvifico della letteratura e la letteratura stessa come fosse una fanciulla in pericolo e lo fa con tutta la passione che lo ha sempre contraddistinto; è convinto che si vada in guerra per dare un significato alla propria esistenza, non per la patria, e questa profonda motivazione inizialmente ha spinto anche lui ad arruolarsi abbandonando ogni razionalità, ogni ragione intellettuale. Come afferma egli stesso: << […] non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione.>>

Esame di coscienza di un letterato

Renato Serra parte per il fronte ma dopo aver compiuto il suo esame di coscienza, dopo essersi confessato, dopo aver oscillato tra la voglia essere nella storia e di partecipare agli eventi e il desiderio, proprio degli intellettuali, di isolarsi dal mondo, contrapponendo alle barbarie del mondo la bellezza e la purezza della letteratura. Prevarrà la concezione ungarettiana della guerra come occasione per riscoprire il senso di umanità, la fratellanza tra gli uomini, un modo per rigenerarsi. Non c’è più alcuna superiorità intellettuale, nessun rifugio dalla storia (Serra ne rifiuta la concezione provvidenzialista-razionalista hegeliana), ma solo bisogno di sentirsi fratelli gli uni con gli altri, di condividere passioni (intese come pathos, sofferenza).

La poesia non può e non deve contemplare la bellezza ma  essere un mezzo per  promuovere un ‘esistenza  autentica e vera; con questo invito Serra preannuncia la stagione neorealista, la stagione dell’impegno sociale, strada che deve essere sempre percorsa da chi si dichiara uomo di cultura.  A differenza di Croce che pare non scandalizzarsi di fronte alle tragedie delle vita, non soffrire davanti alle sofferenze che la guerra porta, Serra è “umano”, come Carducci, il quale <<eleva l’arte all’uomo>>, e non è un caso  che il critico accosterà Croce a D’Annunzio.

Un critico da riscoprire e per molti da scoprire, da prendere come modello da tutti gli intellettualoidi odierni che si atteggiano a depositari della verità, sterili, imbrigliati nella retorica, senza aver compreso il valore rivoluzionario delle parole, il cui scopo è scrivere per convincere, estraneo al critico emiliano.

Se oggi fosse in vita, Renato Serra parlerebbe di “educazione al cambiamento”, e di “rivoluzione della coscienza” in un’epoca dove la critica letteraria “sembra” scomparsa.

 

 

Tzvetan Todorov: “La letteratura in pericolo”

In che direzione sta andando la letteratura? Qual è il suo destino? A queste domande tenta di rispondere il filosofo bulgaro Cvetan Todorov, studioso  del formalismo russo e di filosofia del linguaggio  con Barthes a Parigi, nel suo libro “La letteratura in pericolo”(Garzanti, 2008).

Si è occupato del ruolo del singolo di fronte alla Storia e delle sue ragioni sociali (“La conquista dell’America” del 1984,“Noi e gli altri” “del 1989,”Le morali della storia” del 1991, “Una tragedia vissuta” del 1995, “Il nuovo disordine mondiale” del 2003)

La letteratura per Todorov è una missione, aiuta a svelare l’uomo e la natura, aiuta a vivere; non ama i tecnicismi, non è sostenitore dell’insegnamento fine  a sé stesso di nozioni metriche e retoriche, tenuto troppo in considerazione dalle scuole e dalle università. Questo tipo di approccio letterario, secondo, Todorov, finisce per far disamorare i ragazzi nei confronti della letteratura; c’è bisogno invece di svoltare verso la semantica, l’interpretazione delle medesime nozioni, il gusto estetico.

L’errore risiede, secondo il critico, nel presentare un’opera letteraria come un mondo a sé, chiuso, senza alcun rapporto verso l’esterno; come potrebbe quindi quest’opera suscitare ben altre emozioni, stupore, meraviglia verso i lettori?

Oltre ad individuare nel metodo di insegnamento sbagliato, i motivi della mancanza di curiosità  e di amore verso la letteratura, Torodov traccia una lineare e appassionante storia dell’estetica moderna e contemporanea, ovvero quella branca della filosofia che si occupa della conoscenza del bello naturale, artistico e scientifico, del giudizio, sia morale che spirituale. Tutto comincia con la sentenza pronunciata da Hegel, secondo il quale l’arte si sarebbe dovuto estinguere dal punto di vista concettuale, cosa che è accaduta con l’avvento delle avanguardie novecentesche per poi giungere, più recentemente, ad una ricerca caratterizzata dall’abbandono di determinati archetipi e alla nascita di due scuole di pensiero: l’estetica analitica americana (si concentra sull’analisi concettuale dell’arte) e l’estetica continentale (come scienza della percezione). A queste due poi se ne aggiunge una terza: la neuro estetica che scaturisce dalla neuroscienza.

Nell’età moderna e contemporanea sono il sentimento e la soggettività al centro della riflessione, accanto alla verità matematica e filosofica c’è anche quella poetica,storica e retorica: l’arte e il bello sono concetti individuali e storici, che si appellano non all’intelletto ma  al sentimento, per cui la bellezza non è più giudicata come raggiungimento di perfezione prestabilita. Se per Nietzsche il sensibile e il corpo assumono un’importanza assoluta, per Benjamin l’arte durante il Novecento ha perso esemplarità a vantaggio delle tecnica rappresentata dal cinema e dalla fotografia.

Si arriva dunque, passando per Croce e la sua estetica come scienza dell’intuizione, inscritta in un sistema (come lo era anche per Hegel del resto) all’estetismo, alla tendenza dell’arte a farsi mondo, e alla tendenza del mondo a farsi arte.

Alla luce di queste riflessioni, di queste evoluzioni di pensiero, di questo relativismo, che possono generare confusione, Torodov tuttavia è ottimista, per lui la letteratura è una fonte inesauribile di comunicazione, un mezzo formidabile che tende ed ambisce all’universalità, che contribuisce alla costruzione di una prima immagine verosimile del mondo,ma che va incentivato e promosso nel modo giusto.

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